Title: Le nobiltà et l’eccellenza delle donne: co’ diffetti, et mancamenti de gli huomini. Discorso di Lucretia Marinella, In due parti diviso Author: Lucrezia, Marinella (1571–1653) Date of publication: 1600 Edition transcribed: (Venice: Giovanni Battista Ciotti, 1601) Source of edition: Gale Centage Learning, Nineteenth Century Collections Online Transcribed by: Marco Piana, Martina Orlandi, Lara Harwood-Ventura, Tanya Ludovico, Cassandra Marsillo, and Stefania Gaudrault Valente, McGill University, 2017. Transcription conventions: “Intervocalic v” transcribed as "u", as per the original. We decided, however, to normalize all initial "v" as "v", since they were sometimes v, sometimes u, no real logic or coherence in the original. Marginal notes have been included as comments only viewable in the .doc file, not viewable in the .txt file. Status: Completed, version 1.0, September 2017. Produced as part of Equality and superiority in Renaissance and Early Modern pro-woman treatises, a project funded by the Social Sciences and Humanities Research Council of Canada. TEXT BEGINS FOLLOWING THIS LINE LA NOBILTA, ET L’ECCELLENZA DELLE DONNE, CO’ DIFFETTI, ET MANCAMENTI DE GLI HUOMINI DISCORSO DI LUCRETIA MARINELLA, IN DUE PARTI DIVISO. Nella prima si manifesta la nobiltà delle Donne co’ forti ragioni, et infiniti essempi, et non solo si distrugge l’opinione del Boccaccio, d’amendue i Tasi, dello Sperone, di Monsig. di Namur, et del Pasi, ma d’Aristotile il grande anchora. Nella seconda si conferma co’ vere ragioni, et co’ varii essempi da innumerabili Historici antichi, et moderni tratti, Che i Diffetti de gli huomini trapassano di gran lunga que’ delle Donne. Ricorretto, et Accresciutto in questa seconda Impressione. CON PRIVILEGIO, ET LICENZA DE’ SUPERIORI IN VENETIA, M. DCI. Appresso Gio. Battista Ciottu Sanese, All’Insegna dell’Aurora. Gli Eccellentissimi Signori Capi dell’Eccelso Consiglio di X. Havuta fede dalli Signori Reformatori dello studio de Padova per relatione delli tre à ciò Deputati cioè del Rever. P. Inquisitor, del Cera Secretario, Gio. Maraveglia, et de Sier Lucio Scarano Lettor publico, che nel Libro intitolato la Nobiltà, et Eccellenza delle Donne et i Difetti, et mancamenti de gli huomini. Da essi veduto, et letto, non si trova cosa contra le leggi, et è degno di Stampa. Dat. Die quarta Maii 1601. Domino Zorzi Foscarini Domino Andrea Minoto Capita Illustriss. Cons. Decem. Domino Antonio Lando Illustriss. Cons. Decem Secret. Bonifacius Antelmo. ALL’ECCELLENTISS. SIGNORE, IL SIGNOR LUCIO SCARANO, Medico, et Filosofo Nobilissimo. Se colui vien riputato, et tenuto da ogn’uno ingrato, et discortese, che havendo ricevuto da alcuno qualche segno di honore, non li rende contracambio, overo almeno con infinite, et innumerabili gratie non si scusa della sua impotenza. Sarò io senza alcun dubbio in fin’ hora stata per l’ingratitudine degna di riprensione, già che da Vostra Signoria Eccellentissima in una sua Lettione fatta nella Libraria della Serenissima Signoria di Venetia fui con le sue lodi inalzata in fino al Cielo nelle cose di Poesia; ma ella da me ne ringratiata, ne con altro cortese segno punto fu riconosciuta. Hora desiderando di emendar il già commesso fallo, le dedico questa mia fatica della Nobiltà delle Donne, per i sgravarmi in parte dell’obligo ch’io tengo con esso lei: et se il dono è picciolo à rispetto delle lodi grandi da lei a me date; faccia ella, che in qual che parte lo pareggi à loro la singolare amicitia, ch’ella hebbe con l’Eccellentissimo Signor Giovanni mio Padre, et con quella, che hora tiene con l’Eccellentissimo Signor Curtio mio fratello, et insieme accetti il pronto animo della debitrice: et Dio la rendi felice. Di casa, il dì 9. d’Agosto. 1600 Di V.S. Eccellentissima Come figliuola Lucretia Marinella. TAVOLA DE CAPI PRINCIPALI, Che nella prima parte si contengono. Della nobiltà de’ Nomi, co’ quali è adornato in Donnesco sesso. Cap. 1. c.3 Delle cause, dalle quali dipendono le Donne. Cap. 2. c.9 Della natura, et essenza del Donnesco sesso. Cap. 3. c.11 Delle ragioni tratte dalle nobili operationi, et da i detti de gli huomini verso le donne. Cap. 4. c.24 Delle Nobili attioni, et Virtù delle Donne, le quali quelle de gli huomini di gran lunga superano, come con ragioni, et essempi si prova. Cap. 5. c.30 Delle donne scientiate, et di molte arti ornate. Cap. 1. c.37 Delle Donne Temperate, et continenti. Cap. 2. c.44 Delle Donne forti, et intrepide. Cap. 3. c.55 Delle Donne prudenti, et nel consigliate esperte. Cap. 4. c.64 Delle Donne giuste, et leali. Cap. 5. c.68 Delle donne Magnifiche, et cortesi. Cap. 6. c.69 Delle donne nell’arte militare, et nel guerreggiare illustri, et famose. Cap. 7. c.76 Delle sofferenza, et toleranza delle donne. Cap. 8. c.85 Delle donne di forti membra, et della dilicatezza sprezzatrici. Cap. 9. c.88 Dell’amor delle Donne verso i Padri, i Mariti, i Fratelli, et i Figliuoli. Cap. 10. c.92 Dell’amore delle donne verso la Patria. Cap. 11. c.98 Risposta alle leggierissime, et vane ragioni addotte da gli huomini in lor favore. Cap. 6. c.108 Opinione di Ercole Tasso, et di Monsignor Arrigo di Namur narrata, et rifiutata. c.121 Opinione dello Sperone raccontata et distrutta. c.126 Parere di Torquato Tasso addotto, et rifiutato. c.128 Opinione del Boccaccio, qui addotta, et distrutta. c.131 TAVOLA DE CAPI PRINCIPALI, CHE Nella seconda parte si contengono. De gli huomini avari, et desiderosi di denari. Cap. 1. c.138 De gli invidiosi. Cap. 2. c.149 De gli incontinenti, cioè Golosi, Ubbriachi, et Sfrenati. Cap. 3. c.154 De gl’iracondi, bizzarri, et bestiali. Cap. 4. c.166 De’ Superbi, et Arroganti. Cap. 5. c.171 De gli Otiosi, Negligenti, et Sonnacchiosi. Cap. 7. c.174 De gli huomini Tiranni, et usurpatosi de gli Stati. Cap. 7. c.177 De gli Ambitiosi, et Cupidi di gloria. Cap. 8. c.181 Delli Vanagloriosi, et Vanatori. Cap. 9. c.185 De gli huomini crudeli, ingiusti, et micidiali. Cap. 10. c.189 De gli huomini Fraudolenti, Traditori, Persidi, et Spergiuri. Cap. 11. c.204 De gli Ostinati, et Pertinaci. Cap. 12. c.214 De gli huomini ingrati, et discortesi. Cap. 13. c.215 De gli huomini incostanti, et volubili. Cap. 14. c.218 De gli huomini maligni, et che agevolmente odiano altrui. Cap. 15. c.221 De gli huomini ladri, assassini, corsali, et rapaci. Cap. 16. c.222 De gli huomini vili, paurosi, et di poco animo. Cap. 17. c.230 De gli bestemmiatori, et sprezzatori di Dio. Cap. 18. c.236 De gli huomini Incantatori, Magi, et Indovini. Cap. 19. c.245 De gli huomini bugiardi, et mendaci. Cap. 20. c.254 De gli huomini gelosi. Cap. 21. c.256 De gli huomini ornati, politi, bellettati, e biondati. Cap. 22. c.262 De gli huomini Heretici, et inventori di nove fette. Cap. 23. c.271 De gli huomini lagrimosi, et teneri al pianto. Cap. 24. c.272 De gli huomini giucatori. Cap. 25. c.275 De gli huomini maldicendi, et falsi incolpatori. Cap. 26. c.279 De gli huomini loquaci, et cicaloni. Cap. 27. c.284 De gli huomini smemorati. Cap. 28. c.286 De gli huomini di poco ingegno, et pazzarelli. Cap. 29. c.288 De gli Ucciditori delle Madri, de Padri de Fratelli, delle sorelle, et de Nipoti. Cap. 30. c.292 De padri, che uccisero i propri figliuoli. Cap. 31. c.297 De gli Hipocriti, et santoni. Cap. 32. c.302 De gli seditiosi, et tumultarii. Cap. 33. c.306 De gli huomini Ignoranti, et goffi. Cap. 34. c.318 De gli Adulatori. Cap. 35. c.321 DEL MAGNIFICO SINOR ANTONIO SABELLI Alla Medesima. Tu che con verità scopri, e riveli. Del crudel sesso maschio i vitii horrendi, Con dotte prose, e chiare, e illustri rendi, Le nobil donne, e le lor glorie sueli. E fra’l suo horror, ch’in parte copri, e celi, Lo donnesco splendor fai, ch’arda, e splendi. Facile impresa, e più fatica prendi, A far, ch’alquanto il vitio d’huom si celi. Facile il tutto è à te, che di Colomba Già cantasti la morte, e’l voler giusto, Con dolce stil, che’l mondo equal con ode. Del Serafico Heroe per te rimbomba, (Vergine Gloriosa) il nome augusto, Talche in rime, et in prose eterna hai lode. SONETTO DEL MOLTO ILLUSTRE SIGNOR IL SIG. ORATIO VISDOMINI ALLA MOLTO MAGNIFICA SIG. LA SIGNORA LUCRETIA MARINELLA. POCO è il mostrar, ch’à noi risplende il Sole. Ch’arde il foco, il Ciel gira, e bagnan l’onde, Che di Febo al venir l’horror s’asconde, E che Flora habbia in sen rose, e viole. Meno è scoprir, che l’eccellenza a inuole, La donna à l’huom con sue virtù profonde, Ch’uopo non è mostrar quel, che diffonde Luce per se d’alte bellezze sole. Sai tu, che saria l’huom privo di questo, Di Natura, e del Ciel gran merauiglia, Donna, gran don di Dio, luce del mondo? Una bestia seluaggia, et un molesto, Peso a la terra, ch’a; mal sol s’appiglia. For senato, crudel, vile, et immondo. P.1 DELLA NOBILTA, ET DELL’ECCELLENZA DELLE DONNE, ET DE GRAVISSIMI Diffetti de gli Huomini. DISCORSO DI LUCRETIA MARINELLA. Diviso in due Parti. DIVISIONE DI TUTTO il Discorso. Sogliono tutti i coloro, che di alcuna materia, over soggetto trattano essere spinti, et mossi da qualche determinato fine: percioche molti sono, che desiderosi, che la verità di quello, che scrivono, sia da tutti conosciuta, si affaticano vigilando dies noctesque serena, et ogni diligenza usano non solamente nella inuentione della materia: ma anchora di renderla con polito modo di dire chiara, et aperta a’ diligenti lettori. Alcuni altri sprezzando la verità in molte cose di Filosofia solo spronati da viuacità, et da prontezza d’ingegno cercano con ogni studio possibile di far credere al mondo, che il vero sia falso, il bene male, et il brutto sia bello, et amabile, et con ragioni apparenti bene speso ottengono il tanto da loro desiato fine. Non pochi si ritrouano, che mossi dall’inuidia, che portano alle nobili attioni d’alcuno con la mordace penna cercano d’offuscarle, et anco d’annul- P.2 -larle, lequali nondimeno bene spesso ad onta loro più sormontano, et al Cielo più s’innalzano. Et finalmente non mancano scrittori, che stimolati da odio, o da fiero sdegno con copiose menzogne vanno detrabendo l’altrui fama, et honore. Sono i primi per loro stessi degni di lode. I secondi non sono in tutto da essere vituperati, già che di cosi nobili ingegni ornati sono, ma ben degni di biasmo reputano tutti gli huomini coloro, che ò da inuidia, ò da particolare odio si mouono. Io in questo mio discorso voglio seguire i primi, come quella, che è desiderosa, che questa verità risplenda appresso ad ogn’uno, la quale è, che il sesso feminile sia più nobile, et eccellente di quello de gli huomini; et spero cosi manifestarla con ragioni, et essempi, che ogni huomo, ancor che pertinace, sarà sforzato con la propria bocca à confermarla. Si avvicinnò alla cognitione di questa verità Plutarco, et Platone quel grande nel Dialogo settimo della Republica, et in molti altri libri, ne quali mostra che le donne sono di cosi alto valore, et ingegno, come i maschi. S’avicinò, dissi; percioche non pensarono tanto oltre, che conoscessero le donne esser più degli huomini eccellenti, et nobili. Odio me, ò ver sdegno non moue, meno inuidia; anzi da me se ne stà lontanissima; percioche io non ho desiderato, ne desidero, ne mai desidrerò, anchor ch’io vivessi più tempo di Nestore, di essere maschio; ma credo ben io. Che ò sdegno, ò odio, ò invidia mouesse Aristotile in diversi libri à dir male, et à vituperare il sesso Donnesco; si come anco biasmò in molti luoghi il suo Maestro Platone. Et similmente io penso, che si sia mossi à scrivere in libro intitolato i Donneschi diffetti Giuseppe Passi Ravennate Academico informe. Se inuidia, e sdegno, ò altro lo habbia mosso, io non lo saprei ben dire; ma Dio gli perdoni. Diuiderò questo mio discorso in due parti principali: nella prima tratterò le noblità, et l’eccellenza della donne, laqual sarà diuisa in sei principali capi; ma il quarto contenerà sotto di se undeci capi particolari. Nella seconda parte spiegherò i Diffetti, et le brutture de gli Huomini, laqual sarà da me diuisa in trentacinque capi. Et incominciando dalle Eccellenze delle donne, mostrerò, che quelle trapassano i maschi nella nobiltà de nomi, delle cause, della propria natura, delle operationi, et de’ detti de’ maschi verso di quelle. Et finalmente risponderò alla leggierissime ragioni, che tutto giorno sono da i poco prudenti, et poco saggi huomini contra noi addotte. P.3 Della nobiltà de’ Nomi, co’ quali è adornato il Donnesco sesso. Cap. 1. Non è dubbio alcuno, che i propri nomi, co’ quali si chiamano le cose, dimostrano, et fanno manifesta la natura, et essenza di quelle, se però à dotti Filosofi noi vogliamo alcuna fede prestare, i quali costantemente affermano, che i nomi ci guidano nelle cognitione della cosa nominata, questo affermò fra gli altri Avuerroe addotto però dall’auttorità d’Aristotile nel libro ottauo della Metafica. Onde è di mestieri, anzi è necessario il credere, che non à caso, come alcuni poco scientiati, et nell’arti poco periti credono; ma che con somma prudenza sieno i nomi propri de gli huomini ritrouati, et poscia con grandissima ragione posti. Ma gli antichi Egittii et i saui Chaldei non credeuano già, che da gli huomini fossero ritrouati i nomi, co’ quali si chiamano le ragioneuoli creature: ma che dal Cielo dipendessero, il quale non solamente piegasse l’animo di colui, che’l nome imponea, ma che con una certa violenza lo sforzasse à nomare una tal particolar donna, o huomo con un tal determinato nome: inguisa che non se li potesse in alcun modo un altro porre, et da lor fatta con lunghissima sperienza una osseruatione, cioè tra nomi, et l’operationi delle cose nominate, fabricarono una nuoua arte, ò scienza chiamata Nomandia per mezo della quale si presumeuano di hauere una sicura, et certa cognitione della natura, et operatione non solamente de gli huomini in particolare: ma di ciò, che nel mondo si ritrouaua, laqual sicenza fu appresso i Theologi Hebrei molto stimata, et pregiata. Di quanta forza fossero i nomi, et sirno lo dimostra Iamblico nel libro intitolato de mysteriis Aegyptiorum, che afferma, che i nomi scuoprono, et dimostrano non solamente l’essenza, et potenza delle cose nominate; ma anchor di Dio; onde senza alcun dubbio noi affermeremo quella cosa esser più nobile, et singulare, laquale sarà ornata di più degno, et honorato nome. Ma chi dubiterà giamai che il Donnesco sesso non sia ornato di più degni, et di più chiari nomi del sesso de’ maschi? Niuno à giuditio mio, se noi andaremo considerando la forza de’ nomi, co’ quali egli si noma. Sono i no- P.4 -mi, che rendono degno di honore questo sesso, cinque di numero, tratti da diverse lingue, cioè Donna, Femina, Eva, Ischiah, et Mulier, nomi tutti nobili, et pregiati. Et per incominciare dal primo. E cosa nota ad ogn’uno, che questo nome di Donna deriva da Domina voce latina, che significa Signora, et Padrona, nome pur d’Imperio, e di potenza regia, ilquale non solamente appresso noi è in uso; ma etiandio fù da gli antichi usato. Chiamavano gli Spartani, come scrive Plutarco nella vita di Licurgo, le donne con una voce, che significava Signore, et Epitetto nel suo Enchiridion a cap. 55. lasciò scritte queste parole. Mulieres à tertiodecimo anno vocantur. Et Claudio Cesare conoscendo l’eccellenza delle donne chiamava la moglie signora. Il che fece anco Adriano Imperatore. Et fino al tempo di Homero si honorava questo sesso con si illustre nome. Onde nel libro terzo dell’Odissea, parlando della moglie di Nestore nel latino cavato dal greco, si legge. Cui Domnia uxor lectum suum strauit. Et nel settimo, ragionando di Alcinoe. Quem suis ipsa manibus Domina construerat. È tanto pieno di nobiltà questo nome di Donna: che non solamente i Duchi: ma i Regi più grandi se lo usurpano, et attribuiscono. Onde si dice Don Cesare da Este Duca di Modona, Don Vicenzo Gonzaga, et Don Filippo d’Austria Re di Spagna. Et etiandio i Poeti considerando l’eccellenza di questo nome lo addattarono a Dei, et a qualunque cosa, che significa dominio, et signoria. Onde il Petrarca, ragionando d’Amore, disse. Per inganni, e per forza è fatto Donno. Et Dante Ch’hebbe i nemici del suo Donno in mano. Et Torquato Tasso, parlando del sonno nel canto decimoquarto, a stanza 94. Quel serpe à poco, à poco, e si fa Donno. Sopra i sensi di lui possente, e forte. Et non contenti di hauer fatto questo gran nome mascolino, ne hanno fabricati, e verbi, et adverbi tutti denotanti signoria, et dominio. Onde volendo il Boccaccio nelle sue Novelle dir signorilmente, disse quasi Donnescamente la Reina impose ad Elisa, che seguisse. Uso il Petrarca Indonnare per signoreggiare, dicendo. Fiamma d’Amor, che’n cor alto s’indonna. P.5 Et Dante. Per quella riverentia, che s’indonna. Da tutte queste chiarissime auttorità de Scrittori addotte si vede apertamente, che questo nome di Donna (inuero come dice il Guarino, Secretario del gran Duca di Toschana, Don del Cielo) denota signoria, et imperio: ma placido dominio à punto corrispondente alla natura della Dominante. Che s’ella signoreggiasse à guisa di Tiranno, come fanno i poco cortesi maschi, forse starebbono mutoli l’insolenti detrattori di questo nobil sesso. Sono alcuni. Che credono, che il nome di Donna non si convenga à tutto il sesso feminile, et n’escludono le vergini; della quale opinione è Giuseppe Passi, parendoli che un tal nome sia troppo nobile per adattarlo à tutto il sesso; ma io con le auttorità de’ Poeti, et de’ Prosatori dimostrerò chiaramente, che questo nome di Donna, etiandio alle Vergini conuiene. Diede l’Ariosto il nome di Donna ad Angelica nel primo can. pur Vergine dicendo. La donna il palafreno à dietro volta. Et parlando di Bradamente nel secondo canto dice. La donna amata fu da un Cavaliero, Che d’Africa passò col Re Agramente. Et altrove ragionando pur di Bradamante. Cosi l’elmo levandosi dal viso Mostrò la donna aprirsi il paradiso. Et di Marfisa. Voglio seguir la bellicosa donna, Laqual chiamò la Vergine Marfisa. Et il Trissino parlando di Sofia pur Vergine, la chiamò mille volte donna nel lib. 3. dell’Italia liberata; et Torquato Tasso mentre ragiona della Vergine Soffronia, la chiama altera donna; et di Clorinda, che guereggiava con Tancredi dice nel Canto 13. stan. 53. La fortissima donna non diè crollo. Et nella stanza 66. Passa la bella donna, e par che dorma. E cosi d’Erminia. Et il Cavaliere Gaurino nel suo Pastor fido introducendo Mirtillo à lamentarsi di Amarilli dice. La mia donna crudel più dell’inferno. Et parlando di Dorinda. P.6 Gia che di donna in lupo ti trasformi. Et in altri infiniti luoghi. Fra Prosatori. Non ci è il Boccaccio nelle Novelle, nel Laberinto, nella amorosa Fiammeta, et in ogni libro? Ma à che mi affatico io in provar quello, che ad ogn’uno è noto, et palese? Ne punto è contraria a questa opinione quella rima del Petrarca, ove dice. La bella giovanetta, c’hora è donna. Percioche il Petrarca hebbe riguardo à l’età, et non à l’esser Vergine; perche nella età di trenta anni, ò quaranta non si dirà giovinetta: ma donna, et questo si conosce apertamente dalle rime antecedenti, ove egli cosi scrive. Onde s’io veggio in giovinil figura Incominciarsi il mondo a vestir d’herba Parmi vedere in quella etade acerba La bella giouiuetta [giouinetta], c’hora è donna. E questo basti quanto al nome di Donna. Il secondo nome dal latino derivato è femina, il cui significato è cosi alto, et nobile, che pochi nomi a questo si possono agguagliare, ò vogliamo, che cosi si chiami a fetu, ò parto, come vuole Isidoro, ouer che derivi da Sos greco, che significa fuoco; percioche nel primo modo la femina dinota produttione, ò generatione, come lasciò scritto Platone nel Chratillo, che è attione dignissima fra tutte le operationi de viventi, che dipende à punto solamente da’ perfetti viventi, come sono le donne: se adunque cosi è, come si vede continuamente; come ardirà alcuno di negare, che il nome di femina non sia singolare, et grande? Già che da lei dipende cosi nobile attione, ch’è il generare. Nel secondo modo significa fuoco tra tutte le cose forsi di questo mondo inferiore, la più utile, et la più bella. Onde volendo alcuno dimostrare l’agilità, et la prontezza nell’operare, et la nobiltà d’alcuna cosa l’assomiglia al fuoco; essendo egli il più attiuo fra gli Elementi, et de’ misti la perfettione. Anzi che molte persone pensarono, che l’anima istessa fosse calore, o fuoco. Due cose merauigliose si scoprono nel fuoco, il calore, et lo splendore, mirabili eccellenze, che portano tanta utilità à viuenti. Chi produce, e feconda più del calore? Che cosa più bella, et utile si trova al mondo della luce? O che mirabil nome è questo di femina molto più nobile di quello di Donna; percioche il primo significa signoria, et dominio, et questo secondo P.7 causa producente, et fuoco senza il cui calore non è la vita, et leuata la luce si può dire che languirebbe il mondo, ò almeno la natura. O che doti eccellenti, ò che doti rare di tal nome; ond’io fra me stupisco, come questo nome di femina non sia piu in uso, che quello di Donna. ma questo è accaduto per una certa mala consuetudine di parlare: anchor che il Bocca. usi souente questo nome di femina con aggiunto honorato, cosa che non concede il Passi, dicendo femina nobile, et virtuosa, et l’Ariosto parlando di due donne, lequali erano state cagione della morte de duoi ribaldi figliuoli di Marganore dice. Due femine à quel termine l’ha spinto. Usò etiandio la voce di femina senza tristo aggiunto il Guarini introducendo à parlare il Satiro dicendo. Maledetta Corisca, e quasi dissi quante femine ha il mondo. E Torquato Tasso nel suo Torrismondo disse, le femine Noruegie. Onde si vede che il nome di femina è con buono, et tristo aggiunto, si come anco, di donna. è il terzo nome Eva voce antichissima, che dinota vita, dalla quale dipende l’essere di tutte le cose del mondo, et in particolare delle cose animate. anzi che molti vogliono, che il nome di vita solo alle cose animate si conuegna. la qual eccellenza quanto sia nobile, hora non mi estenderò à raccontarlo; dipendendo dalla vita l’essere, et tutte le operationi; et pero con ragione è attribuito questo nome al sesso feminile, si come quello: che dà l’essere; et la vita à maschi. Che si puo dir più? Che dar l’essere, et la vita: onde questo nome trapassa gli antecedenti; percioche il primo dinota signoria, il secondo produttione, et fuoco; ma questo vita, et anima, suprema perfettione di tutte queste cose inferiori. Il quarto nome è Ischiah, che significa fuoco, ma molto diuerso dal fuoco primiero; perche questo nome dimostra un fuoco celeste, diuino, et incoruttibile, la cui natura è di perfettionare l’anima ne nostri corpi chiusa, di eccitarla, illustrarla, et in somma renderla partecipe di diuina perfettione, allontanandola da ogni bruttezza terrena. si vede risplendere questo celeste fuoco nella bellezza del corpo del sesso donnesco, come al suo luogo proveremo, che si puo dire di questo nome? Se non che si come le celesti cose sono piu nobili delle terrene, cosi che questo superi di gran lunga tutti gli altri, già che gli P.8 huomini rende partecipe di diuina essenza. Onde si può ben chiamare infelice quell huomo, che si trova haver priva la casa d’un tal fuoco, che lo ecciti, et suegli à contemplare il Cielo. Il quinto, et ultimo nome è Mulier, voce latina, che significa molle, et delicato, se al corpo il nome applichiamo; ma se all’animo, mansueto, et benigno. Onde all’uno, et all’altro modo sempre risulta in lode della donna; perci che le carni morbide, et delicate argomentano, che l’ingegno in quel tale sia più atto ad intendere, che non farebbe fra carni ruuide, et aspre. Queste insegna Aristotile dicendo Molles carne apti mente. Se all’animo, che è piu lodata della mansuetudine, et clemenza? ma cosi sono unite insieme queste due eccellenze, che importano questo nome Mulier, che non si può per modo di dire ritrouar l’una senza l’altra; percioche non si vede sotto un molle, et delicato corpo ascosa anima d’horrida fera, ne sotto ruuide, et horride spoglie celarsi un animo benigno, et mansueto. Concluderemo adunque da tutte queste cose il nome Mullier non esser molto inferiore à tutti gli altri narrati: ma ancor egli essere di non poco valore, et pregio. Sono questi i nomi, co’quali è adornato questo honorato sesso à giuditio mio, si come io ho chiaramante prouato i più illustri, et singolari nomi, che da bocca humana si potessero esprimere. O che nomi rari, merauigliosi, et degni: già che dinotano, et significano tutte quelle merauigliose eccellenze, che nel mondo si ritrouano, et ritrouar si possono. ceda pur à voi ogni altro nome, già che denotate produttione, et generatione; fuoco; et splendor del mondo; anima, et vita; Raggio diuino, et celeste; delicatezza; et elemenza: et finalmente dominio, et signoria. Onde si può dire ordinando insieme tutti questi nomi; che la donna produca il poco cortese maschio, li dia anima, et vita; lo illumini con lo splendor della divina luce; lo conserui in questa terrena spoglia co’l calore, et con la luce; lo renda al contrario delle fiere d’animo affabile, et cortese; et finalmente lo signoreggi con un dolce, et non punto tirannico impero. Dio immortale che piu chiari nomi adunque si ritrouano al mondo dì questi? che sono tanto nobili, che significano Vita, Producente, Fuoco, Clemenza, et Signore. Et questo voglio, che basti intorno alla dichiaratione de’nomi attribuiti al sesso feminile; et alle cagioni me ne passo. P.9 Delle cause, dalle quali dipendono le Donne. Cap. II Due sono le cagioni, dalle quali la femina dipende. ma non solamente quella; ma etiandio ogni altra cosa, di che questo nostra mondo è adorno. Una delle quali è chiamata causa efficiente, ò poducente, et l’altra materiale. Se della procreante io parlo, non è dubbio alcuno, che sola cagione, et origine producente è Dio; Onde à prima vista quasi parerebbe, che tutte le cose fossero di una medesima prefettione; percioche dipendono de una istessa causa; ma se piu à dentro anderemo considerando, noi vedremo apertamente, che sono state da una istesa causa generate, ò create: ma con diversa Idea però furono dall’eterno fabro prodotte; percioche quella medesima cortese mano creò gli angeli, i cieli l’huomo, et la rozza, et opaca terra. tutte però cose in perfettione differenti: perche nobilissimi sono gli angeli, men nobili gli huomi, nobili i Cieli, et ignobilissima per cosi dire la terra, et pur dipendono da uno istesso Creatore, le quali cose sono et meno pregiate, et piu degne, secondo che da esso Creatore sono state formate, ò per parlar piu particolarmente, secondo che da men nobile, ò da più singolare Idea dipendono. Onde Dante volendo dimostrare la diuersità de gli effetti della somma bontà disse nel suo Paradiso. La gloria di colui, che’l tutto moue Per l’uniuerso penetra, e risplende In una parte piu, e meno altroue. Si scoprono adunque non solamente nelle cose già dette diuersi gradi di perfettione, ma in tutto quello, che nel mondo si troua. come nella diversità de gli animali, animanti, et misti. Tra quali alcuni piu perfetti, et altri meno perfetti sono. tutti però dipendenti da una istessa causa. Se adunque cosi è, come veramente è; perche non potrà essere la donna piu nobile dell’huomo, hauendo ella piu rara, et eccellente Idea, di lui, come dalla natura sua manifestamente si puo conoscere? Della qual nel capo seguente io lungamente tratterò. Sono le Idee, secondo i Platonici, eterni essempi, et imagini delle cose, lequali come in proprio albergo sono nella P.10 mente della superna potenza auanti la lor creatione, et però Leone Hebreo ciò considerando chiamò le Idee precognitioni diuine delle cose prodotte; percioche Dio auanti, la creatione delle cose haueua l’imagini nella mente di quello, ch’egli volea creare: ma io volgio darui uno essempio, che s’auicini à questa natura dell’Idea più però che sia possibile chiaro. Fingiamo adunque, che un Pittore voglia dipingere la bella Venere, ò che uno Architettore voglia fabricare un bellissimo palagio non è dubbio alcuno, che auanti, che il Pittore incominci à dipingere, et à lienare, haurà determinato nella sua mente la spetie della figura, che egli vuol dipingere. Et poi incomincierà à porre in luce l’imagine, che nella mente formata hauea, et cosi anco il saggio Architettore; quella cosa adunque, ò imagine, che hanno nella lor mente, si addimanda Idea, ò essempio della Dea Venere, ò del Palagio, che si ritroua nella mente dell’Artefice inanzi la fabrica, ò la pittura. Da questi essempi io credo, che notissimo sia ad ogn’uno, che cosa sia Idea, et anco credo, che sarà chiaro similmente, che più nobile sarà l’Idea di un superbo, et ben proportionato Palagio, che non sarebbe quella di un pouero, et sproportionato Tugurio, et cosi di una leggiadrissima Ninfa, che quella di un rustico, et difforme Satiro. Hora applicando l’essempio al proposito mio dico, che più nobili sono l’Idee delle donne, che non sono quelle de’maschi; come argomenta la beltà, et bontà loro. pur do ogn’uno conosciuta; percioche non si troua Philosopho, ò Poeta, che non attribuisca quella à loro, et non à maschi, et oltre à ciò io affermo, che più bella, et nobile Idea habbi una dona più gratiosa, et ornata di beltà, che non ha una men bella, et men vezzosa; percioche anco d’alcuni particolari sono l’Idee, come racconta Marsilio Ficino, et molti sacri Dottori, et manifestamente lo dimostra Luigi Tansillo dottissimo Platonico in una sua canzone dicendo. Tra le più sante Idee, tra le più belle Che in grembro à la diuina, e primamente Riserbasse l’eterno lor fattore Splendea la vostra in Ciel non altramente, Che in bel seren la Luna tra le stelle. Dallequali parole si comprende, ch’etiandio delle donne particolari vi sieno nella mente superna le Idee. cosi lasciò scritto anchora il Petrarca mentre vuol lodar Laura con tai parole. P.11 In qual parte del mondo, in qual Idea Era l’essempio, onde natura tolse Quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse Mostrar qua giù, quanto la su potea. O come egli spiega a dottissimamente la natura dell’Idea. et come ch’ella si troui auanti la cosa creata, chiamandola essempio, et la Mente Idea, modo usato di Parlare. Manifestò similmente il Bocca, nell’amorosa visione con tai parole questo. Et da cui Idea pigliasse la misura Et cosi bel disegno, e chiara luce Sapria’l mal dir vinto da dubbia cura. Et questo basti intorno alla causa efficiente, ò producente. Hora me ne trapasserò alla cagione materiale remota, della quale è la donna composta. Et poco intorno à cio mi affaticherò; percioche essendo la donna fatta della costa dell’huomo, et l’huomo di fango, ò loto, sarà certamente più del Maschio eccellente. essendo la costa più del fango senza comparatione nobile. Della Natura, et essenza del Donnesco sesso. Cap. III. SONO le donne, si come anco gli huomini, composte di due parti, una delle quali è origine, et principio di tutte le piu nobili operationi, et si chiama da tutti anima: l’altra parte è il corpo caduco, et mortale, et ubbediente à i comandamenti di quella, si come quello, che da lei dipende. Se noi la prima parte, ciò è l’anima della donna consideriamo, senza dubbio se, co’ Filosofi noi vogliamo parlare, diremo ch’è tanto nobile l’anima de’ maschi, come quella delle donne; percioche l’una, e l’altra sono d’una medesima spetie, et per consequenza della medesima sostanza, et natura: laqual cosa conoscendo Moderata fonte, oue ella mostra, che le donne sono tanto nobili, quanto gli huomini, dice nel suo Floridoro. E perche se commune è la natura Se non son le sostanze variate? Con quel che segue, volendo ella mostrare, che si contengono P.12 sotto una medesima spetie. Ma io già non assentisco à questa opinione. ma dico, che non è inconueniente, che sotto una medesima spetie sieno anime quanto alla lor creatione piu nobili, et eccellenti dell’altre, come lasciò scritto il Maestro delle sentenze nel lib. 2. alla distintione 32. laqual cosa essendo, si come è, io direi che l’anime delle donne fossero nella lor produttione vie piu nobili di quelle de gli huomini; si come da gli effetti, et dalla bellezza del corpo si può vedere. Che le anime sieno tra lor diverse lo conoscono etiandio i Poeti inspirati dal furor proprio, che loro fa riuelare i piu alti, et reconditi secreti della suprema Bontà, et della natura. la qual cosa mostrò Remigio Fiorentino ne’suoi sonetti con tai parole. Tra le belle alme, ch’à far viue intese Son di natura le belle opre, e rare A dar vita à le membra e belle, e care De la mia donna la piu bella scese. Che le anime delle donne habbino una eccellenza, che non hanno quelle de gli huomini, lo manifesta il Guarino in alcune sue stanze dicendo. Ne le vostre pure alme un raggio splende Di quel sol, che nel Cielo arde i beati, Onde nasce l’ador, che da voi scende Ne cosi in si bel foco ad arder nati. Questo è quel, che v’adorna, e quel ch’accende Le fauille d’amor ne’lumi amati, E questa è la cagion di quei sospiri Ch’esalan gl’amorosi alti desiri. Et non solamente il Guarino et Remigio Fiorentino, ma tutti gli altri Poeti sono stati di questa verità capaci. Come fù Bernardino Tomitano in un suo sonetto, nel quale egli fa manifesto, che dall’eterno Motore sono à noi alcuna volta concesse creature di anima, et di corpo piu degne, dicendo. Quel’che con infinito alto gouerno, E con immensa prouidenza, et arte Sua mirabil virtute à noi comparte Santo, saggio, diuin Motore eterno, Vi diede a questa età, perche l’interno Vostro valor Lucretia in mille carte P.13 Per voi rimbombi, e viua à parte, à parte Tutto quel, ch’è di voi chiaro, e superno. Et anchor à noi lo fece manifesto il Padre Angelo Grillo in questi versi. Ahi chi la piu bella alma Da le piu belle membra à partir sforza. E in un sol lume ogni mio lume ammorza? Ahi del Ciel, di natura ultima possa Sarete adunque voi nud’ombra, et ossa? Possono adunque l’anime del donnesco sesso essere piu nobile, e piu pregiate nella lor creatione di quelle de gli huomini: nondimeno, se noi vorremo ragionare secondo l’openione piu commune, diremo, che tanto sono nobili le anime delle donne, come quelle de gli huomini. La quale opinione è in tutto falsa, et questo si farà à tutti manifesto, se si considrerà con animo non punto appassiionato l’altra parte, ch’è il corpo: percioche dalla eccellenza del corpo si conosce etiandio la nobiltà dell’anima, essendo egli di tal figura, et beltà ornato della stessa anima, que parat sibi tale corpus. Che il corpo delle donne sia piu nobile, et più degno di quello de’ maschi ce lo dimostra la delicatezza, et la propria complessione, ò temperata natura sua, et la bellezza: anchor che la bellezza sia una gratia, ò splendore resualtante dall’anima, et dal corpo: percioche la beltà senza dubbio è un raggio, et un lume dell’anima, che informa quel corpo, in cui ella si ritroua, si come lasciò scritto il saggio Plotino, seguitando però in questo Platone, con tali parole. Exemplar pulchritudinis naturalis est ratio quædam in anima pulchrior, à qua profluit pulchritudo. Marsilio Ficino nelle sue Epistole cosi dice. Pulchritudo corporis non in umbra materiæ, sed in luce, et gratia formæ. Et che cosa è la forma del corpo, se non l’anima? Ma piu chiaramente ci hanno insegnato questa cosa i leggiadrissimi Poeti, che hanno mostrato, che l’anima splende fuori del corpo, come fanno i raggi del Sole fuori di un purissimo vetro: et quanto è più bella la donna, tanto piu affermano, che l’anima di lei rende in quel tal corpo gratia, et leggiadria. mostro questo il Petrarca in mille luoghi, et spetialmente parlando de gli occhi, anzi de’ duoi chiari solidi Madonna Laura dicendo. P.14 Gentil mia donna, i veggio Nel volger de’ vostri occhi un dolce lume, Che mi mostra la via ch’al Ciel conduce Et Francesco Ranieri in un suo sonetto. Se da’ begli occhi vostri in cui si mira Tutto il bel, che può far natura, et arte. Et in un altro dice. Alma leggiadra in sottil velo inuolta, Che come in vetro chiuso auro splendeui. Et il Tasso ne’suoi sonetti cosi manifesta questo. Alma leggiadra, il cui splendor traluce Qual sol per nubi dal suo vago velo. Ove egli mostra, che l’alma risplende fuori per un leggiadro, e ben composte corpo, à quel modo, che fa il Sol da sottili nubi velato. È adunque causa, et origine l’anima della beltà del corpo, si come habbiamo dimostrato et non solamente è l’anima cagione: ma se andiamo con l’ingegno più oltre, vedremmo, che Dio, le Stelle, il Cielo, la Natura, Amore, et gli Elementi sono di lei principio, et fonte. Che dipenda dalla superna luce la bellezza; nido delle gratie, et de gli amori, dimostrano i Platonici affermando, ch’ella è una imagine della bellezza diuina dicendo. Pulchritudo exsterna est duinæ pulchritudinis imago. Et Dioniso Areopagita lasciò scritte queste parole. Per participationem causæ primæ omnia pulchra siunt pro sio cuique modo. Ma compiosamente à noi scoprì questo Leone Hebreo nel dialogo terzo dell’amore affermando che la bellezza corporea è un’ombra, et una imagine della bellezza incorporea, che risplende ne corpi: percioche se questa da i corpi causata fosse, ogni corpo sarebbe bello, che è cosa falsa. adunque da superiore cagione nasce la beltà, et la maestà del corpo. onde disse Giovanni Guidiccioni. La bella, è pura luce che in voi splende Quasi imagin di Dio nel sen mi desta. Onde come buon Platonico domandò la bellezza imagine di Dio: ma piu chiaramente dimostra Claudio Tolomei, ch’ella sia una gran parte della bellezza di Dio con queste parole. De la beltà, che Dio larga possiede Si vivo raggio in voi donna riluce Che chi degno di quel vi guarda, vede P.15 Il vero fonte del’eterna luce. E fa manifesto, come ben disse Dioniso Areopagita, che la somma bellezza si scuopre nelle creature, che ne sono degne, come le donne sono. questo anchor conferma Francesco maria Molza dicendo. Donna nel cui splendor chiaro, e diuino Di piacere a se stesso Dio propose, Alhor che gli Emisperi ambi dispose E quanto hanno d’ornato, e pellegrino. Fu ancho di questa openione Cielo Magno Segretario della Ser. Signoria di Vinegia in un suo sonetto. Non creò Dio bellezza, accioche spento Sia’l fuoco in noi, che per lei desta amore Et in una Canzone lodando le bellezze dell’amata donna, et in particolar de gli occhi dice. Son gli altri vostri honori Miracol di natura Questo par che da Dio proprio discenda. Cosi etiandio disse Remigio Fiorentino ne i suoi sonetti in questo modo. Donna l’imagin son di quel sereno, Di quel bel, di quel vago, e quel diuino, Che sol s’infonde in noi per sua bontade. Questo dimostra ancor Bernardo Rota dicendo. Se dell’occhio del Ciel l’alma gran luce Quale al rio, tale al buon gioua, e risplende, Donna gentil, s’in voi sola riluce Tutto il bel, che in se Dio vede, e possiede. Et il Guarino nel suo Pastor fido dice. O donna, ò don del Cielo, Anzi pur di colui Che’l tuo leggiadro velo Fe d’ambo creator piu bel di lui. In somma non è scrittor Platonico, ò Poeta, che non affermi, che da Dio dipendi la beltà, cosa che mostra il Patrar. nella canzone, che incomincia. Poi che per mio destino, con queste parole. Poi che Dio, e natura, et amor volse Locar compitamente ogni virtute P.16 In quei bei lumi, ond’io gioioso viuo. E adunque primiera, et principal cagione la bellezza diuina della belià donnesca, dopo la quale ci concorrono le stelle, il Cielo la natura, Amore et gli Elementi, come ben disse il Petrarca parlando di madonna Laura. Le stelle, il Cielo, e gli Elementi à proua Tutte lor arti, et ogni estrema cura Poser nel viuo lume, in cui natura Si specchia, e’l sol ch’altroue par non troua. Oltre à ciò che’l Cielo questa bellezza produca, in mille luoghi lo dimostra: et similmente il Bembo dicendo. Mostrommi entro à lo spatio d’un bel volto, E sotto un ragionar cortese umile Per farmi ogn’altro caro essere à vile Amor quanto può darne il Ciel raccolto. Che le stelle di ciò sieno cagione, lasciò scritto il Petrarca in una sua Canzone. Il dì che costei nacque eran le stelle, Che producon fra noi felici effetti, In luochi alti, et eletti. L’una ver l’altra con amor conuerse. Et il Tansillo in una sua canzone, che incomincia. Amor che alberghi, e viui entro al mio petto, scopre il medesimo dicendo. Ma quando mi conduce La mente à penetrar l’alta virtude, Che la bella alma chiude: Parmi allor, che la bocca, e gl’occhi, e’l riso E i membri in Paradiso Fatti per man de gl’angeli, e di Dio Sien la minor cagion dell’ardor mio. Chi potria mai narrar l’alte infinite Gratie del ciel, ch’à larga man vi denno Alma real tutti i miglior pianeti? Venere la beltà, Mercurio il senno, E le parole, ch’à l’inferno udite Quei c’han pena maggior farien piu lieti. Che la Natura ci concorra lo dimostra il Petrarca in questo sonetto. P.17 In qual parte del Cielo in qual Idea Era l’essempio, onde Natura tolse Quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse Mostrar qua giù quanto la sù potea. Et finalmente, che Amore sia origine, et principio della bellezza, lo manifesta l’istesso autore in questo sonetto. Onde tolse Amor l’oro, e di qual vena Per far due treccie bionde; e’n quali spine Colse le rose, e’n qual piaggia le brine Tenere, e fresche; e diè lor polso, e lena? Onde le perle, in ch’ei frange, et affrena Dolci parole honeste, et pellegrine? Onde tante bellezze, e si diuine Di quella fronte più, che’l Ciel serena? Da quali Angeli mosse, e da quali spera Quel celeste cantar, che mi disface Si che m’avanza homai da disfar poco? Di qual sol nacque l’alma luce, altera Di que’belli occhi, ond’io ho guerra, e pace, Che mi cuocono il core in giaccio, e’n foco? A cagionare adunque questo riccho thesoro, et pregio della bellezza si ricercano tutte le parti del mondo piu eccellenti, et nobili, come Dio, Stelle, Natura, Elementi, et Amore, che è un ministro, che piglia da i corpi misti, et da gli altri ogni sorte di perfettione, et eccelleaza. Onde il Tasso ne’suoi sonetti conclude, che nella bellezza vi sia tutto il ben del mondo con tai parole. Bella Signora nel tuo vago volto Si vede lo splendor del Paradiso, Si che qual’hora il mio pensier u’affiso Parmi vedere il ben tutto raccolto. Se le donne adunque sono piu belle de gli huomini, che per il piu sono rozzi, et mal composti si vedono, chi negherà giamai, che quelle non sieno piu singolari de’maschi? Niuno à giudicio mio. Onde si può dire, che la bellezza nella donna sia un meraviglioso spettacolo, et un miracolo riguardevole, che mai non sia à pieno honorato, et inchinato da gli huomini. Ma voglio che passiamo piu inanzi, et che mostriamo, che gli huomini sono obligati, et sforzati di amar le donne, et che le donne non sono tenute à riamarli, P.18 se non per semplice cortesia: et oltre à questo voglio, che dimostriamo, che la beltà delle donne sia cagione, che gli huomini, ch temperati sono, s’inalzino per mezzo di quella, e delle altre creature nella cognitione, et alla contemplatione della diuina Essenza. [Gli huomini sono sforzati di amar le Donne.]Da queste cose tutte saranno pur vinti, et superati gli ostinati Tiranni delle donne, iquali ogni giorno piu insolentemente calpestano le dignità loro; che la piacevolezza, et la leggiadria de’ delicati volti sforzi et costringa à lor dispetto ad amarle, è cosa chiarissima, et però questo à me sara leggierissima impresa; percioche se il bello è di sua natura amabile ò ver degno di essere amato, come racconta Marsilio Ficino nl convivio di Platone con tai parole. Pulchritudo est quidam splendor humanus ad se rapiens animam, et amabilis sua natura. Sarà necessitato l’huomo ad amar le cose belle: ma che più belle cose ornano il mondo delle donne? [Bellezza che cosa sia.] niuna in vero, niuna, come ben dicono tutti questi nostri contrarii, che affermano lampeggiar ne lor leggiadri volti In gratia, e lo splendor del paradiso, et da questa beltà sono sforzati ad amar quelle: ma non già elle sono tenute ad amar gli huomini: perche il men bello, ò il brutto, non è per sua natura degno di essere amato. Ma brutti sono tutti gli huomini à comparatione dico delle donne. non sono adunque quelli degni di essere riamati da loro. Se non per la sua cortese, et benigna natura; alle quali talhora par discortesia à non amar qualche poco l’huomo amante. Cessino adunque le querele, i lamenti, i sospiri, et le esclamationi de gli huomini, che vogliono al dispetto del mondo essere riamati della donne, chiamandole crudeli, ingrate, et empie: cosa da mouer le risa, delle quali cose si veggono pieni tutti i libri Poetici. [La beltà delle Donne guida l’huomo alla contemplatione di Dio.] Che la beltà delle donne guidi alla congitione di Dio, et alle superne intelligenze, et dimostri la via di andare al Cielo, lo manifesta il Petrarca dicendo, che nel moto de gli occhi di madonna Laura vedeua un lume, che lì mostraua la via del Cielo, et più soggiunge. E per lungo costume Dentro la doue sol con amor seggio Quasi visibilmente il cor traluce, Questa è la vista, ch’al ben far m’induce E che mi scorge a glorioso fine: Questa sola dal volgo m’allontana. P.19 Et piu sotto. Io penso se la suso Onde il motore eterno delle stelle Degnò mostrar del suo favoro in terra Son l’altre opre si belle, Aprasi la prigione, ov’io son chiuso. Dalle quali parole si comprende che diceva il Petrarca tra se, in questo modo. Se questa unica bellezza, ch’io scopro ne sfavillanti, et gratiosi lumi di madonna Laura è tanto degna, et riguardeuole, che deue poi essere quella, che è in Cielo? onde ciò considerando, egli desiaua la morte. Et in uno suo sonetto ringratia la fortuna, ò Dio, che lo ha fatto degno di veder Laura, per mezzo della quale egli s’inuiaua al sommo bene dicendo. Da lei ci vien l’amoroso pensiero, Che mentre il segui al sommo ben t’inuia, Poco prezzando quel, ch’ogn’huom desia. Da lei vien l’animosa leggiadria, Che’al Ciel si scorge per destro sentiero. Et in un altro. Lei ne ringratio, e’l suo alto consiglio, Che co’l bel viso, e co’soaui sdegni Fecemi ardendo pensar mia salute. Et poco dopo dice. Quel sol, che mi mostrava il camin destro Di gite al Ciel con gloriosi passi. Et Dante in una sua ballata dice, che guardando il viso a Madonna diuerrà beato à guisa d’angelo. Poi che satiar non posso gli occhi miei Di guardare a Madonna il suo bel viso Mirerol tanto fiso, Ch’io diuerrò beato lei guardando A guisa d’angel, che di sua natura Stando su in altura Diuien beato sol vedendo Dio: Cosi essendo humana creatura Guardando la figura Di questa donna, che tene il cor mio Potria beato diuenir qui io. P.20 Et il Caro parlando con Amore in una sua canzone dice. Chi ne guida qua giù, chi n’erge al Cielo? Poi ch’ambi i nostri poli Atra nebbia c’inuoli Con queste scorte Amor di zelo, in zelo. D’una in altra chiarezza Ne conduce à mirar l’eterno sole; Cosi mortal bellezza Che da lui viene, à lui par che ci deste: Cosi lume celeste Che di la sù deriua, qui sì cole Hor chi s’inalza, e chi d’alto ci scorge Se’l nostro amato sol lume non porge. Et in un sonetto suo si legge. Ben veggio come spira, e come luce Che con la rimembranza, e col desio De suoi begli occhi, e del suo dolce riso Il mio pensier tanto alto si conduce, Che le s’appressa, e scorge nel bel viso La chiarezza de gli Angeli, e di Dio. Et Bernardo Tasso fa una canzone intiera dimostrando, che la bellezza è una scala da gire al Cielo, et poi soggiunge. O nobil Donna, ò mio lucente sole, Scala da gir al Ciel salda, e sicura, Sol de la vita mia dolce sostegno: Per altro non vi diè l’alma natura Rare virtù, bellezze uniche, e sole Se non per arricchire il mondo indegno E mostrarne un disegno De la bellezza angelica, e diuina. Et il Molza ne suoi sonetti mostra il simile. Et il Guidiccioni in un suo bellissimo sonetto dice l’istesso. ma io ve ne porcerò solamente tre rime. E’l fa perche la mente oltre passando D’una in altra sembianza à Dio s’unisca Non gia per van desio com’altri crede. Et qual è quello, cosi rozzo Poeta, che non facci apertissimo, che la beltà sia una via, et una strada, che vi guida à diritto camino à P.21 contemplar la divina Sapienza? (anchor che il Passi scrivendo alla cieca, ardisca di affermare, che la beltà sia cagione d’infiniti mali) se però sarà guardata, come bisogna, con dritto occhio lontano da pensieri lasciui, et vani, come lasciò scritto il Petrarca. Da volar sopra il Ciel gli hauea dat’ali Per le cose mortali Che son scala al Fattor, chi ben l’estima Io non solamente la chiamarei scala: ma io credo, ch’ella sia l’aurea catena d’Homero, laqual può sempre alzar le menti à Dio, et ella per niuna cagione può essere tirata in terra; percioche la bellezza, non essendo cosa terrena, ma diuina, et celeste, sempre alza à Dio, da cui deriua; onde sono a nostro proposito questi versi del Petrarca. D’una in l’altra bellezza M’alzo mirando la cagion primiera. Che cosi vuol dire. Io ascendo di bellezza, in bellezza, cioè di anello in anello, et mi fermo nella cagione primiera. il primo anelo di questa nostra dorata catena, che scendendo dal Cielo, rapisce dolcemente le anime nostre, sarà la corporal bellezza, laquale mirata, et considerata con la mente per lo mezo de gli occhi esteriori, gode, et in lei mediocremente si diletta. ma poi vinta da somma dolcezza salisce al secondo anello, et mira, et vagheggia con gli occhi interni l’anima, che adorna di celesti eccellenze informa il bel corpo. ma non si fermando in questa seconda bellezza, ò anello, auida, et desiderosa di più viua beltà, quasi amorosa fiamma salisce al terzo anello, facendo una comparatione tra le terrene bellezze, et le celesti, et s’inalza al Cielo, et quiui contempla gli angelici spiriti et all’ultimo questa mente contemplante si affisa al gran Sole de gli Angeli, et del mondo; come à quello, che sostiene la catena; onde l’anima in lui godendo si fa felice, et beata. Per hora non voglio dire altro di questa catena; ma forsi col tempo farò più lungo discorso. con queste ragioni io credo di hauere chiaramente mostrato, che la beltà d’un leggiadro volto, accompagnato da gratiosi sembianti guida ogni huomo alla cognitione del suo P.22 fattore: ò che dono, ò che doti, ò che Maggioranze sono queste delle donne: pio che con la lor bellezza puo alzare le menti de gli huomini a Dio. Chi potrà mai a pieno lodarti ricchissimo thesoro del mondo tutto? Io confesso, che s’io havesse tante lingue, quante foglie vestono gli arbori nella ridente primavera, overo quanta arena è nella sterile, et infeconda Libia, io non potrei incominciar a dar principio alle tue lodi; percioche non solamente la beltà inalza a Dio le fredde menti; ma rende il più ostinato, et crudo cuore humile, et mansueto. Che piu? ò meraviglia, il rozzo orna di piaceuoli costumi, il sciocco rende prudente, et saggio, et in somma tutti i Poeti hanno poetato mossi dalla beltà donnesca: onde il Petrarca nella Canzone, che incomincia. [La Beltà è stata cagione di Poetare.] Quell’antico mio dolce empio Signore, dimostra ch’ella fù cagione di ogni sua virtù dicendo. Salito in qualche fama Solo per me che’l suo inteletto alzai Ov’alzato per se non fora mai. Percioche per lodar le diuine bellezze di madonna Laura compose il suo poema tanto dal mondo stinato, che se ella non l’hauesse con la sua bellezza spinto a tanto honore, sarebbe stato, come dice Amore nell’istesa Canzone. C’hor saria forse un roco Mormorator di corte, un huom del vulgo. Et Speron Speroni confessa, che i Poeti hanno dalle donne la voce, et l’intelletto dicendo. Ch’io vi veda adunar la bella schiera Di tutte queste vostre amate Diue Che danno a poetar voce e’ntelletto Et l’istesso hanno fatto gli altri poeti, i quali erano tenuti a lodar et inchinar la Donnesca beltà: et però viuono, anchor che morti. In somma un bel volto ha vinto i più superbi, et orgogliosi Regi del mondo, et piu scientiati, et ornati di lettere, che habbino insegnato le cagioni delle cose. Onde il Tasso disse nel Torrismondo queste parole, dimostrando la maestà, et la grandezza di questo dono. Questa bellezza Proprio ben, propria dote, e proprio dono E’de le donne ò figlia, e propria laude P.23 Et agguagliam, anzi vinciam con questa Ricchi, saggi, facondi, industri, e forti E uittorie, e trionfi, e spoglie, e Palme Le nostre sono, e son piu care, e belle E maggiori di quelle, onde si uanta L’huom che di sangue è tinto, e d’ira colmo. O come egli ha mostrato in queste poche parole le marauigliose operationi della bellezza, che han domato non solo l’alterezza de gli huomini, ma anco de gli Dei de gli antichi. io vorrei pur alzarti, et lodarti: ma mi mancano le parole, et quanto più spiego l’ali de miei troppo arditi pensieri, tanto più ce ne restano: onde io dirò col Petrarca. Tacer non posso, e temo non adopra Contrario effetto la mia lingua al core, Che uorria far honore A la sua donna, che dal Ciel n’ascolta Come poss’io se non m’insegna Amore Con parole mortali aggugliar l’opre Diuine. Et ben posso dire, ch’io scemo sue lodi parlando. Onde è meglio ch’io taccia, et ch’io l’inchini, trà me stessa stupida la uagheggi, et l’ardori come il medesimo. L’ardoro, e inchino come cosa santa. Concluderemo adunque, che le Donne essendo più belle de gli huomini, sieno altre si più nobili di quelli, per diuerse ragioni; prima perche in un fiorito, et delicato volto si scorge la potenza del fattore, et oltre a ciò alza le menti alla diuina Bontà. È ella per sua natura amabile, et allettatrice d’ogni cuore, ancor che rigido, et aspro. Et finalmente è il bello ornato, et pieno di bontà, essendo la bellezza un raggio, et uno splendore della bontà, come dice Marsilio Ficino. Omne enim pulcrum est bonum. Et cosi dice Speusippo, et Plotino. Et è cosa chiara appresso d’ognuno, che rare volte una pessima anima non habita in un gratioso, et leggiadro corpo. onde la natura, conoscendo la perfettione del sesso femenile, produce piu copia di donne, che di huomini, come quella che sempre ò per lo più genera in tutte le cose quell, che è migliore, et piu perfetto. et però mi pare, che Aristotile contra ogni ragione, et etiandio contra la propria opinione, laqual’è, che la natura P.24 operi ò sempre, ò per il più cose più perdette, voglia che, le donne sieno imperfette in comparatione de maschi: anzi io direi che producendo la natura minor numero di maschi, che di donne, che gli huomini siano men nobili di quello del men nobil sesso, non desiderando la natura di generar grande, et copiosa quantità. et questo basti della singular natura del sesso femenile. Delle ragioni tratte dalle nobili operationi, et da i detti de gli huomini verso le Donne. Cap. IIII ANCHORCHE gli huomini biasmino, et infamino con la garrula, et mordace lingua tutto il giorno il donnesco sesso, et cerchino con ogni modo possibile di offuscar le sue nobili attioni, nondimeno à lor mal grado sono sforzati dal rimorso della propria consienza, che dalla verità sola si lascia imperare, di honorare, et con detti, et scritti inalzar fino al Cielo le meriteuoli donne, le quali cose dimostrano senza dubbio alcun la maggioranza; et superiorità di esse, che gli huomini honorino le donne si vede continuamente in qualunque luoco et occasione; percioche l’inchinarsi, et il dar loro la strada nel caminare, il leuarsi la berretta di capo, il seruirle alle tauole à guisa de serui, accompagnarle col capo scoperto per le vie, il leuarsi da sedere, et concedere la sedia ad esse, sono tutti segni euidentissimi di honore, et questo non solamente è fatto alle donne da gli huomini bassi, et plebei; ma etiandio da Duchi, et Regi, i quali salutano scoprendosi il capo, non dirò le Principesse; ma anchora le donne di modiocre conditione, et voglio anchor che sia superfluo addure duoi essempi de Principi, l’uno sarà il Rè di Francia, che con gli inchini, et col Saluto honora ogni Dama, l’altro sara il Re di Spagna pur potentissimo, il quale incontrando donna di stato nobile, si lieua la barretta, ò capello di capo, cosa che non fa adalcuno huomo soggetto; anchor che sia Principe. Questo scoprirsi il capo, leuarsi in piedi, et dare il luoco sono certamente segni, et argomenti di honore; se sono segni di honore, adunque le donne sono piu nobili de maschi, che le honorino, percioche sempre è più degna la cosa honorata di colui, che l’honora, non honorando alcuno un’altro, s’egli non conosce, che colui habbia qualche dote ò P.25 qualità, che à lui sia superiore. Come lasciò scritto Aristotile nel 4. del l’Ethica con tai parole. Omne quod aliquo excellit, est honorabilius. non essendo altro adunque l’honore, che premio di virtù, che in alcuno risplende, ò di riceuto benefitio, si come dice egli nell’ottauo dell’Ethica al capitolo 16. in modo tale l’honor est virtutis premium et benefitii. onde è necessario concludere, che le donne sieno piu nobili de gli huomini: poi che da loro honorate sono. ma non solamente le gia dette attioni sono aperti inditii di honore; ma etiandio gli ornamenti à quelle concessi; percioche à loro è lecito vestirsi di propora, et di panno d’oro con varii ricami, fregiati di perle, et di diamanti, et ornarsi il capo con vaghi ornamenti d’oro con smalti finissimi, et pietre pretiose, le quali cose sono vietate a gli huomini, eccetuando però, quelli che hanno dominio. ma se alcuno altro ardisse vestirsi con panni d’oro, ò altro simile viene beffato, et mostrato a dito per huomo leggiero, o per un buffone solenne. concessero gli antiche questi ornamenti alle donne, et in particolare i Romani ne fecero decreti, et leggi; essendo loro prohibiti per uno urgentissimo bisogno de denari nella guerra contra Cartaginesi dalla legge Oppia, finita la guerra furono di nuovo concessi alle donne, sforzati però da quelle, che erano gelose della lor dignità: ma non senza gran pericolo di qualche sinistro auuenimento, et che questo sia vero, udite che dice Tito Liuio nella 4. Deca al lib. 4. à car. 577. Non potevano le matrone essere tenute in casa per rihaver la licenza di potar gli ornamenti, ne dall’autorità, ne dal rispetto, ò commandamento de mariti, che non empiessero tutte le strade della Città, tutte le bocche delle piazze affrontando gli huomini, che loro dovessero rendere i tolti ornamenti. Cresceva ogni dì questa frequenza di donne, percioche non solamente le Romane: ma le donne delle terre, et vicine ville si ragunauano, et ardiuano di essortare i consoli. Onde M. Catone nella sua oratione contra le donne disse che dubitava di seditioni ciuili, et di tumulto se non si raffrenaua un tanto orgoglio. Parlò contra costui Lucio Valerio Tribuno della plebe con infinite laudi delle donne. Il giorno seguente molto maggior numero di donne venne in publico, et tutte in schiere circondarono le case de Tribuni, i quali impediuano la legge, et non cessarono di romoreggiare fin che non fù quella cassata, et annullata da tutti i patritii fatti capaci della ragione, conosciuta la nobiltà, et i meriti delle donne. Laqual legge fù P.26 poi sempre osseruata, et si osserua in ogni Città, et nell’Alamagna, oue non è lecito ad huomo alcuno vestirsi di seta, se non è nobile; ogni donniciola si adorna con drappi di seta, et varie sorti di colane, et questo si usa in ogni luogo del mondo. Sono auunque le Donne honorate con l’uso de gli ornamenti, i quali auanzano di gran lunga quelli de gli huomini, come si puo vedere, et è cosa merauigliosa il vedere nella nostra Città la moglie di un Calzolaio, o di un beccaio, ouero di un fachino vestita di seta con catene d’oro al colo, con perle, et annella di buona valuta in dito, acompagnata da un paio di donne, che la sostentano da ambo i lati, et le danno mano; et poi all’incontro vedere il marito tagliar la carne tutto lordato di sangue di bue, et male in arneso, ò carico come un Asino da soma vestito di tela, della qual si fanno i sacchi; à prima vista pare una defformità da fare stupire ogn’uno il vedere la moglie vestita da gentildonna, et il marito da huomo vilissimo, che souente pare il suo seruo, ò fachino di casa; ma chi poi bene ciò considera, lo ritroua ragioneuole; perche è necessario, che la donna, ancorche sia vile, et minima, sia di tali vestimenti ornata per le sue eccellenze, et dignità naturali, et che il Maschio come seruo, et Asinello, nato per seruir lei meno adorno se ne stia. Sono state le donne, oltre à tutte le cose già narrate, etiandio da detti de gli huomini honorate con titoli eminenti, et grandi, et sono da loro usati continuamente, si come quando le femine, con voce commune à tutte, chiamano Donne, percioche la voce Donna non significa altro, che Signora, et padrona, come habbiamo mostrato nel primo capo; et però quando le chiamano, le honorano anchor che non vogliano, chiamandole Signore, benche sieno vili, et di bassissima conditione, et in vero per esprimere la nobiltà di un tanto sesso, i maschi non poteuano ritrouare il piu accomodato, et conueniente nome di questo di Donna, il quale mostra immediatamente la superiorità, et la precedenza di quelle sopra gli huomini; perche chiamandole essi Padrone restano neccessariamente sudditi, et serui. le hanno chiamate oltre aciò bene spesso con altri nomi; et benche quelli sieno di alcuni huomini particolari poco importa, poi che sono stati e de più sapienti, e de piu potenti del mondo, percioche questi tali sono quelli, che determinano à chi si conuengano le dignità et le precedenze; perche non sarebbe ò pena del vuolgo sciocco, et ingnorante, se bisogno fosse di dar titoli nuoui ad Imperatori, ò a Regi, di ritro- P.27 -varli, essendo piu buona la plebe di empir di cibo il Sacco, che di discorrere intorno a tai cose. I nomi denotanti sublimi Eccellenze sono, che la donna è gloria dell’huomo, furono date etiandio alle donne da Arist. anchor che nemico, varie precedenze con opinione di biasmarle; percioche diede loro, come virtù propria, la diligenza, cosa lontana dall’huomo, come si legge nel lib. I. dell’Economica al cap. 3. con tai parole. Mulier ad sedulitatem optima, at vir deterior. Da queste parole si puo comprendere quanto egli errasse in altri luoghi. Oue dice, che le Donne sono volubili, et mobili, ricercando la diligenza fermezza, et stabilità di mente. Dice anchora, che ella è conseruatrice de beni della fortuna nel medesimo lib. In molti capi, la qual virtù di conseruare ò è piu nobile dell’acquistare, ò almeno non li è inferiore. Come egli narra nel libro della cura famigliare al cap.6. in questo modo. Nam non minus ad seruandum quam ad comparandum idoneum esse oportet, alioquin vanus fuerit omnis labor comparandi. Et chi lo conserua con le sue rare virtù. la donna. Suppeditat enim masculus necessaria. Et femina, conseruat ea. Affermò etiandio il buon Compagnone, che le Donne sono piu perspicaci, et Sagaci de maschi nel lib.9. dell’Historia de gli Animali al cap.I. quanto utile sia la perspicacia dell’ingegno, non accade, che io m’affatichi in raccontarlo, scoprendosi in quella la sottilezza dell’intelletto, et il buon giuditio, come dice il medesimo nel 6. dell’Ethica al Cap.10. ma non solo piu sagaci, ma molto piu astute de gli huomini le giudicò. dicendo Sunt fœminæ maribus astutiores. Ilqual ornamento dell’anima per la sua attiuità, et eccellenza vien chiamato da Latini. Calliditas. dote sempre giunta con la prudenza, come nell’udecimo Cap. del libro 6. dell’Ethica egli mostra. Sono etiandio piu vigilanti, dicendo, Ad hæc vigilantiores. Et de costumi piu mansuete, et benigne de maschi, come nel medesimo luogo si legge. Sunt enim fœminæ moribus mollioribus, mitescunt enim calerius, et magis misericordes. Cose, che non si trovano nell’huomo, participando piu della fiera, che dell’huomo; et però più feroci. essi sono sanguinolenti, et pertinaci, et che credete voi che importi l’essere misericordioso. Udite quello, che dice Arist. nella sua Fisonomia. Oue egli ragiona de compassioneuoli. Sunt misericordes ingeniosæ, et callidæ, et poco dopo P.28 soggiunge. Misericors est sapiens, et modestus, immisericors, insipiens, et inuerecundus, cioè sono coloro, che si dogliono de trauagli altrui ingegnosi, et saggi, et modesti. Onde si può dire, che essendo la donna piu misericordiosa dell’huomo, per consequenza sia piu saggia, piu dotata d’ingegno, et più modesta di lui. racconta il medesimo nel lib. nono dell’Historia de gli Animali al cap. sopracitato una cosi bella strauaganza quanto imaginar si possi, et indegna di lui, che dico indegna? anzi nò, poi che in altri luochi ne dice delle somiglianti, cio è, che le donne sono men vergognose de maschi, o che ridiculosa sentenza, le cui parole sono. Impudentior maribus; si che questa è contra la commune opinione di ogn’uno, et contra l’esperienza. affaticateui pure Aristotelici à stiracchiar, à dichiarare con mille chimere la sua opinione, et tanto piu ch’egli in altri luochi il contrario afferma. io non mi merauiglio che ciò racconti; percioche amaua con troppo fervore il proprio sesso, et nel medesimo capo si lasciò uscire dalla bocca, che le donne piu facilmente si lasciano ingannare de maschi dicendo. quinetiam facilior decipi. Non si ricordando, che poco prima haueua detto che sono piu astute, et sagaci, et insidiose de gli huomini: tutte doti, che si oppongono all’inganni, et alle insidie antiuedendo il sagace et astuto ingannatore le altrui fraudi. onde sarebbe di bisogno, che l’huomo fosse delle donne piu sagace; ricercandosi ad ingannare uno astuto, uno astuto, et mezzo. Che dite? io non credo che Demostene lo potesse difendere da questo suo errore: ma hormai lasciamolo da parte, come maledico. Platone quanto celebra le donne, in mille luochi? Licurgo come l’essalta? Similmente tutti i buoni Poeti, et honorati scrittori le hanno ad onta de maligni inalzate fino al Cielo, et è piu conosciuta la nobiltà, et eccellenza loro da Francesi, et Spagnuoli che da gli Italiani, concedendo loro l’heredità de feudi; percioche succedono non solamente ne Ducati, ma ne Regni, come à punto fanno i maschi, et non solamente de Regni, ma nelle monarchie anchora, come la sorella del Re Catolicho di Spagna può succedere alla monarchia del mondo nuovo, oltre il Dominio di molti altri Regni. Che succedano ne Feudi, si vede tutto il giorno in Francia, et in Ingilterra. Conoscono etiandio la maggioranza loro gli. Alemani, i quali lasciano, che le donne faccino tutti i traffichi di bottega, et ogn’altro negotio mercantile nelle lor Città, stando essi nell’otio continuo, et nelle stuffe et il P.29 simile si fa nella Fiandra, et nella Francia: ma nella Francia, non possono gli huomini disporre pur di un quattrino, se non lo addimandano alla moglie, et le donne hanno cura non solamente de traffichi delle botteghe, et del vendere: ma di tutte l’entrate rusticali; che vi pare? Sono pur le donne, come io ho prouato conosciute da gli huomini per piu nobili di loro, già che di bocca propria lo confessano. che resta più di narrare? potrebbe forsi dire alcuno ostinatello, desidrerei per leuar ogni dubitatione, che fosse nata intorno à ciò una sentenza reale autentica da un Re, o d’altro grande huomo, publicata con l’interuenimento di molti saggi, et prudenti huomini, alla quale poi in tutto, et per tutto io mi acqueterei, io voglio sodiffare anco à costui; benche non sia obligata; accioche si lieui ogni volontà, et occasione di dubitare, et udite. Scriue il Tarcagnota, che dopo, che il regno di Persia toccò à Dario, egli fece in conuito magnifico, conuniente ad in tanto Rè, qual’egli era, à i gouernatori di cento, e vintisette Provincie à se soggette, dopo il sontuoso conuito propose à i suoi nobili camerieri, i quali erano tutti di stirpe regia, un dubbio, promettendo grandissimi doni, a chi sciolto l’hauesse. Il dubbio era questo, qual di queste quattro cose credeuano, che maggior forza hauesse ò il Vino, ò il Rè, ò la Donna, ò la Verità. Colui, che primo parlò, lodò molto il vino, come quello, che volge, e riuolge senza differenza alcuna il ceruello de gli huomini, sieno regi, ò serui, facendo lieti i miseri, i timidi audaci, et forti, et quello che porge maggior merauiglia è, che fa poco temere la morte. L’altro, che in fauore del Re ragionò, lodò sommamente la Potestà regia; si perche non ha superiore, come perche l’ubedisca l’huomo animal perfetto, et che si facci le nationi straniere soggete, uguali le cime de monti al piano, torca il corso de fiumi, et finalmente stia nelle sue mani la vita, e la mote altrui, il terzo, che in fauore dalla Donna parlò disse. Senza dubbio la forza del vino è grande, maggior è quella del Re, ma assai, et molto assai piu quella della Donna; percio che ella allieua, et partorisce i Regi, che tanto possono, et partorì colui, che ritrouò il vino. L’huomo à gli huomini serue contra sua voglia; ma con tutto il cuore alla Donna serue, et ubedisce, et à lei desidera di compiacere, e per lei raguna le ricchezze, et à lei fino il cuor d onna, et per lei di se, non che de gli amici, et di tutto il resto d el mondo mette in oblio, et da lei finalmente dipende, et sempre è P.30 apparecchiato à fare quanto ella vuole, et lascia il Padre, la madre sua con quanto al mondo possiede, et soggiunse che non solamente si ricordaua hauer letto, che molti Regi, et Heroi haueuano servito à donzelle, et per loro amore essersi vestiti da donne, e lasciatisi comandare; ma che con gli occhi propri haveva veduto la figliuola di Robezaci dare con la Palma della mano sopra la faccia di un grandissimo Re, e torli la corona di testa, et à se parola, et quel Re stare tutto ansio per placarla, et humile, e quieto per sodisfarla, conoscendola per sua Signora. Come hebbe detto questo della potenza della donna. Soggiunse tutte le cose ò Re, che sono state dette, sono vere, ma se con la forza della Verità si comparano, sono nula. fù da i cento, e vintisette governatori delle Provincie, e da molti dotti, e potenti huomini sommamente lodato il ragionare di costui, et dal Re istesso oltre ogni credenza, ilquale leuandosi dal suo seggio dorato abbracciollo, e baciollo, et se lo fece sedere à lato, e non solo li donò gran quantità d’oro, e d’argento; ma al quante Cittadini e grandi honorati appresso se stesso. Delle Nobili attioni, et Virtù delle Donne, le quali quelle de gli huomini di gran lunga superano, come con ragioni, et essempi si proua. Cap. V. POCO honore à me risulterà nel prouare con ragioni, et essempi, che’l donnesco sesso sia nelle sue attioni, et operationi più singulare, et eccellente del maschio. dico, che poco honore acquisterò; percioche il prouarlo sarà più facile, che non sarebbe à manifestar, che’l sole è il più lucido corpo del mondo, ò che la dilettosa primavera sia Madre delle frondi, et de’ fiori. [Operationi de la specie l’umana da che dipendano.] tutta via per seguitar l’ordine già da me incominciato et insieme per dar lume à certi non dirò huomini: ma più tosto ombre d’huomini; accioche lasciano la pessima ostinatione loro, rauuedendosi del loro errore, porterò in questo capo per ciò prouare inuincibili ragioni, et ne gli altri me ne discenderò à gli essempi delle donne dignissime di Poema chiarissimo, et d’Historia. Dico adunque che le operationi di tutta la specie humana dipen P. 31 dipendono ò dall’anima, ò dal corpo, ò da tutti dui questi principii uniti insieme. Et etiandio affermo, che quanto più tutte queste cose saranno perfette, tanto piu nobili, et singolari dipenderanno da lor le attioni. Credo, che tutte queste suppositioni sieno verissime. non è vero ò huomini? Et chi lo potrebbe negare? adunque io sarò vincitrice: percioche le donne hanno più nobili anime, et più eccellenti corpi de maschi. onde più nobile è tutto il composto; si come si vede nello splendore della bellezza. Che in esse si contengono tutti questi doni, ho prouato chiaramente nel capitolo antecedente. Adunque da loro risulteranno piu pregiate attioni, che da gli huomini. Ma è cosa neccessaria, ch’io alquanto mi diffonda intorno alla natura del corpo; percioche dalla sua temperatura dipendono quasi tutti i vitii, et diffetti, lasciandosi la ragione bene spesso, benche padrona, abbagliare, et accecare da sensi. Et perche credete voi? Che alcuni sieno instabili, altri mangiatori, et crapuloni, altri viui, et audaci, altri sfrenati, et dati in tutto alla concupiscenza, et a’ piaceri. io credo, si come affermano tutti gli scritori, che raccontano i costumi delle genti, et come per esperienza si vede per il più che i paesi, oue nascono, et la temperatura de corpi ne sia origine, et cagione: percioche un corpo temperato, come è quello delle donne, è molto atto alle operationi moderate dell’anima. Cosa che non è nella calda temperatura de maschi, come dimostreremo al luogo suo. Che le donne sieno di tal natura, argomentano le carni morbide, et delicate, et il colore candido col vermiglio misto, et per finirla tutta la compositione del corpo di gentilezza, è virtù et proprio albergo: ma se con queste doti, et merauiglie à loro dalla natura date s’essercitassero nelle scienze, et nell’arte militare, come fanno tutto il giorno i maschi, farebbono à loro inarcarle le ciglia, et rimanere stupidi, et ammirati. Et però l’Ariosto conoscendo questo disse. [Essercitio rende perfetti l’anima et il corpo.] Tanto il lor nome sorgeria, che forse Viril fama à tal grado unqua non sorse. Ma non accadea, che ci mettesse quel forse; percioche sicuramente sarebbono vincitrici in ogni honorata, et egreggia attione. mostra però l’istesso autore nella prima stanza del Canto. 37. che sono riuscite felicissime in quelle opere, alle quali si son date dicendo. P.32 Se come in acquistar qualch’altro dono Che senza industria non può dar natura Affatichate notte, e di si sono Con somma diligenza, e lunga cura Le valorose donne, e se con buono Successo, n’è uscit’opra non oscura. Et nel Canto 20. si legge Le Donne son venute in eccellenza Di ciascun’arte, oue hanno posto cura, E qualunque à l’Historie habbia auuertenza Ne sente ancor la fama non oscura Et Moderata Fonte, che in qualche parte conobbe la eccellenza di un tanto sesso, ci lasciò scritto tali parole. Sempre s’è visto, e vede pur ch’alcuna Donna v’habbia voluto il pensier porre Ne la militia riuscir piu d’una E’l pregio, e’l grido a molti huomini torre: E cosi ne le lettere, e in ciascuna Impresa, che l’huom pratica, e discorre Le Donne si buon frutto han fatto, e fanno Che gli huomini a inuidiar punto non hanno. Ma poco sono quelle, che dieno opera à gli studi, ouero all’arte militare in questi nostri tempi; percioche gli huomini, temendo di non perdere la signoria, et di diuenir serui delle donne, vietano à quelle ben spesso ancho il saper leggere, et scriuere. Onde dice quel buon compagno d’Aristotile; debbono in tutto, e per tutto le donne ubedire a’ maschi, ne cercar quello, che si facci fuori di casa. Opinione sciocca, et sentenza cruda, et empia di huomo Tirranno, et pauroso. Ma voglio che lo scusiamo: percioche essendo egli buono, era cosa conueniente, che dediderasse la grandezza, et la superiorità de gli huomini, et non delle donne. Ma Platone il grande huomo, in vero giustissimo, et lontano dalla Signoria sforzata, et violente, voleua, et ordinaua, che le Donne si P.33 essercitassero nell’arte militare, nel caualcare, nel giucare alla lotta, et in somma, che andassero à consigliare ne’ bisogni della Republica. Et che questo sia il vero, cosi si legge nel libro delle leggi al Dialogo. Fœmineum genus eruditionis, et aliorum studiorum societatem cum virili genere habere debet. Et nel libro della Republica al settimo Dialogo. Cosi scriue. Fœminæ non minus, ut viri in Republica virtutu m ornandę, ut quę pręstantes natura sunt, principatum gerant equaltier cum viris. O quante ne sarebbono, che con più prudenza, essempio di vita, et giustitia gouernerebbono gli imperii, et meglio, che non fanno molti, e molti huomini. non solamente fù Platone di questa opinione il saggio; ma molti, et molti altri innanzi à lui, come Licurgo. onde egli dice nel libro delle leggi al Dialogo settimo. Fœminis non minus, quam viris decoram esse equestrem disciplinam, et gymnasticam ex veteribus narrationibus persuasus sum. Dalle quali parole si vede, che innanzi la venuta di Platone in molti luoghi le donne si essercitauano nell’arte militare. Et poco dopo afferma essere opinione sciocca quella. De tempi suoi, laquale non permetteua alle donne le medesime cose, che gli antichi lor imponeuano, et però dice. Stolidissimè omnium nuuc in regionibus nostris censeo fieri, quod non omni robore uno consensu mulieres, ac viri eadem studia tracetent. O Dio volesse, che à questi nostri tempi fosse leoito alle donne l’essercitarsi nelle armi, et nelle lettere. che si vedrebbono cose merauigliose, et non piu udite nel conseruare i regni, et nell’ampliarli. Et chi sarebbe piu pronto di fare scudo con l’intrepido petto in difesa della Patria delle donne? Et con quanta prontezza, et ardore si vedrebbono versare il sangue, et la vita insieme in difesa de maschi. Sono adunque, come ho prouato le donne piu nobili nelle operationi, che gli huomini non sono. Et se non si adoprano in questo, auuiene; perche non si essercitano, essendo ciò à loro da gli huomini vietato, spinti da una loro ostinata ignoranza, persuadendosi che le donne non sieno buone da imparare quelle cose, che imparano essi. io vorrei, che questi tali facessero questa esperienza, che essercitassero un putto, et una fanciulla d’una medesima età, et ambidue di buona natura, et ingegno nelle lettere, et nelle armi, che vedrebbono in quanto minor tempo più peritamente sarebbe instrutta la fanciulla del fanciullo. Et anzi lo vincerebbe di gran lunga, laqual cosa lasciò P.34 scritto Moderata Fonte nel suo Floridoro: ma ben’è vero, che ella si contentò, che diuenissero eguali dicendo. Se quando nasce una figliuola al Padre, La ponesse col figlio à un opra eguale Non saria ne le imprese alte, e leggiadre Al frate inferior, ne disuguale; O la ponesse fra l’armate squadre Seco, ò à imparar qualche arte liberale; Ma perche in altri affar viene alleuata, Per l’education poco è stimata. Il non essercitarsi adunque è cagione, che non si vedono tutto il giorno i fatti memorabili, et Heroici delle donne; si come anco non si vedono quelli di molti huomini per questa istessa cagione. Horsu voglio discendere à gli essempi, ne quali io sarò breue, percioche ho fuggita la fatica di voler leggere tutte l’Historie, perche gli scrittori, per essere huomini inuidiosi delle belle opere delle donne, non hanno raccontate le loro egreggie attioni, ma lasciate sotto silentio, avvertendo i Lettori, che nel modo di dire potrebbono esser molti errori adducendo io l’istesse parole de gli Historici, iquali poco curano della lingua, manifestò l’Ariosto nel Canto 37. in questo modo la bugia de gli scrittori. E che per se medesime potuto Hauessin dar memoria a le lor lode Non mendicar da gli scrittori aiuto A i quali astio, et inuidia il cor si rode. Che’l ben, che ne pon dir spesso è taciuto, E’l mal quanto ne san, per tutto s’ode: Tanto il lor nome sorgeria che forse Viril fama a tal grado unqua non sorse. Non basta molti di prestarsi l’opra, E far l’un l’altro glorioso al mondo Ch’anco studian di far, che si discopra Ciò, che le donne hanno fra lor d’immondo; P.35 Non le vorrian lasciar venir disopra E quanto pon fan per cacciarle al fondo Dico gli antichi, quasi l’honor debbia D’esse il loro oscurar, come il sol nebbia. Ma non hebbe, e non ha mano, ne lingua Formando in voce, ò descriuendo in carte, Quantunque il mal quanto può accresca, e impingua E minuendo il ben va con ogni arte Poter però, che delle donne estingua La gloria sì, che non ne resti parte Ma non già tal, ch’appresso al segno giunga Ne ch’anco se li accosti di gran lunga. E di fedeli, e caste, e saggie, e forti State ne son. non pur in Grecia, e in Roma, Ma in ogni parte, ove fra gl’ Indi, e gli Orti De l’Heiperide il Sol spiega la chioma, De le quai sono i priegi, o gli honor morti Si ch’a pena di mille una si noma, E questo; perche huuto hanno a lor tempi. I scrittori bugiardi, inuidi, et empi. [Iniquità de gli huomini] Che vi pare fretelli, già che non volete scoprir le opere buone del donnesco sesso tanto degno, et eccellente. Et quel che è peggio, andate sempre ritrouando qualche nuoua inuentione per vituperarlo, accioche resti conculcato, et sepolto; et pur le vostre madri erano donne. Et ardite di biasmarle? cosa inhumana. già che à guisa di nouelli Neroni volete dar morte alla materna fama: ma in darno vi affaticate; percioche la verità, che risplende in queste mie mal vergate carte, le inalzerà à vostro mal grado fino al Cielo Parlo hora di quelle huomini, che non conoscono la eccellenza delle donne; percioche non mancano, ne sono mancati (se bene in poca quantità) scrittori, che priui d’inuidia hanno, celebrato il sesso femenile con ogni lor potere, anzi che hanno riputato quegli huomini essere priui d’ingegno, et di humanità, che hanno offeso le donne, ò con mano, ò con lingua. Come fù Catone il grande. ilquale riputaua coloro, che offendeuano la moglie piggiori di quelli, P.36 che hauesser rubbato nel tempio, et offeso li Dei. Riputaua degno di assai maggior lode colui, che si portaua da buon marito, che chi era grande in Senato. questo racconta Plutarco nella sua vita. Conosceua adunque egli, che l’huomo deue amar la donna piu della sua vita, et tenerla per la sua nobiltà fra le cose piu care, et honorate. et questo dimostra etiandio Orsatto Giustiniano Senator Veneto in un suo sonetto, ch’egli compose in lode della sua fidissima, castissima, et meritamente da lui amata consorte. Il quale è questo. Ben ha di ferro il petto, e’l cor di sasso. Chi può lontan da fida sposa, cara Menar vita giamai tranquilla, e chiara; O senz’alto dolor pur mouer passo. Prouolo in me, che mentre hor l’hore passo Lungi da tè mia speme, unica, e rara, Pace non trouo: e m’è la vita amara, D’ogni ben rimanendo igniudo, a casso. Et in un altro sonetto mostrò, come ella è un tranquillo porto nelle sue fortune dicendo. Benigno il Cielo à tuoi preghi risponda Cara moglie: e in fauor ti sien li Dei. Poi che ne le fortune ogn’hor mi sei Tranquillo porto, e dolce aura seconda. Si che questi tali hanno conosciuto le doti Illustri, et chiare delle donne. Ma bastino questi due per hora; percioche s’io volessi raccontare tutti quelli, ch’hanno lodate quelle (et à ragione), lunghissimo tempo io consumerei. Et non descendrei à gli essempi, i quali sarrano da me diuisi in undeci capi più, che sarà possibile, breui. P.37 Delle donne scientiate, et di molte arti ornate. Cap. Primo. CRedono alcuni poco pratichi dell’Historie, che non ci sieno state, ne ci sieno donne nelle scienze et nell’arti perite, et dotte. Et questo appresso loro pare impossibile. ne si possono ciò dare ad intendere anchor che lo veggano et odano tutto il giorno, persuadendosi che Gioue habbia dato l’ingegno, et l’intelletto à maschi solamente, lasciandone le donne, ancorche della medesima spetie priue. Ma se quelle hanno la medesima anima ragioneuole, che ha l’huomo, come di sopra ha mostrato chiaramente, et anco piu nobile: perche anchor piu perfettamente non possono imparare le medesime arti, et scienze, le quali imparano gli huomini? anzi quelle poche, che alle dottrine attendono, diuengono tanto delle scienze ornate, che gli huomini le inuidiano, et le odiano, come sogliono odiare i minori i maggiori; et per non perdere il tempo intorno à quello, che ne’capi precedenti ho prouato, me ne discenderò à gli essempi, tra quali la prima sarà Amficlea, laquale, Porfirio nella vita di Plotino, fece nella filosofia merauigliosa riuscita. Scriue ancho Decearcho, che due potentissime donne abbandonarno le ricchezze per poter meglio seguire la dottrina del dotto Platone. Nicaula Reina di Egitto era dottissima, et per imparare un dubbio d’alcune cose difficili, et oscure, andò à ritrouare il Re Salamone, tanto in lei fù acceso il desio dell’intendere le cose secrete. Batista dignissima moglie del ‘Duca d’Urbino fù eccellentissima nel comporre orationi, et Epistole, et andò à Roma, et orò alla presenza di Papa Pio Secondo, non senza stupore, et merauiglia d’ogn’uno, et costei col suo gran giudicio resse con somma lode lo stato molti anni. Ma che diremo di Aspasia? Che fu tanto dotta ne gli studi filosofici, che fù degna maestra di quel gran Pericle, che parlando folgoraua, et tuonaua. Che di Assiotea? Laqual Apuleio, et Plutarco celebra nel libro del Dogma di Platone. Costei P.38 fù discepola di esso Platone, e fece grandissimo profitto ne gli studi della filosofia. Ond’ella è posta fra le donne Illustri, et segnalate. Doue rimane Cleubolina? Che fù figliuola di uno de’ sette sapienti. Della Grecia, che è sommamente lodata da Suida, da Atheneo, et da alcuni altri grandi Autori per le opere belle, ch’ella lasciò scritte. Doue Barsane? che fù moglie di Alessandro Macedone, che compose in lode di Nettuno bellissimi Hinni. Doue Cornelia moglie dell’Africano, et madre de Gracchi? Che compose Epistole piene di somma dottrina. Onde Quintiliano dice. Nã Gracchorum eloquentiæ (inquit) multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistolis traditus. Leontia giovinetta Greca fù molto chiara nelle filosofiche discipline, et non dubitò con sua gran laude di scriuere contra Theophrasto filosofo lodatissimo. Dottissima fù Dafne figliuola di Tirescial, laqual compose molti libri di poesia, delli cui versi si seruì Homero nel suo dotto Poema, come afferma Diodoro Siculo. Damone figliuola di Pitagora fece cosi gran frutto nella filosofia, che il suo proprio Padre le dedicò alcuni suoi commentarii, et dopo la morte di lui successe per publico lettore nella schuola. Dottissima etiandio fù Demofila nella poesia, laquale compose alcuni Poemi amorosi, et alcuni altri in lode della casta Diana. Ne merita silentio Femonoe, che fù tanto illustre, et famosa nelle lettere, che meritò che Eusebio Cesariense, Lucano, Statio, Plinio, Strabone, et altri facessero di lei mentione ne’ libri loro; et Antistene dice, che ella lasciò scritto quel gran detto, come di lui inuentrice, Nosce te ipsum. Zenobia Reina de Palmereni, come scriue Pollio Trebellio fu dottissima in tutte le lingue arde, et ridusse in compendio l’Historie delle cose Alessandrine. Hildega d’Alamagna non iscrisse molto dottamente quattro libri delle cose naturali? Elena Flauia Augusta figliuola di Cielo Re di Bretagna non iscrisse un libro della diuina prouidentia? Et un’non della immortalità dell’anima, et molti altri, ch’io per breuità tralasciò? Una nobile Bresciana detta Laura scrisse molte eleganti Epistole à Frate Geronimo Sauonarola. Ne voglio che rimagna à dietrò Aganice, che Plutarco celebra molto nel libro de’ precetti matrimoniali, che haueua singular cognitione della scienza d’Astronomia. Ma doue rimane Delbora? che hebbe tanta cognitione delle sacre lettere? Doue Caterina consorte di Enrico P. 39 Ottauo Re d’Inghilterra? Laqual compose un libro di Meditationi sopra i Salmi. Doue Anita? Che lasciò scritto nobilissimi poemi, come scrive Tutiano nel libro contra le genti. Doue Aretafila? Che fù moglie di Nicostrato Tiranno di Cirene per cagione della sua eloquenza. Dove Erina Teia? La qual hebbe tanta dolcezza, et maestà ne’suoi versi, che di età di tredeci anni fù pari al grande Homero, come scriue Plinio, Stobeo, et Eusebio. Theana fù eccellentissima ne versi Lirici, et una altra Theana di Metaponto, ouero Cresca scrisse il commentario della virtù della filosofia, et molti preclari Poemi. Hipatia Alessandrina moglie d’Hidoro filosofo fece alcuni commentarii di Astronomia. Heptachia figliuola di Teone gran Geometra diuene tanto grande negli studi di filosofia, che successe à Plotino, et nella istessa scuola, et catedra lesse. Et, come scriue Suida, fù dotta nella scienza d’Astronomia, et fece professione in publico di molte altre scientie, et haueua grandissima quantità di scolari alle sue lettioni. Iambe non fu inuentrice del verso nominato Iambico? Diotima fù nelle filosofiche disipline tante perita, che Socrate non si arrossi à chiamarla maestra, et andaua alle sue dotte lettioni, come dice Platone nel Simp. Laura Veronese figliuola di Nicolò compose cose mirabili, fece versi saphici, scrisse Epistole. Et orationi in lingua Greca, et Latina. Oue rimane la gloria della poesia, cioè Sapho Lesbia, laquale fiorì à tempi di Alceo, et di Stesichore poeti. Costei scrisse xi. libri di lirici, oltre ad altri Epigramici, elegie, et i Iambi. Et fu inuentrice del verso Saphico; prendendo il nome da lei, et tanto dolcemente et si copiosamente cantò. Che i Cieli ne presero stupore. Onde si può dire à gloria su a quei bellissimi versi delle Meditationi intitolate. de Christi cruciatibus di Fabio Paolini Lettor publico della Signoria di Venetia. Copia Nestorei, cui cedat gloria mellis Cedat, et ipse pater Linus, concedat, ‘et Orphe us Et qui Thebanas cantando condidit arces. Parua loquor, cœli hunc, et fidera sæpe loquetem Obstupuere, suum mira dulcedine captus Sol tenuit cursum, tenuerunt Flamina venti, Nec vaga præcipites agitarunt flumina cursus. Sæpius immotis volucris super aere pennis. Substitit, P.40 Che diremo noi del grande ingegno, et della profonda memoria della Damigella Triultia? Miracolo di natura, laqual recitò, molte volte orationi fatte da lei alla presenza di Pontefici in lingua Latina. Imparò lettere Greche, et quando sentiua recitare una oratione da aluno, benche una sola volta, la sappeua tutta à mente à parola, per parola. et leggendo una volta, ò due un libro lo sappeva recitar tutto. Margherita sorella del Re di Francia moglie del Re di Nauarra fù dottissima nelle sacre lettere. Marta Proba Reina de Brittani in tutte l’arti liberali fù peritissima. Pinthi compose un libro della temperanza delle donne. Polla, Argentaria moglie di Lucano fù eccellentissima nel comporre, versi et finì con somma elegantia versi incominciati dal marito. Temistoclea insegnò molte cose ingegnosissime a Pitagora suo fratello, come scriue Aristoxeno. Theselide donna Argiua fù molto dotta nella Poesia. Cassandra fedele etiandio dottissima era, disputò publicamente in Padoa, et scisse uno elegante libro dell’ordine delle scienze, et faceua bellissimi versi Lirici. Degno di gran meraviglia fu il profondo sapere di Lucretia da Este Duchessa d’Urbino nella Filosofia, et nella Poesia. La qual cosa si puo vedere in un sonetto, che à lei fece Giullio Camillo. Ben voi, voi sola con l’eccelsa mente A le cagion passando in ogni cosa, Leuate a la natura i suoi secreti. E stando Apollo, e le sue muse intente Al vostro dotto, stil, già gloriosa Auanzate i Filosofi, e i Poeti. Sosipatra fù indouina, et adornata di molte scienze; onde credeuano le genti, che qualche Dio le fosse stato maestro. Passilla nel compore Epigrammi molti auanzò, come testificano molti scrittori, che di lei honoratamente parlarno. Praxila fù Poetessa di Scitione, laquale ne’ suoi versi fa, che sia interogato Adonnio nell’inferno quel, che hauea lasciato al mondo di bello, et di degno, egli rispose, il sole i cucumeri, et i pomi. Disse il sole, non perche li paresse bello: ma perche col suo dolce calore maturiua i pomi, et i cucumeri. Corinna Thebana nella Poesia, vinse Pindaro Principe de’ versi Lirici, et vi fù una altra Corinna, laquale al tempo di Ouidio fù gran Poetessa. Non voglio, che à dietro rimanga Cornifica, laqual scrisse elegantissimi Epigrammi, et altre P.41 belle opere. Ne rimanerà à dietro Lastrenia Mantinea, et Ariotha Phlisia, le quali vestite da huomo seguiuano Platone, et andavano ad udirlo, come scriue Plutarco. Piena di filosofica dottrina era Thargelia, come l’istesso Autore nella vita di Pericle racconta. Veronica da Gambara era dottissima nella, Poesia, e come si può vedere anchora ne’suoi scritti fù rarissima, et ciò mostra l’Ariosto in questi versi dicendo. Veronica da Gambara è con loro Si grata à phebo, e al Santo Aonio choro Vittoria Collonna fù dottissima, et compose molti sonetti bellissimi. Però dice l’Ariosto di lei. Questa una ha non pur se fatta immortale Col dolce stil di che’l miglior non odo, Ma puo qualunque di cui parli, ò scriua Trar del sepolcro, e far ch’eterno viua. Hor diciamo di Isota Nouarrolla Veronese, laquale di filosofiche dottrine era adorna, faceua vita filosofica contentandosi di poco. Scrisse à Nicolao Pontefice, et à Pio, et sempre si conseruò vergine. Cassandra figliuola di Priamo fù illustre per dottrina, et per lo vaticinio molto chiara. Non voglio, che rimanga sotto silentio Claudia consorte di Statio Papinio, che per le sue molte scienze diede merauiglia all’età sua. Nesstrina Reina degli Scithi, la qual’era nella lingua Greca peritissima et la insegnò à Sile, suo figliuolo, come scriue Herodoto. Ne Mirte Autedonia, laquale fu maestra di Pindaro Poeta chiarissimo. Ne Rossuita Monaca di Sassonia, che molti libri lasciò in prosa et in verso. Hidria fù donna di tanto alto sapere, che non bastò l’animo ad Ercole à farle ressistenza. Ne contradire alle sue dotte, et subite rispeste. Onde il diuin Platone in un suo Dialogo la celebra altamente. Costanza moglie di Alessandro Sforza è celebrata fra le chiarissime donne, et essendo fanciuletta diede opera à’ buoni studi, come alla filosofia, et alla Poesia. Costei è fatta chiara, et celebre dal Politiano. Minerua figliuola di Gioue per niuna altra causa è posta fra il numero de Dei da poeti, se non per le buone arti, delle quali ella P.42 fù inuentrice: onde per la sua Dottrina fù chiamata Dea della sapientia, della scientia, della prudenza, dello studio, della maturità del senno, della legge, et d’ogni virtù. Et però Athene madre de studi ha preso il nome da lei; perche Athene significa Minerua. Le noue Muse non sono altro, che noue gouinette, come dice Diodoro Siculo in ogni sorte di disciplina eccellentissime, et specialmente nell’arte del cantare. Clio fù delle Satire inuentrice. Euterpe trouò le tibie. Talia è Dea delle comedie. Melpomene mise in uso le Tragedie. Polinnia è sopra i gesti bellici, et trouò la Rhetorica. Inuentrice fù della Geometria Erato. Tersicore è Dea de Poemi. Calliope fù ritrouatrice delle lettere. Et tutte queste giouinette furono dottissime nelle cose da loro inuentate. Scriue Clemente Alessandrino, che fù una Artemisia tanto profonda nella scienza dialettica, che Dialettica si nominaua. Et Amalasunta Reina fù molto erudita nelle lettere Greche. Celebrano Clemente, et Didimo ambedue Alessandrini Anassandra; perche hebbe mirabile cognitione dell’arte della pittura. Di molte altre potrei dire, come di Laura Terracina dottissima nell’arte della Poesia, et di Geneura Veronese, laquale fù chiarissima nelle Epistole: et di Manto figliuola di Tiresia, et di molte altre, che per breuità tra lascio. Da queste poche, dico, poche da me qui mentione à comparatione delle molte, ch’io tralascio, ciascun potrà ageuolmente conoscere, quanto profitto habbiamo fatto le donne ne gli studi, et in tutto quello à chi si sono date. Doue rimane Brigida santa? Che ci lasciò scritto un nobil libro delle sue riuelationi. Doue santa Caterina da Siena? Le cui lettere, et i cui dialoghi dimostrano di quanto sapere dotata fosse, oltre à ciò orò dinanzi à Gregorio undecimo, et ad Urbano Sesto Pontifici facondissimamente. Lodò molto san Gieronimo nelle sue Episotle, Eustochio, e Fabiola per la rara conoscenza, che hebbero delle lettere sacre. Anastagia discepola di Chrisostomo scrisse molte Epistole degne di merauiglia. Hilda Erenica lasciò scritte molte pie meditationi, et scrisse un libro contra Agilberto Parigino Vescouo de Saffoni. Hildergarde vergine della Città di Magontia molti libri compose. Onde san Bernardo, che nel suo tempo viueua, le scrisse molto Epistole. Caterina figliuola di Costo Re di Alessandria disputò contro à dottissimi filosofi, che la persuadeuano all’Idolatria, et ella con verissime ragioni gli fece capaci della fede di Christo, P.43 essendo essercitata nella scienza della filosofia, allaquale attese, come dice Marco Filippo cognominato il funesto, nella vita di lei, volendo mostrare ciò che pargoletta imparasse, lasciando l’ago, e il panno. Ma le scienze, che tant’alto vanno, E portan seco i sensi agri, e terrestri, Che poi rinchiusi nel corporeo velo Sappiamo come sta la terra, e il Cielo. Ne voglio, che Giouanna d’Anglia sotto silentio rimagna, che tanto dotta era nelle lettere sacre, che non v’era in Roma alcuno huomo, che l’agguagliasse. Le Sibille furono donne tutte letteratissime et piene di spirito profetico, le quali fecero i libri Sibillini, ch’erano tenuti in molto pregio, e riuerenza. La prima nacque in Persia, et è detta, Persica, di lei racconta quel Nicamore, che scrisse le Historie di Alessandro Magno. La seconda fù di Libia, et è detta Libica, celebrata da Euripide. La terza fù Delfo, et è detta Delfica. La quarta fù di Cuna d’Italia, et è detta Cumana. La quinta fù Eritrea, che predisse la ruina di Troia, et Apollodoro di Eritre si vanta, che nata fosse nella sua Patria. La sesta fu da Samo, e perciò è detta, Samia, et vogliono, che costei fosse al tempo di Romulo. La settima Amaltea, l’ottaua fù Elespontica, laqual nacque sotto il reggimento Troiano, al tempo di Ciro. Di lei racconta Iraclito Pontico. La nona fù di Frigia. La decima Tiburtina, cosi chiamata per essere nata à Tiburo, et come dice Latantio queste donne profetarono molte cose degne. P.44 Della Donne Temperate, et continenti. Cap. II. SOno chiamati quegli huomini continenti, et temperati, che si oppongono con la ragione à diletti, et à piaceri de’sensi, et in particulare si come habbiamo, da Aristotile, del senso del gusto, et del tatto; et quali sieno i continenti ce lo insegna nell’Ethica al capitolo 14. dicendo. Temperatus est, qui absentia voluptatum non dolet et presentibus se abstinet; ma se per auuentura egli desidera tali piaceri, usa una certa mediocrità, et si serue del tempo, e del modo, et di tutte le circostanze conuenienti. Et però lasciò scritto Aristotile nel medesimo luogo queste parole. Cupit mediocriter ea, et sicut decet, et ea tantummodo iucun da, quæ vel ad sanitatem, vel ad bonam habitudinem faciunt: recta enim ratio sie præscribit. Et però diffinendo la temperantia disse, ch’ella è una mediocrità intorno à i piaceri del gusto, et del tatto. È diffinitione ancho di Speusippo, il quale dice Temperentia est moderatio animi circa naturales concupiscentias. Ouer come Claudiano. Temperies, ut casta petas. Cicerone nel quarto delle Tusculane. Temperantia sedat omnes appetationes, et efficit, ut recte hęc orationi pareant. Et però fù da lui chiamata a moderatrice di tutti gli empiti della concupiscenza: et anchor che sia ad ogn’uno cosa notissima, che le donne sono continenti et temperate; perche non si vede, ò legge che si ubriachino, et stieno nelle Tauerne tutto il giorno, come fanno i vitiosi maschi, ne che sfrenatamente si dieno ad altri piaceri, anzi in tutte le cose sono moderate, et piu tosto parchissime. Perciò voglio porre dinanzi à gli occhi de’ lettori alquanti essempi. Il primo sarà quello di Zenobia Reina di Palmereni, laquale, dopo la morte del suo marito Odenato, resse con molta laude l’Imperio dell’Oriente: nelle guerre mostrò valore di nobilissimo Capitano, et di prode guerriero: Era ornata di una gran bellezza, era giouine, et pudicissima, et mai non piegò l’animo à lasciuie, et à vanità, et quello che le diede gran lode fu la costanza, et la fermezza dell’animo: fece molte guerre, et all’ultimo con Aureliano, et per P.45 quanto alla virtù humana s’appartiene, vincitrice era Zenobia; et quelli di Aureliano andauano in fuga: Ma intanto che fuggiuano, lor apparue un Dio, che lor diede animo. Onde essendo essi poi ritornati alla battaglia furono vincitori, et cosi non per il proprio valore vinsero la fortissima donna, ma per l’aiuto di quel Nume, che loro apparue. Questo racconta il Tra. Mentre ella regnò, pochissimi haueuano ardire di prendere l’armi contra lei, et però il Petrarca di lei ragionando dice. Zenobia del suo honore assai piu scarsa Bella era nell’età fiorita, e fresca Quanto in piu giouentute, e’n piu bellezza Tanto per c’honestà sua laude accresca. Nel cor femineo fù tanta fermezza, Che col bel viso, e con l’armata coma Fece temer chi per natura sprezza: Io parlo de l’Imperio alto di Roma et etc. Non voglio, che il silentio inuoli la memoria di Soffronia nobilissima matrona Romana, laquale mentre, che Massentio era Imperator da lui fù molto sollicitata, volendo godere di lei, et talmente era a stretta, che s’ella di suo volere non consentiua à Massentio, chiaramente vedeua che le sarebbe stato fatto violenza. Costei raccontò al marito tutta la cosa, et perche consentiua il marito à questa dishonestà ò per paura, ò per viltà d’animo, ella conoscendo la volontà del marito, si adornò di gioie, et d’oro, et accompagnata da una fante entrò nella camera dello Imperatore, dove poiche con lunga oratione si scusò verso Dio; già che ella, innanzi il giorno ordinato da lui, usciua di questa vita, prese un coltello, e si uccise per non machiar di alcuna macchia il corpo, ò l’animo suo pudico. Casta etiandio fù chiamata Lucretia dal Petrarca ne i trionfi oue dice. Ma d’alquante dirò, che’n su la cima Son di vera honestate, in frà le quali Lucretia da man destra era la prima. Monima Milesia fù tanto amica dell’honestà, che mai non si volle piegare a’voleri di Mitridate Re de gli Armeni per gran P. 46 copia d’oro, che da lui le fosse offerto. Essendo stata gittata à terra Thebe, il crudel Nicanore fù preso d’amore di una vergine, Thebana, credendosi ch’ella douesse gloriarsi di un tale amante, et hauer di gratia à farli piacere; nondimeno poi che lungo tempo hebbe con prieghi, et con minaccie tenato, et non havendo operato cosa alcuna, dubitanto la Vergine, che non le fosse fatto oltraggio, si uccise per conseruarsi intatta. Non merita silentio la castissima Penelope moglie d’Ulisse, da Homero nell’Odissea per tale hauuta, la quale, come egli dice, era molto da Proci molestata, per che tutti à gara la voleuano per moglie, essa rifiutando ogn’un di loro viueua casta, et pudica, aspettando il suo marito Ulisse: et però Homero sempre quando la noma, le dà questi aggiunti ò di casta: ò di prudente, ò di saggia, come la saggia Penelope; costei aspettò il marito venti anni, ne sapea oue si fosse, et però il Petrarca la pone nel triompho della castità dicendo. L’altra Penelope queste gli strali Et la pharetra, e l’arco hanno spezzato A quel proteruo, e spennachiate l’ali. Et l’Ariosto considerando di quanto conto sia l’honestà dice. Sol perche casta visse Penelope non fù minor d’Ulisse. Grande fù la pudicitia di quelle cinquanta Vergini Spartane, le quali essendo per cagion d’alcune feste venute alla Città de’ Messini, si come era lor concesso per l’accordo, che haueuano insieme, da i giouini Messini furono d’amore tentate, et le pudiche donzelle, per fuggire la color violenza preponendo l’honestà alla vita, si amazzarono da lor medesime. Et anchor che sia cosa verissima, che non sia lecito l’ucider se medesimo per alcuna cagione nondimeno sono queste tali, lodate da gli antichi, i quali non haueano il lume della vera fede. Ma che diremo noi della Reina Didone? Alla quale essendo stato ucciso dal fratello Pigmalione Sicheo suo carissimo marito, et viuendo in continua doglia con grand’odio verso il fratello, quando ella s’auide, ch’egli cercaua anco di far morir lei, fingendo che la fosse cessato il dolore, et l’odio, che che P.47 hauea verso il fratello, secretamente si mise in punto per douer fuggire, et per far la fuga piu sicura, finse di volere andare dal fratello; ma prima hauea fatto à molti principali huomini intendere il suo disegno, et furono molti quelli, che fuggirono con lei: percioche odiauano il Tiranno, et dopo molto navigare Didone giunse in Africa, oue edificò Cartagine, et con molta piaceuolezza attrasse à conuersar seco i paesani, et riempì in breue la Città di popolo: tante genti da ogni parte vi concorreuano, che gran piacere ne sentiua la Reina co’suoi. Onde Iarba Re di Mauritania, che vedeua cose prosperamente le cose de Tirii andare, hauendo gia hauuto nuoua della molta bellezza di Didone, fece venire in Mauritania dieci de’ principali di Carragine; et impose loro, che operassero di sorte con la lor Reina, che fosse sua moglie, altrimenti minacciaua loro una cruda guerra. Costoro, che sapeuano quanto fosse lungi da questo pensiero Didone, erano dolenti: ma quando giunsero à Cartagine fecero intendere à lei, come Iarba la voleua, et la chiedeua, per moglie, altrimenti una crudel guerra aspettasse; quando ella udì questo, ne sentì un graue affanno, et cominciò lagrimando à chiamare il suo caro Sicheo; et poi volgendosi à’ suoi disse, che andarebbe doue il suo destino, et quello della sua Città la chiamaua, et tolto quattro mesi di tempo, fece alzare una pira nell’ultima parte della Città, come volesse placare l’anima di Sicheo, prima che andasse al nuouo sposo: quiui ella fece amazzare molte vittime et montata sopra la pira con una spada ignuda in mano, disse di volere andare à trouare il marito, come promesso hauea, et cosi in presenza di tutto il popolo ammazzò se stessa, et fù mentre durò Cartagine adorata per Dea, come racconta il Tarcag. Et questa veramente è stata un chiarissimo specchio di honestà, et di fedeltà: benche Virgilio finga, il qual seguitò il Passi, che si uccidesse per amore di Enea, laqual cosa è falsa; et il Petrarca biasma una tale opinione dicendo. Taccia il vulgo ignorante, e dico Dido [Error del Passi.] Cui studio d’honestade à morte spinse, Non quel d’Enea, com’è publico grido. Ma doue rimane Virginia figliuola di Virginio Romano, pleeo? Costai haueua promessa la figli vola ad Istilio Lucillo essendo P.48 egli in campo insieme con gli altri Romani: Claudio il quale era uno de’ dieci, che ministrauano quasi mezzo il dominio di Roma, tersò piu volte con lusinghe et con doni d’indurre Virginia à fare quanto à lui piaceua, le quali cose furono vane; perche ella non acconsenti à suoi voleri, essendo tanto sauia, et casta, quanto imaginar si possa. Hauendo veduto il buono Appio Claudio, che non potea fare cosa, alcuna, si conuenne con un suo liberto huomo audacissimo, che douesse rapire la fanciulla, mentre andaua per la via, come fuggitiua serva, et cosi pigliata, la menasse al tribunale, accio ch’egli la giudicasse. Fece il liberto quanto Appio Claudio gli hauea comandato, et un giorno ritrouando Virginia la pigliò, et ella difendendosi, et difendendola le donne, che erano con esso lei, in questo mezo vi corse il popolo, et fra gli altri il marito: intesa adunque la difensione fù annuntiata al Giudice, il quale disse di volere dar la sentenza in giorno dietro; intanto Virginio intesa la nouella subito venne à Roma; ma non venne cosi tosto, che prima Claudio non hauesse data la sentenza, che Virginia fosse serva di quel liberto. Laqual cosa sentendo il Padre della fanciulla, pregò Claudio, che lo lasciasse parlare alla figliuola, et alla nutrice in presenza del popolo. acconsentì il peruerso Giudice alla domanda, et egli tirata da parte Virginia, disse. Figliuola mia per questa sola via, che m’è conceduta ti ritorno nella tua libertà, et preso un coltello alla presenza del Giudice le diede nel petto, ilquale essa senza, niun timore, et generosa alla percossa volontariamente offeriua: onde conosciutasi la iniquità di Claudio fu pigliato, e messo in prigione, oue morí miseramente. Mi souiene di Orithia figliuola di Erichtheo Re di Atene, che fù una delle Amazoni, questa fù somamente lodata per la sua castità; perche sempre si conseruò vergine. Le figliuole di Aristotimo Tiranno di Edile piu tosto che essere violate, s’impiccarono; essempio veramente di una vera honestà. Mi souiene etiandio d’Isabella, che si fece tagliar la testa, hauendosi bagnata col succo di herbe il suo candido collo, et questo fù verissimo in Brasilla da Darazzo, per conseruar la sua honesta, dalla, quale l’Ariosto tolse l’essempio. Ma, in cortesia, si potea imaginar la piu bella inuentione per conseruarsi casta contra lo sfrenato Rodomonte di quella, che trouò questo essempio di castità, dandogli ad intendere, che quel liquor d’herbe, bagnandosi tre volte, indurasse cosi fortemente il corpo, che l’assicurasse dal fuoco, et dal ferro, et P.49 hauendo cotte le herbe bagnossi il candido colle, et il seno, et al feroce, et inaueduto Rodomonte lo porse; come vagamente dice l’Ariosto nel can. 29. accioche lo troncasse dal busto, con tai parole. Bagnossi, come dissi, et lieta porse A l'incauto pagano il collo igniudo, Incauto, e vinto anco dal vinso forse Incontro à cui non val'elmo, ne scudo Quel'huom bestial le prestò fede e scorse Sì con la mano, si col ferro crudo, Che del bel capo, già d'Amore albergo, Fe tronco rimanere il petto, e'l tergo, Quel fe tre falti, e funne udita chiara Voce, ch'uscendo nominò Zerbino, Per cui seguire ella truuò si rara Via da fuggir di man del Saracino. Alma, c'hauesti piu la fede cara, E'l nome quasi ignioto, e peregrino Al nostro tempo, e della castiade Che la tua vita,e la tua verde etade. Cosa veramente degna di eterna memoria. Sulpitia, come racconta Tito Livio, fù castissima: era Pratritia figliuola di Sulpitio, et moglie di Quinto Flauio Flacco, eresse il tempio alla Dea Venere; accioche riuolgesse gli animi lasciui alle honestà, et alle virtù et la chiamarono Verticordia, come dice Plinio; costei non fù dimen famoso grido di castità, che fosse Lucretia; et però dice il Petrarca. Cosi giungemmo à la Città soprana Nel tempio pria; che dedicò Sulpitia Per spegner de la mente fiamma insana. Et che diremo noi della pudicissima Principessa di Tarento? La quale era stata promessa à Corsamonte, et essendo presa da Goti, Cormsaonte per liberarla, fù per inganno da Burgenzo ucciso, et ella, benche la pregasse Bellisario, non volle più marito: ma si fecce P.50 chiudere in una picciola cameretta appresso la tomba di Corsamonte, per conseruarui la sua virginità, come il Trissino nel lib. 23. lei fa rispondere à Bellisario, che le voleua ritrouare un'altro sposo di età conforme à quella di Corsamonte in questo modo. Deh lasciate Signor, ch'io mi rinchiuda In uno scuro, e lucido facello Oscuro al mondo, e lucido alla vita, Oue la mia verginità si serui Intatta, e purghi quei pensieri inulti Ch'eran già nel mio cor d'hauer marito. Diana fù tanta casta, che fu chiamata Dea della castità, et fuggendo gli huomini, si essercitaua nelle caccie. Sempre era in compagnia di Vergini Ninfe, et essendo un giorno entrata, per di porto, in un chiarissimo fiume, ò fonte con altre Ninfe, souragiunse Ateone, et mirò Diana, et ella tingendosi di honesto rossore, come dice Ouidio nel libro terzo delle Metamorphosi, con questi versi. Qui color infectis aduersi solis ab ictu Nubibus esse solet, aut purpureae Aurorae Is fuit in vultu visae fine veste Dianae Lo spruzzò con l'acqua, et lo fece diuentare un ceruo. Aretusa Ninfa figlia di Nereo, et di Doride compagna di Diana un giorno per rinfrescarsi, si bagnò nel fiume Alpheo, ilquale corre per l'Arcadia, subito Alfeo Dio di quel fiume fù preso d'amore, et la volle prendere, essa ch'era vergine casta lo fuggì, et corse tanto, che per il molto sudore, si liquefece, et traformossi in un fonte. Come dice Ouidio nel libro quinto. Occupat obsesso sudor mihi frigidus artus: Cerulee quae cadunt toto de corpore guttae, Quaque pedem moui, manat locus: aeque capillis Ros cadit: et citius, quam nunc tibi fata renarro In latices mutor. I quali versi tradotti in volgar lingua da Fabio Maretti tali sono. P. 51 Un gelido sudore in ogni parte Mie membra assediate intorno oppresse E par, che'l corpo mio tutto si stille E'n terra caggian le cerulee stille: E dove mossi il piè'l sito ho bagnato E rugiada cadea dal crine sciolto E ratto piu ch'io non ti narro il fatto In acque tutta mi disfaccio, e volto. Oltre à queste mi souiene della Ninfa Siringa famosa fra l'Amadriadi, laquale per amore della tanto da lei amata honestà, et virginità sprezzò i Satiri, et quanti Dei, che habitauano nelle selue. Accade che Pan Dio un giorno la vide, et la desiderò hauer per moglie: ella sprezzandolo fuggì, et pregò le caste sorelle, che la cangiassero in qualche nuoua forma per fuggire il Dio, et mutossi in canne Palustri, come dice Ouidio nel lib. 1. Panaque, cum prensam sibi iam Siringa putaret: Corpore pro Nymphe calamos tenuisse, pallustres. Daphne imitatrice di Diana sempre visse casta, et godeua delle caccie, et domandò al padre gratia di conseruar perpetua virginità, come dice il medesimo. Da mihi perpetua genitor carissime dixit, Virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae. Et Appollo essendosi inamorato di lei, la seguì, et fuggiua ella, laqual dopo molto correr giunse al fiume Peneo, et lo pregò a torle quella bellezza, et si trasformò in un Lauro, che sempre si mantiene verde, come dice l'istesso, Vix prece finita torpor grauis occupat artus, Mollia cinguntur tenui precordia libro In frondem crines, in ramos brachia crescunt, Pes modo tam velox pigris radicibus haeret Ora cacumen habent, remanet nitorunus in illa. P. 52 Ma che diremo noi delle donzelle Lacedemonie? Delle Spartane? Delle Milesie, et delle Thebane? Che apprezzarono piu il fregio della santa pudicitia, che i regni, et la propria vita che delle Tedesche? Le quali disformando le faccie con le brutture, et co' coltelli, et molte annegandosi conseruarono le loro persone caste, et senza macchia. Ma doue rimane Hersilia, et le altre Sabine? Questa essendo stata con le altre compagne rubata da' Romani visse castissima, si come tutte le altre co lor mariti, fedelissime, come scriuono tutti gli scrittori delle Romane Historie; però il Petrarca le pone nel trionfo della castità dicendo. Poi vidi Ersilia con le sue Sabine Schiera, che del suo nome empie ogni libro. Non voglio, che rimagna à dietro Claudia Vergine Vestale, della quale molti dubitauano, ch'ella non fosse, come era, casta; perche andaua ornata; ma udite, come si scoprì la sua incorrotta castità. Essendo menata di Frigia à Roma la gran Madre Terra, come fù la naue nella foce del Tebro, oue era andata quasi tutta Roma ad incontrarla, si fermò ne fù possibile mouerla di quel luogo, benche molti si sforzassero tirarla sù per il fiume: all'hora Claudia prostrata su la riua del fiume, e stendendo le mani giunte verso la Dea. Tu sai, disse, alma Dea, che io son tenuta poco pudica dalla mia Città Roma, so cosi è, ti prego, mostrane segno, che condannata da te, che sai l'intimo del cor mio, mi confesserò degna della morte; ma se altramente sono, tu che casta sei, et pura, dando à questo popolo fede de l'integrità mia, segui la mia pudica mano: et ciò detto diede di piglio ad una picciola fune, e tirò la naue à suo piacere, mostrando la Dea di seguirla volontieri, con gran merauiglia di chi la vide: segno certissimo della sua pudicitia. Ma non cede à questa quell'altra Vergine vestale, laquale, mentre nel tempio i giudici disputauano di lei, essendo stata accusata falsamente, se ne venne al tempio con un Criuello pieno di acqua del Tebro, senza caderne fuori pure una picciola goccia: tutto questo racconta Tito Liuio, et cosi cauò dalle menti de' Giudici ogni sospetto. Et però dice il Petrarca nel trionfo della castità di lei queste parole. P. 53 Fra l'altre la Vestal vergine pia Che baldanzosamente corse al Tibro Et per purgarsi d'ogni colpa ria. Portò dal fiume al tempio acqua col cribro. O quanto cara fù la verginità à Mica Eliense, che essendo venuta alle mani di Lucio soldato d'Aristone, non volle mai nè per minaccie fare il suo piacere; benche il Padre proprio la pregasse molto, che compiacer li dovesse: ella ferma nella sua casta volontà ingenocchiata à suoi piedi lo pregaua à non le lasciar far quello oltraggio, ma il giouine sfernato la battè crudelmente nelle braccia paterne et poi le troncò il capo. Laura come dice il Petrarca era donna castissima, et oltre che in tutto: il suo libro la celebra per tale, la pone anchora nel Trionfo della castità dicendo. Passo qui cose gloriose, e magne Ch'io vidi, et dir non oso, à la mia donna Vengo, et à l'altre sue minor compagne. Ell'hauea in dosso il dì candida gonna, Lo scudo in man, che mal vide Medusa D'un bel Diaspro era iui una Colonna A la qual d'una in mezo Lethe infusa Catena di Diamanti, et di Topatio Che al mondo fra le donne hoggi non s'usa Legare il vidi, et farne quello stratio Che bestò bene à mille altre vendette, Et io per me ne fui contento, e satio. Et la descriue vestita di bianco per mostrare la sua pura honestà. era etiandio Fiordiligi casta, et fedele moglie di Brandimarte, la quale, dopò che le fu ucciso il marito Brandimarte, fece farsi una cella nel sepolcro di lui, et sempre visse pudicamente, come dice l'Ariosto nel canto. 43. in questo modo. Euedendo le lagrime indefesse, Et ostinati uscir sempre i sospiri: Ne per far sempre dire offici, e messe P. 54 Mai satisfar potendo à i suoi desiri; Di non partirsi quindi in cor si messe Fin che dal corpo l'anima non spiri, E nel sepolcro se far una cella E vi si chiuse, e fe sua vita in quella. Et benche fosse pregata da Orlando, mai non fù possibile leuarla di quel luogo. Ma doue rimane Rosmonda, creduta figliuola del Re de Gothi? La reina de quali la pregaua d'ornarsi; accioche il Re Germondo si Svetia la pilgiasse per moglie, mostrandole quanta gran cosa sia l'esser reina di genti magnanime; et ella disprezzando le grandezze di questa vita, et solamente amando la castità, cosi le risponde, come dice il Tasso nel suo Torrismondo. Madre io no'l vò negar, ne l'alta mente Questo pensiero è gia risposto, e fiso Di viuer vita solitaria, e sciolta In casta libertade, e'l caro pregio Di mia verginità serbarmi integro Piu stimo, che acquistar corone, e scettri. Non voglio già che Enone Ninfa casta, et pudica resti fuori di questa honorata compagnia. Essendo ella stata tolta per moglie da Paride figliuolo di Priamo, et poi lasciata da lui, sempre visse pudica. Verginia figliuola di Aulo patricio, moglie di Lucio Volunnio Console, huomo Plebeo eresse un tempio alla pudicitia, ilqual tempio era fatto delle case, oue essa habitaua, et invitando le matrone le confortaua, che la medesima gara, che fra gli huomini è della virtù, fosse fra le matrone di castità, et pudicitia; et questa Verginia fù honesta quanto imaginar si possa, come dice Tito Liuio. P. 55 Delle Donne forti, et intrepide. Cap. III. E la fortezza una costanza di animo, che si oppone à tutte quelle cose, che sogliono apportare spauento di morte per un fin lodeuole, et honesta, ò di virtù. [Fortezza cosa sia.] Cosi la descrisse Speusippo dicendo. Est fortitudo animi constatia ad versus ea, quae terrere solent virtutis gratia. Questa diffinitione diede anchora Arist. nel lib. 3. dell' Ethica al cap. 6. non teme adunque il forte le cose più terribili, et horribili, che ritrouar si possano, come è la morte della quale niuna cosa al mondo è più spauenteuole: ma però non la desidera. Mors enim maximè omnium terribilis est rerum. Come nel medesimo luogo si legge. Hauendo però sempre per proprio fine l'honore. Onde disse Arist. Que Mors in pulcherrimis rebus contingit, cuinsmodi sunt, que in bello oppertuntur in maximo silicet et pulcherrimo periculo, his consentiunt etiam honores, qui et à ciuitatibus, et à regibus instituti sunt. Elegge adunque il forte di porsi al pericolo della morte, percioche la cosa ha fine honoreuole, et non facendo questo in vergogna, et in biasimo li ritornerebbe. Onde soggiunge. Et ea de causa quia honestum est eligit, et sustinet; vel quia id non facere turpe est. Magis enim timet turpitudinem vir fortis, quam in ortem. Et però si può con ragione dire, che l'huomo forte non può essere misero, come dice Seneca. Quemcun quae fortem videris miserum neges. Hora veniamo à gli essempi di quelle donne, che disprezzando la propria vita, hanno operate cose grandi, et marauigliose con non poca inuidia de gli huomini, et con non poca vergogna loro, et come dice Aristotile hanno eletto di mettersi ad ogni pericolo, percioche il fine era honesto, et buono. Saranno le prime fra le altre honorate donne quelle di Curzola, essempio recente, et nuouo, le P. 56 quali disprezzando la propria vita si opposero alla formidabile armata di Selim Imperatore de Turchi, che voleua prendere Curzola. Queste essendosi vestite tutte di ferro con gli elmi in testa, con picche dando fuoco alle arteglierie, et inuitando quelle, che venute non erano al combattere con suon di Tamburi, et di trombe, fecero so, che Vluzali Capitan de Turchi, lasciò con poco suo honore la tentata impresa. Che dite di queste fortissime, et intrepide Donne? Che ad onta del Capitano, de soldati, et de gli huomini, iquali erano fuggiti, saluarono la patria. A queste gloriose donne non cede Matria Bronchia, che armatasi con le armi del marito, il quale pien di paura se ne era fuggito, combattendo alle mura di Pisa, et passando tra nemici tanto potè, che liberò la patria. Onde il popolo liberato le fece una statua in segno di honore. Porremo anchora fra questa intrepida Schiera di ben nate donne la madre d'Ircano, la quale essendo stata pigliata da' nimici, et tormentata alla presenza del figliuolo di Tolomeo; accioche Ircano levasse l'assedio, essa benche fosse vecchia, sopportaua i tormenti, et con voce altissima pregaua il figliuolo à combattere, et non lasciar l'impresa, segno veramente di animo forte. Non lasciaremo sotto silentio la madre di Cleomene Re degli Spartani, la quale essendo data à Tolomeo in ostaggio, per segnale di volere mantenar la fede con esso lui, cioè di non far pace co nimici senza il suo consentimento, et perche hauea inteso la Madre di Cleomene, che i nemici li offeriuano la pace con honorate conuentioni, gli scrisse, che à patto veruno non volesse lasciar d'accettare quella pace, per saluare il corpo di una vecchia; essendo quella honesta, et utile alla patria sua. Non si può adunque dire, che costei non fosse di inuincibile, et forte animo, che per la salute della sua patria sprezzaua la propria vita. Grandi, et merauigliose furono le opere delle Donne Argive sotto la scorta di Telessilide, contra Cleomene Re di Sparta. Hauendo costui fatto morire (Notate) una gran quantità d'Argivi, andò con l'essercito sopra Argo per pigliar la Città, ma le Donne hauendo deliberato di difenderla, fatta lor capo Felessilide, si presentarono con le armi sopra le mura, della quale cosa molto si marauigliò il nimico, il quale hauendo dato più volte l'assalto in vano con gran perdita de' suoi, fù in ultimo costretto à ritornare in dietro. le stesse Donne cacciarono fuori Demarato Re il quale P. 57 hauea occupata una parte di Argo, chiamata Pamphilia, et cosi fù per valor delle donne conseruata la Città d'Argo nella sua libertà. Bastino queste, le quali mettendo à rischio la propria vita, saluarono la patria; percioche lungamente ne tratterò nel capo dell'amor delle Donne verso la patria, et veniamo hormai à gli essempi di quelle prode Donne, le quali per fuggir la seruitù de' nimici si sono volontariamente uccise; percioche se cosi non hauessero fatto, sarebbe stato loro graue infamia, come dice Aristotile. Quia id non facere turpe est; magis enim timet turpitudinem vir fortis quàm mortem. La prima sarà Monima Milesia, moglie di Mitridate, la quale hauendo intesa la perdita, dell' Essercito, et la fuga di Mitridate suo marito, elesse di uccidersi, et leuandosi la corona della fronte se la cinse al collo, et s'impiccò: ma quel capestro non potendo, per la sua debolezza, sostenere la grauezza del corpo, si ruppe, et ella disse. Ò maledetto Diadema in cosi tristo uffitio non mi hai anco seruita, et sputouui sopra disprezzandolo, et subito chiamò Bacchide ennucho, et si fece amazzare come dice Plutarco et ciò pone il Passi nel suo libro, per atto di disperatione, la qual cosa non dice Plutarco, sapendosi che. Magis timet turpitudinem vir fortis, quàm mortem. Et questa era la seruitù, et la potenza reale che le soprastaua. [Error del Passi.] Rossana, et Statira sorelle del predetto Mitridate pigliarono il veleno, et lodarono sommamente il fratello, che loro hauea fatto sapere il pericolo, et cosi morirono per fuggir la seruitù del nimico. Non merita silentio Zenobia Reina d'Armenia, laquale fuggendo col marito gli Armeni, et non potendo sofferire il trauaglio del correre: perche era grauida, pregò caldamente il marito Radamasio, che l'ammazasse per non restar cattiua, ilquale dopò molte lagrime le diede col ferro nella gola, et gittola nel fiume Arasse. Et Cleopatra, figliuola di Tolomeo Pitone Re dell'Egitto, molto più temette la vergogna, che non amò la vita; perche essendo certa di essere menata in trionfo da Cesare Augusto, et essendole tolta ogni opportunità di potersi uccidere, fece portarsi de' fichi con molte foglie, fra le quali era un Aspide, tolto i fichi, porse lietamente, per fuggir l'imperio altrui, il suo candidissimo petto à morsi velenosi del freddo Aspide, et cosi in poche hore la vita, finì, et priuò di una grandissima allegrezza Cesare P. 58 Augusto, che credeua di condurla seco à Roma in trionfo. Chiarissimo essempio di fortezza fù la moglie di Stratone prencipe di Sidonia, il quale essendo assediato, et vicino ad essere pigliato da nimici, essa non potendo soffrir tanta vergogna, et indegnità l'amazzò, et con l'istesso ferro passò à se stessa il petto, albergo di eterno valore. Mi souiene etiandio della nobilissima Donna nominata Dugna, la quale per fuggir la seruitù, et non venire alle mani de soldati di Attila Re de gl'Unni, si annegò. Ma considerate, di gratia, la generosa fortezza delle donne Phocesi, le quali si contentauano di morire arse nel fuoco, se Diaphano perdeua l'essercito; et haueuano apparecchiate le legna per non cadere nelle mani del nimico. Ne vo lasciare l'essempio illustre della moglie di Phanto. Tolomeo dopo che hebbe fatto scorticare il corpo morto di Cleomene suo nimico, volle che Cretesiclea madre di Cleomene, et i figliuoli s'uccidessero, et insieme la moglie di Phanto, la quale era Donna bellissima, et di animo forte, et valoroso. Costei hauea seguitato il marito nell'esilio et costantemente sostenendo la fortuna nimica, et le fatiche, mentre gli altri veniuano menati alla morte, ella confortaua con dolci, et amoreuoli parole la madre di Cleomene, la qual lietamente v'andaua per fuggir la seruitù; ma come furono giunti al luogo, oue sogliono far morire i malfattori, prima uccisero dinanzi à gli occhi delle ardite Donne i miseri bambini, figliuoli di Cleomene, dopò i fanciulli, Cretesiclea fecero morire, et mentre moriua, la moglie di Phanto le acconciaua i panni intorno, sempre confortandola; rimase sola la moglie di Phanto, et essendo di petto forte, et intrepido senza trar sospiro, ò lagrima si accomodaua, come voleua morire, ne comportò la castissima donna, che alcuno se le accostasse, fuor che colui, che la douea uccidere, et fece una morte degna di una tanta donna, non senza stupore, et merauiglia del crudel Tiranno. Non merita silentio la moglie di Asdrubale, che hauendo inteso la graue perdita del marito, et per timor di seruitù si gettò in un ardentissimo fuoco con tre fanciullini. Ma che dirò io di Sophonisba? Figliuola di Asdrubale, et moglie di Siface, la quale hauendo udito, che il marito era prigione et il campo rotto, determinò piu tosto volere morire libera, che viuere in seruitù, come il Trissino nella sua tragedia fa dire. In questo modo. P. 59 Sarà, ch'io lasci la regale stanza, E lo natiuo mio dolce terreno: E ch'io trapassi il mare, E mi conuegna stare In seruitù sotto il superbo freno, Di gente aspra, e proterua, Nemica natural del mio paese. Non sien di me, non sien tai cose intese; Piu tosto vo morir, che viuer serua. Notate queste bellissime parole, che ella dice poco piu sotto, degne senza dubbio di un animo generoso, et forte. La vita nostra è come un bel thesoro, Che spender non si deue in cosa vile Ne risparmiar ne l'honorate imprese, Perche una bella, et gloriosa morte Illustra tutta la passata vita, E come la valente donna hebbe veduto Masinissa, Re de Massuli li andò incontra, et la gratia, che à lui domandò, fù, che non la lasciasse andare in seruitù de' Romani dicendo. E se ciascuna via pur vi sia chiusa Da tormi da l'arbitrio di costoro, Toglietemi dal cor con darmi morte. Questa per gratia estrema vi domando. Et quando Masinissa le mandò il veleno, non hauendola potuto difendere, l'accettò volentieri, et lo prese senza pianto, ò sospiro, et senza mutarsi di colore, come lo stesso Autore fa dire ad una serua. Oue senza tardar prese il veneno, E tutto lo beuè sicuramente Infino al fondo del lucente vaso, Ma quel che piu mi par merauiglioso, E, ch'ella fece tutte queste cose P. 60 Senza gittarne lagrima, ò sospiro; E senza pur mutarsi dicolore. Donna certamente degna di ogni lode, et finalmente se ne morì in vita, et gloriosa. Ma che dirò di Sofronia? La quale, mentre il soldano Aladino voleua abbruciare, et uccidere i miseri Christiani, pensò di volere con la sua morte difendere l'altrui vita, come dice il Tasso nel lib. 2. stan. 13. A lei, ch'è generosa, quanto è honesta, Venne in pensier come saluar costoro. Moue fortezza il gran pensier; l'arresta Poi la vergogna, e'l virginal decoro; Vince fortezza; anzi s'accorda, e face S'è vergognosa, e la vergogua [sic] audace. Et il Tasso qual merauigliandosi di tanta fortezza dice mentre s'era appresentata al Tiranno Aladine, et hauea scoperta se medesima inuolatrice della imagine. Cosi al publico fato il capo altero Offerse, e'l volse in se stessa raccorre: Magnanima menzogna, hor quand'è il vero Si bello, che si possa à te preporre? E quando ella vide il misero Olindo venire ad offerirsi alle medesime pene per slegar lei. Non son'io adunque senza te possente A sostener ciò, che d'un huom può l'ira? Ho pettn anch'io, ch'ad una morte crede Di bastrar solo, e compagnia non chiede. E Clorinda sopragiungendo, e vedendo costoro si fa loro vicino et gli mira: ma vede Olindo gemere, et tacere Sofronia. Cedon le turbe, e i duo legati insieme Ella si ferma à riguardar da presso; P. 61 Mira, che l'una tace, e l'altro geme; E piu vigor mostra il men forte sesso. Ma se mostraua piu vigor, non era men forte ma si piu forte, come apertamente, si puo conoscere per tanti essempi scritti da gli Historici, et da Poeti. Non vo che resti à dietro Polissena figliuola del Re Priamo fortissima nelle miserie, et nella morte, la quale essendo ancora fanciulla fù condotta alla tomba di Achille, et ricordandosi della sua reale stirpe volentieri si lasciò uccidere più tosto, che gir serua de gli Argiui: la cui morte, et il cui modo di morire descriue Ouidio nel lib. 3. Dicendo. Fortis, et infelix, et plus quam foemina virgo Ducitur tumulum: diro; fit ostia busto. Qua memor ipsa sui, postquam crudelibus aris Admota est: senstique; sibi fera sacra parari, Utque Neoptolemum stantem, ferrumque; tenentem Utque suo vidit figentem lumina vultu, Utere iandudum generoso sanguine, dixit. Nulla mora est: aut tu iugulo vel pectore telum Conde meo; iugulumque; simul pectusque; retexit, Scilicet haud ulli seruire Polyxena vellem Haud per tale sacrum numen placabitis vllum. Mors tantum vellem matrem mea fallere posset; Mater obset; minuitque; necis mihi gaudia: quamuis Non mea mors illi, verum sua vita gemenda est, Vos modo, ne stigios adeam non libera manes, Este procul; si iusta peto; tactuque; viriles Virgineo removete manus, acceptior illi, Quisqui is est, quem cede mea placare paratis, Liber erit sanguis, si quos tamen ultima nostri Verba mouent oris, Priami vos filia regis Nunc captina rogat, genetrici corpus inemptum Reddite, ne ve auro redimat ius triste sepulchri, Sed lachrimis, tunc cum poterat redimebat, et auro. Dixerat; at populos lachrimas, quas illa tenebat, Non tenet, ipse etiam flens, inuictusque; facerdos Prebita coniecto rupit precordia ferro. P. 62 Illa super terram defecto popolite labens, Pertulit intrepidos ad fata nouissima vultus; Tunc quoue cura fuit partes velare tegendas: Cum caderet; castique decus seruare pudoris Che vi pare di questa fortissima donzella degna veramente d'eterna lode? Et di tante altre ch'io tralascio, la medesima intrepidità, et fortezza di Polissena descriue Euripide nella sua Tragedia detta Ecuba, della quale per breuita solo di due versi ci contenteremo, per far vie piu noto il forte suo animo, i quali ella stessa dice à colui, che la doueua ferire. En iuuenis, hoc si pectus ense mauoles Promptum ferire, ferito: sin ceruicem, adest Exprompta ceruix. Ma pure io sono sforzata di scriuere questo altro narrato da Plutarco delle Donne de' Cimbri, le quali hauendo intesa la perdita, et la fuga degli huomini loro si vestirono di bruno, et salirono sopra carrri, et si accamparono poco da lungi dal campo, et secondo che i Cimbri fuggiuano da Romani, esse gli amazzauano, et alcune di loro strangolarono i mariti, i padri, et i fratelli; altre i bambini con le proprie mani, et gli gittavano sotto à piedi delle bestie, et sotto le rote delle carrette, et poi il ferro riuolgeuano in se stesse, et si uccideuano per fuggir la seruitù de'Romani: e dicesi, che una donna essendosi attaccata alla cima di un timone, si legò con un capestro i figliuoli a'suoi taloni, et cosi finì la vita. Havendo Filippo Re di Macedonia fatti morire molti huomini nobili: volle dopo per sicurtà sua imprigionare i figliuoli di coloro, che hauea ingiustamente fatti morire, et hauendo Poco inanzi fatto uccidere un chiamato Herodiano capo de Tessali, et ancho due suoi generi. Onde le figliuole restarono senza Padre, et vedoue, fra queste una si chiamaua Teossena, l'altra Arco. Teossena fu richiesta da molti per moglie; ma sempre ricusò. Arco si maritò, et generò molti figliuoli, et poi morì. Teossena dopo pigliò à marito Poride, già di Arco sua sorella, il quale era Padre de figliuoli: perche era tanto l'amore, che à lor portaua, che voleua, che s'alleuassero per le sue mani, et come s'ella medesima gli hauesse partoriti, li nutricaua, et P. 63 ammaestraua con somma diligenza, ancora ella ne hauea generato uno, et era di poca età, quando uscì il bando di Filippo di volere incarcerare tutti i figliuoli, che erano parenti di coloro, che erano stati per suo commandamento amazzati. Teossena, che donna di grande animo era, come intese questo per l'amore, che à lor portaua, non voleua à niun modo, ch'andassero sotto la seruitù di Filippo: onde diterminò d'ucciderli. Ma Poride hauendo in abbominatione si fatta crudeltà, disse di volergli condurre salui in Atene ad alcuni suoi amici, et la notte, mentre che il silentio delle notturne ombre acchetaua i trauagliati cuori, montarono sopra una naue co figliuoli Teossena, et Poride. Ma perche la fortuna seguita quasi sempre gli huomini, in tutta notte per grandissima fatica, che si facesse non potè la naue andare innanzi, havendo il vento contrario, et il Sole lasciando il materno seno, portaua la luce a'mortali, quando la guardia del porto del Re si accorse, che fuggivano, et però mandarono molti armati dietro alla naue con comandamento, che tornar non douessero senza quella. Poride attendeua à sollecitare i marinai, et pregaua gli Iddii, che loro porgessero aiuto: in quel mezzo tempo la magnanima donna, conoscendo, che fuggire non si poteua, misedauanti à gli occhi de'fanciulli un vaso pieno di veleno, et un pugnale ignudo, et disse loro; Figliuoli miei carissimi, queste sono le vie della vostra liberta, et queste due cose sono le vie della morte; eleggete qual più vi piace per fuggir la seruitù, et la superbia, Reale. Horsù, disse ella, voi che siete giouani, pigliate il ferro, et voi che pargoletti siete, pigliate il veleno, se à voi piace morte più lenta. I nemici erano vicini, et ella alcuni col veleno, alcuni altri col ferro hauea affrettati al morire, et poi mezzi viui gli gettò in mare; et ella abbracciando il marito, ne gli affanni suoi fedel compagno si gettò loro dietro e cosi fuggì la seruitù questa donna, degna veramente d'eterna memoria, come racconta Tito Liuio. Non merita di starsi sotto silenzo l'ardito, e illustre atto d'una greca matrona. onde dico che, dopo che i Turchi, per forza hebbero pigliata Nicosia, tra le citta dell'Isola di Capri molto famosa, et ricca, furono da nimici sopra tre naui caricate le piu nobile spoglie, et le più pretiose cose di quella infelice città, et tra que vaselli v'era un galeone, sopra il quale haueano messe, come schiaue, le donne di maggior conto, per mandarle sicuramente al gran Signore in Costantinopoli. La onde questa valente Cipriotta la seruitù de' P. 64 Barbari sdegnando, alla munitione attaccò il fuoco, per lo quale in brieue spatio di tempo tutte le donne, e tutti gli huomini abbruciarono, d'alcuni pochi in fuori, li quali nuotando si saluareno. Niun d'animo non appasionato neghera (che mi creda) che questo fatto non sia d'eterna loda degno, et che mentre il Cielo girera, il nobil grido del suo forte petto non si faccia per tutto udire, come nimico di seruitù tirannesca. Onde per questa opera ragioneuolmente deono à lei, nell'altra vita, essere obligate tutte quelle altre gentildonne, che abborriuano cosi crudele, et barbara seruitù, essendosi seruate Christiane, et caste. Delle Donne prudenti, et nel consigliare esperte. Cap. IIII. [Che cosa sia prudenza.] Fra tutte le virtù dell'anima, par che resplendì piu nobile appresso ogn'uno la prudenza, essendo quella, per mezzo della quale l'huomo determina, et consiglia quel, ch'egli può operare intorno, per lo più, à cose malageuoli, e di momento, eleggendo il meglio: et però disse Aristotile nel lib. 6 dell'Ethica al cap. 6. Prudentis est bene consulere, et in angendo versatur. Et nel 7. à cap. 3. che egli habbia per fine di ritrovare il bene, lo dimostra, dicendo. Prudentis non est sponte agere, quae sunt prava. Et nel lib. 6. c. 9. Quaerunt sibi quod bonum, idque agendun esse existimant. Et veramente nel diterminare, se si habbia ad operare, ò non operare intorno à qualche difficile auuenimento, od accidente, si scuopre la sottigliezza, et la viuacità dello'ngegno: che non sempre consiste la prudenza nell'operare; ma altresi in non voler operare; considerando il prudente se li apporta più utile, od honore il non operare, che l'operare. Il che meglio conosceremo con gli essempi. Prudentissima fù Artemisia reina della Caria, che con molte naui era andata in aiuto di Xerse, et lo consigliaua, con viuacissime ragioni, à non combattere con disperati, ma tirare la cosa in lungo, mancando il viuere à nemici, ricordandoli sempre, che questo non diceua per paura, ma per utile, et honore di Xerse; hauendo combattuto altre volte P. 65 nelle guerre nauali, non volle Xerse pigliare l'aueduto consiglio della Reina, et attaccò la battaglia, et fù perdente, come racconta Trogo. Ma che diremo noi della prudenza di Giouanna fanciulla Loteringia? Che nella guerra operò con tanta prudenza, che recuperò molti luoghi al Re Carlo, et à persuasione della medesima passo in Remi à torui la corona del Regno, come dice il Tarcagnota. Semiramis fù sauia, et prudente, però Nino conoscendo la sua virtù mai non facea cosa senza il suo consiglio. Et Ciro con Asaspia faceua il simile conoscendola tale in mille opere sue, et mentre si seruì de'suoi consigli, tutte le cose li succedetero bene, et felicemente. Giulio Cesare racconta, che i Galli non faceuano diterminatione alcuna senza l'interuenimento delle donne, et hoggi di anchora cio fanno, conoscendo la molta avedutezza delle donne loro. Augusto si consigliaua con la moglie, de i saui, et maturi consigli della quale si seruì nelle cose importantissime del regno, et anco lasciò una sua certa seuerità rusticale, et si rese tutto mansueto, et clemente. Porcia non fù ella prudentissima? Non fù prudente, sauia, et eloquente Cornelia madre de' Gracchi? Giustiniano Imperatore sempre si consigliaua intorno alle cose di momento del suo Impero con la fida consorte, per li saui consigli della quale sempre hebbero le cose felicissimo successo. Onde Aurelio Vittore dice nella vita di Giuliano Imperatore. Feminarum precepta inuant maritos. Et però essendo i Tedeschi ammoniti da questa sentenza mai non prendeano l'armi, come dice Cornelio Tacito, se non col consiglio delle lor donne; sapendo di quanta virtù elle fossero dotate, et da questo si può conoscere, che la donna sia l'honore, et la gloria del sesso maschile. Ma doue resta Pompeana Plotina? Che augmentò con la sua prudenza la gloria di Traiano. Come dice Paolo diacono nel lib. 13. I Lacedemoni sapienti prendeuano i consigli dalle lor mogli, et non operauano cosa alcuna, se à loro non la communicauano. Et gli Anteniesi conoscendo la prudenza delle donne voleuano, che in tutte le faccende, et partiti, che si pigliauano in Senato, elle dessero i loro suffragi, come ottimi Senatori. Onde Arist. nel lib. della Politica 2. cap. 7. parlando di loro disse. Multa in Lacaedemoniorum principatu à mulieribus administrabantur. Socrate, benche fosse gran Filosofo confessa hauere imparato molte cose da Diotima, donna di sapienza, et prudenza. Plutarco scrittore illustre fa P. 66 mentione nel libro delle Donne Nobili che gli antichi Francesi, poscia, che con Annibale si furono accordati, et pacificati, fecero un decreto, che conteneua, che se alcuno Cartaginese riceueua qualche ingiuria, ò ingiustitia da uno di loro, le donne Galliche douessero giudicare simiglianti cause. Placida operò cosi bene col suo sano consiglio, che fece, che Ataulso Re de' Goti non rouinò, come destinato haueua con Barbarico furore, et superbe minaccie, la gran Città di Roma, anzi la restaurò. Et questo auenne per la sua prudenza. Prudentissima fù ancora Caterina Madre del Re di Francia nel consigliare. Loda l'Ariosto Ginerva Malatesta di gran prudenza, et di lei dicfe nel can. 46. S'à quella etade ella in Arminio era Quando superbo de la Gallia doma Cesar fù in dubbio, s'oltre à la riuiera Douea passando inimicarsi Roma Crederò, che spiegata ogni bandiera Escarca da Trofei la ricca soma, Tolto hauria leggi, e patti à voglia d'essa, Ne forse mai la libertade oppressa. Mostrò etiandio grandissima prudenza Madama la Reggente nella Città di Bruselles, che acchettò gli animi di coloro, che si solleuarono, hauendo fatto un grosso numero di soldati; à quali nondimeno con una regal clemenza perdonò. Non tralasciero di dire la somma prudenza di Periaconconaù, alla quale essendo morto il fratello Ismaele, tenne la sua morte ascosa, e fatta venire à palazzo sette de' principali del reame con animo, et prudenza inestimabile gli essortò à deporre gli odii, che erano fra loro per conseruatione dell'imperio Persiano, ilquale se mai hauea hauuto bisogno; perche morto era Ismaele, et Cudabende, alquale di ragione perueniua il reame, era lontano. Onde portaua pericolo, che diuolgatasi la morte del Rè, et essi durando nelle loro nimicitie, il Regno andasse in ruina. Onde essi Sultani sarebbono sforzati per le loro discordie à viuere sudditi de' loro nimici Turchi, et Tartari. Onde per la prudenza di questa gran donna si scordarono delle nimicitie loro, et insieme con lei acchetarono le discordie del regno, come scriue P. 67 Mammabrin Roseo. Ma doue rimane Semiramis, laquale essendo mandata à chiamare da suo marito Menone, non si tosto giunse nel campo, essendo ella prudentissima, che mostrò, come si potesse pigliare la rocca de' nemici, et cosi per lo suo consiglio la prese. Onde Nino Re de gli Assiri molto si merauilgiò del suo ingegno, come dice il Tarcagnota. Tanaquil con la sua prudenza fù cagione, che Seruio Tullo fù accettato Rè dopo la morte di Tarquinio. Ma si scuopre la prudenza tutto il giorno non dirò di alcuna Reina, ò Signora, ma d'ogni vil donniciuola nel reggimento delle case, et delle famiglie loro, conseruando la robba, et le facultà da maschi acquistate, et distribuendola seconda i bisogni, et i tempi con sommo antiuedere: et infelici gli huomini, et in particolar quelli della Francia, et dell'Alamagna, se le donne lor non gouernassero le facultà; percioche in breuissimo tempo diuerrebbono poueri, et mendichi; Ma si lasciano gouernare percioche conoscono la lor prudenza; i Francesi non maneggiano si può dire uno danaio, se non lo addimandano alla moglie. Tralascio di raccontare, che ne'medesima paesi le donne attendono à traffichi con tanta diligenza, che non cedono al primo mercante di tutta Italia, segno di grandissimo ingegno. P. 68 Delle donne giuste, et leali. Cap. V. [Giustitia che cosa sia.] Chiamò Speusippo la giustitia un’habito, ò virtù dell’anima, che distribuisce, et da à ciascuno quel, che è necessario secondo la dignità, et il merito di colui, à chi è dato, et la manifesta dicendo. iustitia est habitus unicuique pro dignitate distribuens, et cosi anco la descriss. Aristotile, et Cicerone, et senza dubbio, se il giusto opera cose giuste, come si legge nel 2. dell’Ethica, al capitolo quarto, è cosa necessaria, che egli dia à ciascuno il suo, sia hauere, od honore, od altro. Et però la giustitia tiene il principato fra tutte le altre virtù morali; essendo ella più utile della temperanza, et della fortezza, come si legge nel terzo dell’Ethica al capitolo terzo: onde considerando la sua eccellenzza Aristotile disse. Iustitia est magis mirabilis Hespero, et Lucifero. Giusta era Isabella di Aragona. et giusta come dice Virgilio fù Didone, come si legge nel libro primo dell’Eneida. Iura dabat, legesque viris, operumque laborem Partibus aequabat iustis. Et questi versi latini traslatati in volgar da Annibal Caro, cosi suonano. E mentre con dolcezza editti, et leggi Porge à le genti; e con egual compenso L’opre distribuisce, e le fatiche; Giustissima fù Talantia donna Spartana; perche essendo venuti à Sparta alcuni fuorusciti Chii à lamentarsi à gli Epbori di Pedareto lor gouernatore, come hebbe questo inteso Talantia, che Madre del gouernatore era, fece venire à se quelli Chii, et diligentemente udita la querela loro, et conoscendo che à torto non si lamentauano, scrisse una lettera al figliuolo di questo tenore. Di due cose risolueti di farne una, ò di gouernare Chio con giustitia, ò di restare costi perpetuamente, ne mai ritornare à casa; et se pur vuoi ritornare à Sparta, P. 69 sappi certo che poco viuerai. Da questo si può conoscere, quanto le donne sieno amatrici della giustitia, et dell’honesto, già che sprezzano i figliuoli, che amana tanto; accioche il giusto non resti offeso. Ma perfetissimamente si conosce la giustitia del sesso Donnesco nel reggimento di casa; distribuendo à ciascuno con equalità proportionata il conueneuol vitto, et vestito: non comportando che alcuno si lamenti, et dolga della partialità. Delle donne Magnifiche, et cortesi. Cap. VI. La magnificenza è virtù dell’anima, che versa intorno à se cose, et attioni, che ricercano grandissima spesa per fine di honore, et à punto cosi la descriue Aristotile nel quarto dell’Ethica. [Magnificenza che cosa sia] Ne si domanda magnifico colui, che in cose picciole, ò mediocri, secondo la sua dignità, spende, ma più tosto liberale, et ideo magnificentia insumptuosas actiones diffunditur. Deono però spendere i magnifici in cose publiche, come Palagi, Tempi, Sacrifitii, aiuti comuni, giuochi, et simili cose. Si conuengono queste spese specialmente à coloro, che hanno operato alcuna cosa di notabile, ouero che da suoi maggiori almen sia stata fatta. et similmente à notabili, et illustri: deuesi sempre hauer riguardo nelle spese alla grandezza della persona, che spende, et alla cosa intorno a cui si spende; perche chi molto spende intorno à cosa di poco momento, non magnifico, ma sciocco si chiamerebbe. Grande, et marauigliosa veramente fù la magnificenza di Semiramis Reina de gli Assiri, che dopo la morte del marito edificò la gran Città di Babilonia appresso l’Eufrate, di figura quadrata, che giraua più di trentasette miglia. le sue mura erono larghe cinquanta cubiti, et alte più di ducento, come Erodotto racconta. Fù la muraglia di questa Città di mattoni, et hauea ducento è cinquanta torri. ne mattoni crudi erano impresse varie imagini di fiere, et ciascuna era del suo colore, in modo che il circuito faceua una bellissima vista di una cacciagione à riguardanti, et in luogo di calcina, fece adoperar bitume, che molto P. 70 in quelle parti ve ne hauea. Fù fatta con incredibile prestezza lauorandoui più di trecento mila huomini, et in men di un’anno fù finita. Nel mezzo della città edificò Semiramis uno altissimo, et magnifico Tempio, nella cui sommità andauano gli Astrologhi Caldei à notare il nascimento, e’l tramontar delle stelle. Quiui anco dirizzò un Obelisco di cento è cinquanta piedi, che fece ne’ monti d’Armenia tagliare. Molte altre nobili città oltre à quella edificò trà il Tigre, et l’Eufrate: fece un bellissimo, et bene ornato giardino nella media, et poco lungi di là fece intagliare la sua imagine in un monte lungo due miglia con cento donzelle intorno, che con lieto, et amoreuole sembiante la presentauano. Costei spianò i monti altissimi verso la Persia; et altroue fece uguali le disuguali valli, facendoui fare di passo, in passo argini, che furono poi detti gli argini di Semiramis. Nella Citta di Echbatana fece fare un Superbo palazzo con uno acquedoto, che per fabricarlo bisognò tagliare la cima del Monte Oronte: Ma basti di questo à mostrare quanto fosse questa Illustrissima Reina magnifica, et splendidissima, come dal Tarcagnota, et d’altri scrittori c’è stato lasciato scritto. Magnifica anchora fù la Reina Nitocre, laquale cinque anni dopo Semiramis resse gli Assiri, et fece un lago, oue l’acque de l’Eufrate si mandauano, laquale cosa era, fra le altre molte, et illustri da lei. operate bellissima. Magnifica fù Artemisia, che dopo che le fù morto il caro marito Mausoleo, li fece un sepolcro, ilquale fù una delle sette merauiglie del mondo. Costei nel farlo adunò insieme quatrocento famosi et eccellenti scultori, et lo fece fare di marmo finissimo. Dal lato di tramontana et di mezzo giorno, era più lungo, che non era da gli altri due. Il giro di questa grand’opra conteneua quattrocento, et undici passi. Era alto venticinque gombiti. Hebbe Scopa famoso scultore la cura di far la parte voltata all’Oriente, Zocare quella, che l’Occidente riguardaua, Briarce quella à Tramontano posta, et Timoteo quella voltata à meriggio, li quali tutti et quattro valenti scultori adoperarono la forza dell’ingegno loro, à farui lauori bellissimi. Un’altro Illustre Scultore vi fece nella cima una carretta tirata da quattro caualli di marmo. Onde quando fù finita cosi marauigliosa opera, Era alta cento, e quaranta piedi Laertio dice, che Anassagora vide quel superbo sepolcro, et che lo chiamò pretioso sepolcro, et un simulacro delle ricchezze; et questo Mausoleo, a cui fece questo sepolcro la fida Artemisia, fù Re P. 71 di Caria. Di animo generoso et magnifico fù la Reina Elisa, che poi per lo suo valore fù chiamata Didone. Costei, come è già palese, fuggendo l’ira, et la crudeltà del fratello, nauigò in Africa. mentre nauigaua, rapì, come dice il Tarcagnota, ottanta fanciulle Cipriotte, oltre alle quali fanciulle andò volontariamente un sacerdote con la moglie, et co’ figliuoli ad imbarcarsi, et partirsi con lei, laqual per venuta che fù in Africa vi comperò terreno da edificar una Città, Laquale nominò Birsa, et poi chiamarono Cartagine. Che in lingua Punica suona Città nuoua. Questa Città fù magnifica et ornata di colonne, et di altri adorrnamenti, come dice Virgilio nel primo libro dell’Eneida, facendo mirare le sue gran bellezze, che allhora si faceuano, ad Enea, et ad Achate. Iamque ascendebant collem, qui plurimus urbi Imminet, aduersasque aspectat desuper arces, Miratur molem Aeneas Magalia quodam, Miratur portas, strepitumque, et strata viarum, Instant ardentes Tyrii, pars ducere muros, Molirique arcem, et minibus subuoluere saxa, Pars optare locum tecto, et concludere sulco. Iura, magistratusque legunt, sanctumque senatum. Hic effodiunt alii portus: hic alta theatre Fundamenta locant alii, immanesque columnas Rupibus excidunt, scenis decora alta futuris. I quali versi recati in ottaua rima d’Alessandro Guarnelli tali sono. Quindi la mole Enea, ch’altera sorge, Oue gia fur pouere case, e ville, Le ricche porte, e le gran strade scorge, E i Tirii intenti a l’opra à mille, à mille. Lo strepito, e’l rumor stupor li porge, Che maggior sente, che di trombe, o squille. Bramosi i Tirii di veder perfetta La lor Città s’affanan lieti in fretta. P. 72 Questi d’ergere al Ciel le salde mura, E con le proprie man volgere i sassi, Quei di fortificar le rocche han cura Qual ne i lochi eminenti, e qual ne’ bassi. Altri le fosse caua, altri misura, Altri il suo proprio albergo elegge, e fassi, Forman le leggi, e formano il Senato, E’l tribunale, e’l foro, e’l magistrato. Magnifica, et splendida fù Cleopatra Reina d’Egitto, la quale sempre operò cose grandi, ne mai donò si poco, che’l suo dono non facesse largamente tutte le spese à colui, à cui donaua fino alla morte. ma che diremo di quel Nauiglio, che ella fece per andare à ritrouare Antonio? ilquale l’hauea mandata à chiamare, che si presentasse in giudicio; perche haueua porto aiuto à Cassio. Questo hauea la poppa tutta d’oro, i remi di purissimo argento, et le vele di rosseggiante porpora: i remi si moueuano à suon di flauti, di cethere, et di pifferi: et le cene, che fece ad Antonio, fur tanto magnifiche, che indarno egli si sforzò di superarle. Onde l’Ariosto parlando della mensa d’Alcina, la fa maggior di quella di Cleopatra, come cosa quasi impossibile, che fùla cosa piu sontuosa, che al mondo fatta si fosse dicendo. O qual mai tanto celebre, e famosa Di Cleopatra al vincitor latino Et altroue mostra, ch’ella era splendida dicendo. O la Regina splendida del Nilo. Io non vo piu spendere tempo in raccontar la magnificenza delle donne, poiche quasi tutte sono d’animo cortese, manifico, et liberale, s’è veduto in queste di sopra narrate una vera, et grandissima splendidezza; et in queste, che son per addurre si vedrà una liberalità et una non picciol cortesia. Narra Tito Liuio, che quelli soldati Romani, i quali fuggirono à Cannusio, essendo stati da cannusini accettati entro le mura, una donna, detta Dusa, nobile di stirpe, et ricca P. 73 de’ beni della fortuna, lor souenne il viue re, et in case gli trattenne, e dè lor vestimenti, et anco denari in honesta quantità, per la qual cosa il senato poi à lei fece grandissimi honori, che furono premio della sua cortesia? Le cortesi matrone Romane non portarono elle i propri ornamenti d’oro alla camera del commune per sodisfare al voto fatto da’ Romani? per la qual liberalità fù conceduto alle donne questo honore, che andando a’ giuochi, et à’ sacrificii usassero le carrette chiamate pilenti, et gli altri giorni ò festiui, ò non festiui i carpenti: et cosi i Romani di quell’oro fecero una tazza, et la mandarono ad Appoline. Liberalissima era la Reina Dido verso ogn’uno, ma verso i Troiani, non si può sentir la piu gran cortesia di quella, che si legge nel primo libro dell’Eneida di Virgilio; et udite con quali amoreuoli, e care parole consola i miseri, et da tutto quasi il mondo rifiutati Troiani, e sono queste dette da lei con viso sereno. Tum breuiter Dido vultu demissa prosatur. Soluite corde metum Teucri, secludite curas. Res dura, et regni nouitas me talia cogunt Moliri, et late fines custode tueri. Et par che si scusi, se à loro fù fatta alcuna villania da Tirii, dicendo che la nouità del regno la sforzaua à far guardare i suoi confine, et da poi dice. Seu vos Hesperiam magnam, Saturniaque arua Siue Ericis fines, regemque optatis Acestem, Auxilio tutos dimittam, opibusque; iuuabo, Vultis et his mecum pariter considere regnis? Urbem, quam statuo, vestra est, subducite naues. Tros, Tiriusque mihi nullo discrimine agetur. Dio buono si può sentire la maggior liberalità di questa? ma udite ciò che, soggiunge. Atque utinam rex ipse noto compulsus eodem Afforet Aeneas, equidem per littora certos Dimittam, et Lybiae lustrare extrema iubebo, Si quibus eiectus siluis, aut urbibus errat. P. 74 I quali versi furono tradotti co Superiori nella nostra lingua dall’Anguillara in tal modo. O vogliate in Italia porre il piede. O gir la doue al Ciel s’alza Peloro, D’hauer da questo Regno habbiate fede Arme, monitioni, huomini, et oro. Volete voi far qui la vostra sede? E dar grandezza al mio nuouo lauoro? Se di fermarui qui fate disegno, Questa cittade è vostra, e questo regno. E questa fù una liberalità, et cortesia grandissima, et non si può dire, ch’ella cio facesse per amore di Enea; perche anchora non l’hauea veduto, et per non esser lunga non voglio raccontar i sacrificii, che ella fece, i doni che mandò à i compagni d’Enea, et i sontuosi conuiti. dice il Passi, tassandola di auaritia, nel suo libro, che Enea donò à Didone una veste, et che ella ne donò à lui un’altra dopò, come racconta Virgilio: forse vuol dire, ch’ella non fù la prima ad usar cortesia, et perciò auara la voglia chiamare: perche se non volesse dire cosi, non l’harrebbe posta con quelle sue donne auare, per dire, come egli dice, ma non sò appresso del Passi chi fosse prima à dire.[Error del Passi.] Auxilio tutos dimittam, opibusque iuuabo. Vultis, et his mecum pariter considere regnis? Urbem quam statuo, vestra est, subducite naues. Et oltre tante cortesi proferte, ch’elle fece delle richezze, et della Città, condusse ancho quello sbandito d’Enea in regia tecta. et queste liberali proferte, et opere erano altro, che dare una veste rapita, come dice Virgilio. Illiacis ruinis. Ma lasciando da parte per hora questa cosa, che se’l Passi leggerà, et considrerà la cortesia di Didone, so che non discorderà dal commun parere. Ma doue rimane Olimpia tanto amoreuole, et liberale verso lo scortese, et infedel Bireno? conoscetelo da quelle parole, che l’Ariosto fa da lei dire ad Orlando. P. 75 Per lui quei pochi ben, che son restati Ch’eran del viuer mio soli sostegno Per trarlo di prigione ho dissipati Ne mi resta hora in che piu far disegno Se non d’andarmi io stessa in mano a porre Di sì crudel nemico, e lui disciorre. Et grande senza dubbio fù la cortesia di Arianna verso Teseo, ilquale era per essere diuorato dal Minotauro, et ella con amoreuole consiglio lo tolse, si può dire, di mano alla morte. Insegnandoli di uscire dell’intricato laberinto col filo. Anchor che da lui ne riportasse non degno guiderdone di tanta cortesia: et però dice l’Anguillara nell’ottauo libro delle Metamorphosi di Ouidio, mostrando la sua cortesia, et la ingratitudine di lui in questo modo. Quand’io Theseo col filo, e co’l consiglio Tolsi à la Patria tua si dura legge, Giurasti per lo tuo mortal periglio Su’l libro pio, che su l’altar si legge, Che mentre non prendea dal corpo essiglio Lo spirto, che’l mortal ne guida, e regge, Sempre io la tua sarei vera consorte, Ne à te mi potria torre altro, che morte. Cortese etiandio fù Medea verso Giasone, perche venuto egli per conquistare il vello d’oro, et essendo veduto da Medea figliuola del Re Eeta hebbe pietà di lui, sapendo che in quella impresa morrebbe, s’ella con la sua virtù nol soccorrea. Però essendo incantatrice gli diede aiuto, facendo che venissero mansueti, et piaceuoli quei terribili tori, che soffiauano fuoco, et haueuano i piedi di ottone, et le nari adamantine, come Ouidio nel settimo lib. dice. con tai parole. Ecce adamanteis Vulcanum naribus efflant Geripedes tauri: tactaeque vaporibus herbae Ardent: Et un poco più sotto dice di loro, che erano diuenuti mansueti, et piaceuoli. P. 76 Pendulaque audaci mulcet palearia dextra: Suppositosque iugo pondus graue cogit aratri Ducere; et insuetum ferro proscindere campum. E per la medesima virtù di lei vinse coloro, che nacquero de’ denti vimperini, et il vigilante Dragone guardiano del vello d’oro, et ella da lui altro, che ingratitudine non hebbe, come quelli, ch’era di natura scortese, et volubile; i quali versi furono traslatati dall’Anguillara in questo modo. Compar di ferro intanto il piede, e’l corno Contra Giason il coragioso figlio. La fiamma de’ duo tori empia, e superba Abbruccia l’aria, e strugge i fiori, e l’herba. Et più sotto dice. Verso il forte Giason veloci vanno, E danno ogn’hor per via piu forza al corso, Ma giunti appresso à lui fermi si stanno, Che’l canto di Medea lor pone il morso. Visto ei, che non posson più dar danno, Lor palpa dolce la giogaia, e’l dorso, E tanto ardito hor li combatte, hor prega, Ch’a l’odioso giogo al fin li lega. Con lo stimolo i tori instiga, e preme, E col vomero acuto apre la terra. Delle donne nell’arte militare, et nel guerreggiare illustri, et famose. Cap. VII. Anchor che molti sappiano, che ci sono state, et son molte donne nell’arte militare, et nel combattere illustri, et di gran grido: nondimeno non ho voluto mancare di darne vari essempi, accioche alcuni, creder possano, che di tali ce ne habbia hauuto. Et conoscendo la verità, ammirino i loro gesti, et notino le loro imprese grandi, et lodeuoli. Nel qual essercitio, come nel reggere gli esserciti, è bisogno di gran prudenza, di animosità, P. 77 di stabilità di mente, et di liberalità. Delle quali virtù sono state adornate le bellicose donne, che hanno retto esserciti, più forsi, che non sono stati molti Capitani, et senza queste virtù difficilmente potrebbe alcuno guidar’ esserciti, combattere, et spesso vincere il nimico. Et però nel mezo de gli esserciti meglio apparisce, il valore, e’l reggimento del Rè nel commandar, nell’essere ubbedito, et nell’antiuedere, che non si fa nelle Città, et in tempo di pace, et pur ci sono state molte donne che hanno condotto esserciti numerosi, et vinti i superbi, et trionfanti Rè. Ma veniamo à gli essempi. La prima, che verrà à far di se bella, et merauigliosa mostra sarà Semiramis Reina de gli Assiri, laquale molte volte in battaglia combattendo, et reggendo soldati fù vincitrice: et specialmente nelle guerre, che mosse à Scaurobate Re delle Indie mostrò gran valore, et prudenza, Hauendo ella mossa cosi fatta guerra, raccolse da tutte le sue prouincie quanti huomini atti à maneggiare armi ui si trouauano. Onde in poco tempo fece uno marauigliosissimo essercito di un milione, et trecento mila fanti, e di ducento mila caualli. et quando vide, che’l nimico era superiore ne gli Elephanti, Fece secretamente di molti cuoi di vacche fare molti simulacri d’Elephanti, et dentro à quei finti animali fece mettere un Camello: Fece venirsi di Fenicia, di Cipro, et da altri suoi luoghi maritimi due mila vasselli di mare, i quali in India sopra carri tirati da Camelli fece portare, et con animo coraggioso, come are solita, et con prudenza venne à battaglia con Scaurobate, et hora fù perdente, hora vincente, ma sempre mostrò valore, prudenza, et ardire, come altresì dimostrò, quando ritrouandosi una volta tra le altre nella sua Città di Babilonia, che s’adornaua il capo, venne ad Intendere, come i di lei Cittadini si ribellauano solleuandosi, et auegna che l’una parte de suoi capelli hauesse già per le spalle sparti, et l’altra intreccia di già riuolti, corse nondimeno senza badare ad intrecciarli arditamente al rumore, ne giamai se gli volle intrecciare, se non dopo, che la Città hebbe achetata. Però ragionando di questa gran Donna il Petrarca dice. Poi vidde la magnanima Reina Ch’una treccia riuolta, e l’altra sparsa Corse à la Babilonica Ruina. P. 78 Ma doue lasciamo Amalasunta Reina d’Italia, figliuola di Teodorigo et moglie d’Eutarico Visigoto? fù costei prode, et saggia nelle cose della guerra: scacciò i Burgundi, et gli Alemani, i quali noiauano la Liguria. Et doue riman Zenobia Reina de Palmireni? che dopo la morte del suo marito Odenato, non solamente resse l’imperio giustamente, e prudentemente; ma nelle guerre vinse molte volte, et mostrò gran prodezza. Ne voglio che questo mio ragionamento resti priuo della mirabil guerriera, ciò è di Giouanna Loteringia, della quale il Rè Carlo si marauigliò vedendo tanto valore, et animo in età cosi tenera. Costei combattendo co’ nemici del Rè appresso Blesia, ne tagliò tre mila à pezzi, et per costei ricouerò Soissons, et molte terre. Ne di minor grido era Vittorina Armiggera fortissima, et ardentissima ne’fatti d’arme; prudente et giusta nel gouernar’ esserciti; della cui prodezza si merauigliauano i più gran Capitani, che fossero al mondo, et però la chiamauano Madre de gli esserciti, et elle fù cagione, che il figliuolo, et il nepote prendessero l’imperio, et lo diede anco à Tetrico. Valorosa quanto imaginar si può fù Thomiri Reina de gli Scithi, la qual con grand’ essercito mandò un suo unico figliuolo contra il crudo Ciro: ma egli uccise il figliuolo, et insieme dissipò l’essercito. Onde questa gloriosa Reina di nuouo fece altre genti et andò contra Ciro, et l’assalì, et uccise più di ducento, et venti mila Persi; vinse et uccise Ciro, et dopo li fece tagliar la testa, et la mise in un vaso pieno di sangue, et disse. Hai hauuto sete di sangue, beui hora, che dentro vi sei immerso. Bellicosa, et sauia fù nelle guerre, et nel reggere gli esserciti Valasca Reina de’ Boemi, laqual hauendo un’animo generoso, e grande sdegnò, che huomo al mondo commandar le potesse. hauendo adunque fatto una congiura con altre donne di scacciar gli huomini dello’mperio, et ucciderli; ragunò molte donne insieme, et essendosi Valasca fatta lor guida, et condutrice, si come colei, che più isperimentata delle altre, nelle cose della guerra, era, mosse guerra con sommo valore, et prudenza, et uccise tutti gli huomini, et cosi molti, et molti anni visse con le altre à similitudine delle Amazzoni. Voglio ancho che aggiunga decoro à questo mio libro Buona, moglie di Brunoro Parmense, la quale fù cosi illustre nelle cose della guerra, che ricouerò il castello Patione nel contado di Brescia da Signori Venetiani. Mi souiene P. 79 etiandio di Orsina moglie di Guido Torello Parmegiano non meno delle altre degna di eterna fama: hebbe l’origine sua da Visconti Duchi di Milano: costei era bella, animosa, humana nell’opere, et nelle parole. Visse con ottimo nome appresso il marito, et appo i sudditi suoi, ma fra molte cose, che fece degne di chiarissima fama, una sola ne scriuerò; percioche io amo la breuità. Essendo nata, guerra trà la Signoria di Vinegia, et Filippo Duca di Milano, l’armata della Signoria sù per lò Pò fin sotto il castello di Bresciello montò, che al marito della predetta Orsina apparteneua, et da Venetiani pigliato, et di nuoue guardie guernito, incontanente andarono ad assediare un’altro suo castello, posto lungo la riua del medesimo fiume. La nobil Donna, che lungi di là ben dieci miglia si trouaua, udite cosi fatte nouelle incontanente, et con ualore piu che di generoso Capitano, ragunò in fretta quella piu gente, che puoto sudditi, et altri, et ella armatasi montò à cauallo, et andò à liberare il castello dall’assedio, et affrontata l’armata Venitiana la fracassò, et ruinò tutta in poco tempo. In quel combattimento morirono più di cinquecento Schiauoni, et molti ella ne uccise di sua mano; volendo vendicare la morte d’alcuni suoi amici. Cosi leuò l’assedio, et racquistò Brisciello. Onde di ciò giunta la nouella al Duca Philippo, et al marito, fecero infiniti fuochi in segno d’allegrezza. Che vi pare, non fù questa una donna valorosa? certo sì: ne credo, che si possa altrimenti dire. Antonia doue rimane ella? costei fu figliuola della predetta Orsina, e di Torella Parmegiano, percioche essendosi solleuate le parti in Parma, et ribellatesi al Duca Francesco Sforza, partita da suoi Castelli Antonia con molti huomini armati, acchetò i tumulti, et ricouerò la città per lo Duca. Certo degna etiandio di eterna memoria è Margherita figliuola di Vuoldomaro Re di Suetia, la quale andò contra Alberto Duca di Monopoli, lo vinse, et lo fece prigione, et poi per maggior sua gloria lo menò in trionfo. Non voglio che resti à dietro Telesilide donna Argiua prode nell’armi. Essendo la città d’Argo restata priua di huomini, fece uno essercito di donne, et vinse Cleomene Re de’ gli Spartani con somma fortezza, et prudenza. Et Paceca figliuola del conte di Trendiglia, essendole stato fatto morire Giouanni Padiglia suo marito dal Gran Contestabile di Spagna Don Igneo Velasco, et da Enrico Ammiraglio; perche hauea P. 80 solleuati i popoli, alzò le bandiere, et solleuando i popoli in vendetta del marito, mantenne la guerra lungo tempo. Camilla fù si nell’armi forte che combattè in fauor di Turno contro Enea, et resse essercito, come dice Virgilio nell’Eneida. Hos super aduenit Volsca de gente Camilla Agmen agens aequitum, et florentes aere cateruas Bellatrix. Ne resterà à dietro Cleopatra Reina d’Egitto, figliuola di Dionisio Aulete, laqual prese l’armi con Antonio contra Augusto, essendo coraggiosa, et ardita. Che diremo delle Amazzoni? la cui virtù sdegnò di essere imperata da gli huomini? queste furono donne di Scithia gagliarde, et forti, et più tosto superiori, che inferiori nelle armi à gli huomini. Ciro assaltandole con tutto l’essercito de Persi, restò vinto, et fù messo in croce sotto l’una, delle quali (Donna bellicosa) occuporono molti luoghi vicini; et dopo costei rimase una figliuola, che fù creduta di Marte, per lo supra human suo valore. Costei aggrandì l’Imperio, et faceua cucire, et tessere à gli huomini. Quando à loro nasceuano figliuoli maschi lo stropiauano, ma le fanciulle faceuano con ogni studio maneggiare armi, et si stessero infino al Tanai, et vissero molti anni libere. Una delle lor Reine fù Hippolita, laquale prese l’armi contra Theseo, Di queste illustri Donne fa mentioni Paolo Orosio nel lib. 1. al cap. 15. dicendo Harum duae fuere reginae Marpensia, et Iampedo etc. et Pantasilea, che fù creduta figliuola di Marte, venne in aiuto di Ettore con molte Amazzoni, e benche fosse morto Ettore, quando vi giunse, non rimase però di mostrar segni merauigliosi del suo valore, come dice Homero nell’Illiade, et Virgilio dice di lei tai parole. Ducit Amazzonidum Lunatis agmina peltis Panthasilea furens, mediisque in millibus ardet. Aurea subnectens exerte cingula mammae Bellatrix; audetque viris concurrere virgo. Nicandra fù Illustrissima etiandio nell’armi, venne in fauor di Bellissario contra Gothi, et di lei dice il Trissino nella sua Italia liberata tai parole. P. 81 Con lui venia la vergine Nicandra Sauia, gentile, e di bellezza immensa. Questa non fece mai ricami, ò tele, Ma fù nutrita fra caualli, et armi, E tanto è destra, e si feroce, e forte, Che non è alcun barone in quel paese, Che ardisca aspettar lei con l’armi in mano. Onde per far di se proua maggiore Era venuta a la famosa corte Con sei mila disposti, e buon guerrieri. Clorinda nelle guerre non fù ella animosa, e feroce? Et perche tale era Aladino le diede L’imperio sopra i suoi guerrieri, come si vede nel libro secondo del Goffredo del Tasso. Hor che s’è la tua spada à me congiunta; D’ogni timor m’affidi, e mi console Non s’essercito grande unito insieme Fosse in mio scampo, haurei piu certa speme. Già, già mi par, ch’à giunger quì Goffredo Oltre’l deuer indugi; hor tu dimandi, Ch’impieghi te: sol di te degne credo L’imprese malegeuoli, e le grandi; Soura à i nostri guerrieri à te concedo Lo scettro: e legge sia quel, che comandi. Et faceua benissimo l’ufficio di condutrice d’esserciti, et di valorosa guerriera, come veder si può. Vittoria, come dice Curtio Gonzaga nel fido Amante, fù donna bellicosa, et guidaua essercito, come si può conoscere in questa stanza. Vien poi Vittoria, et la battaglia guida Cui par che’l Cielo, e ogn’elemento arrida. Scelse d’Italia ella la gente, e tolse Quindici mila de’ suoi fanti eletti, Et sei volte trecento insieme accolse Caualli Cauallier buoni, et perfetti; Di Grecia con quest’altri unir ristretti; P. 82 Hauendo io fatto memoria di alquante donne, che hanno guerreggiato, et condutto esserciti, voglio addurre gli essempi di alcune altre, lequali solamente combattendo si acquistarono eterna gloria. La prima delle quali sarà Maria da Pozzuolo, ornata di bellicosa virtù, et di somma castità. Costei vestita da huomo, et armata era la prima ad entrar nelle battaglie, et l’ultima à ritirarsi, come scriue il Petrarca nelle sue epistole. Ne voglio, che rimagna à dietro Triaria, moglie di L. Vitellio, questa se ne andò alla guerra, et col suo valore ammazzò molti. Ma ditemi, di gratia, à chi non porge merauiglia l’inuitto ardire delle donne Saguntine? Hauendo Annibale diterminato di mouer guerra à Romani, prima che giungesse in Italia pose l’assedio à Sagunto, Città di Spagna ricchissima. Onde impauriti i Saguntini, vennero à patti di volersi arrendere, et pagar gli trecento talenti d’argento, et dar gli altretanti ostaggi. Ma quando Annibale leuò l’assedio, essi furono pentiti di hauer promesso tanto, et non vollero attenner le conuentioni Annibale entrato in collera ritornò ad assediar la Città, et la diede in preda a soldati, iquali strinsero i Saguntini ad à rendersi salue le persone, et una sola veste per ciascuno. Le donne accorte, essendo certe che il nimico non haurebbe consentito, che i Saguntini fossero usciti armati (et ciò era nelle conuentioni) tutte con animo forte si nascosero il ferro sotto le gonne. Essendo usciti tutti i Saguntini, pose Annibale una squadra di caualli per guardia ad una porta, et à gli altri diede licenza d’entrare nella Città. Ma coloro, che erano posti per guardia, vedendo gli altri carichi di preda, furono mossi da inuidia. et da sdegno, et abbandarono la porta, et si misero à rubare: et in questo le donne messo un terribil grido, date le armi in mano à loro huomini, et tutte insieme con quelli si mossero contra il nimico, et una di loro tolse la lancia di mano ad un certo Hannone, et prodemente lo inuestì,, per ammazzarlo; ma perche era armato non lo potè ferire. Cosi i Saguntini colti i nimici in disordine, et carichi di preda, molti ne uccisero, et molti ne fecero fuggire. Ma non meno prode furono le donne di Scio. Percioche Philippo figliuolo di Demetrio assediata che hebbe la città di Scio, mandò un dishonesto bando, accioche i serui si ribellassero; promettendo à tutti quelli di dar loro per moglie qual donna più à lor piacesse. credendo che ciascuno haurebbe dimandato la moglie del suo padrone. Le donne vennero per questo intanto sdegno, che P. 83 tutte insieme co serui portarono sù le mura molte pietre, et altre cose, d’offesa et da difesa, et poi combatterono i padroni, i serui, et anco molte donne fino alla morte, ne si smarirono mai, fin che Philippo, vedendo i suoi disegni riuscir vani, non leuò l’assedio. Mario dopo la rotta de’ Cimbri fù necessitato à far un’altro fatto d’arme con le donne, onde molti soldati di Mario furono uccisi. Oue rimangono le donne di Malta? lequali in compagnia de gli huomini guerreggiando, si portarono cosi prodemente, che fracassarono i Turchi, come dice Mambrin Roseo, et co’ gridi gli spauentarono. Et mentre Mustafà combatteua aspramente Famagosta, le Donne della Città con incredibile ardire mescolandosi fra soldati, combattettero. Onde Mustafà, che grandissima strage vide far de’ suoi, disse che gli assediati erano grandi huomini da guerra. Scriue il Bottero. che la gente piu guerriera del Principe Monopotapa sono le Donne, le quali si gouernano à guisa delle antiche Amazzoni, vagliono assai con gli archi, et mandano i figliuoli maschi co’ Padri fuori della Prouincia, et le femine tengono, et le auezzano à trar d’arco, et à far altre cose da guerra. Sono animose, habitano, verso Occidente non lungi dal Nilo. Delbora Reina de gli Israeliti fù prode guerriera, et molte volte difese i suoi popoli dalle insolenze de’ vicini, et accrebbe l’Imperio con supremi honori. Ma che diremo delle Donne Lacedemonie? che, come scriue Latantio, essendo restata la lor Città senza huomini, perche erano andati ad assediar Messene, et i Messeni uscendo della Città di nascosto andorono per saccheggiare i Lacedemoni, armandosi tutte andarono contra i nemici, et non solamente difesero la Città, et il Paese dal sacco, ma mandarono i nimici in rotta, et furono sforzati à ritornarsene. Ma in questo i Lacedemoni auuedutisi dell’inganno, andarono loro dietro, ne potendo trouarli, trouarono le lor Donne armate, et credendole essere i nimici si metteuano in ordinanza per combattere, ma le gagliarde donne si diedero loro à conoscere; onde per memoria di questo illustre fatto delle Donne, posero un tempio à Venere armata; sopra laquale Ausonio fa un bello Epigramma. Finge che Minerua vedendo Venere armata, voglia di nuouo venire à contesa con lei sotto etiandio il giudicio di Paris; ma Venere la schernisce, et la chiama temeraria, hauendo ardire di prouocarla, hora che la vede armata, se da lei fù vinta ignuda, et tale è lo Epigramma P. 84 traslatato in volgar lingua. Vedendo à Sparta Pallade la bella Venere armata à guisa di guerriera, Hor, disse, è tempo da terminar quella Lite, ch’andar ti fa cotanto altera, E siane pur giudice Pari: et ella Rispose, ah temeraria, dunque spera L’animo tuo di vincer hor me armata, che nuda già ti vinsi, e disarmata? Questo Epigramma benche non faccia cosi à proposito di nostra materia pure ho voluto porlo per diletto. Marfisa, che era cosi forte oue resta? laquale in mille guerre prodezza non picciola sempre dimostrò, et diede altrui merauiglia del suo potere. Come quando andò con Ruggieri contra Maganzesi, ilquale si merauigliaua, et miraua il suo valore, come dice l’Ariosto nel Canto 27. in questa stanza. Cosi parea di ghiaccio ogni guerriero Contra Marfisa, et elle ardente face E non men di Ruggier gli occhi, à se trasse Ch’ella di lui l’alto valor mirasse. Et altroue dice. E s’ella lui Marte stimato hauea, Stimata egli l’hauria forsi Bellona Se per donna cosi la conoscea Come parea contraria la persona. Et di grand’animo, e possanza fù Bradamante nelle guerre contra Saracini, et molto valorosa ne’ duelli, come quando combattè con Ruggieri credendo, che fosse Leone, come finge l’Ariosto dicendo. Quando di taglio la Donzella, quando Mena di punta, e tutta intenta mira Oue cacciar tra ferro, e ferro il brando, Si che si sfoghi, e disacerbi l’ira. P. 85 Hor da un lato, hor da l’altro il va tentando Quando di quà, quando di là s’aggira. Et in mille luoghi mostra il valor di costei. Gildippe non era una fortissima guerriera? che andò contra Altamoro, che non v’era piu alcuno, che gli volesse andare incontro; perche era troppo fiero, come disse il Tasso nel Canto vintesimo. Non è chi con quel fiero hormai s’affronte: Ne chi pur lungi d’assalirlo accenne. Sol riuolse Gildippe in lui la fronte, Ne da quel dubbio paragone s’astenne. Nulla Amazzone mai su’l Termodonte O imbracciò scudo, ò maneggiò bipenne Audace sì, com’ella audace in verso Al furor va del formidabil Perso. Ferillo, oue splendea d’oro, e di smalto, Barbarico Diadema in sù l’elmetto, E’l ruppe, e’l sparse, e quel superbo, et alto Suo capo à forza egli è chinar costretto. Et in altri luoghi mostra il suo valore sempre degno di memoria eterna. Della sofferenza, et toleranza delle donne. Cap. VIII. Est tolerantia potestas perferendae molestiae honesti gratia. [Toleranza che cosa sia.] Ciò è la sofferenza, ò costantia è una virtù di poter sopportar le cose moleste per fine dell’honore. Cosi dice Speusippo. è la toleranza in un certo modo una spetie di fortezza, come si può vedere in Aristotile, oue egli tratta di quelle cinque spetie di fortezza non reali, sotto una delle quali ella si può à giudicio mio porre. Sofferente, et tollerante fù Cornelia figliuola di Scipione Africano, che vinse Annibale, laquale sopportò con P. 86 somma patienza l’infinite sciagure, che le hauea recate la fortuna; et dopo che i suoi valorosi figliuoli furono uccisi, raccontaua i gesti, et le imprese loro senza lagrima, e senza sospiro, non altrimenti s’hauesse ragionato de’ fatti d’huomini antichi, et grandemente godeua in ricordarsi i fatti di Scipione l’Africano. Questo dice Plutarco quasi merauigliandosi della sua costanza. Però il popolo Romano l’haueua in somma veneratione. Grande fù la toleranza di Epicarmi laquale essendo nella congiura contra Nerone, et essendo stata accusata da un certo Proculo, costantemente negò, ne si sarebbe scoperta la congiura, se non fosse stata riuelata da altri huomini, i quali essendo menati al tormento confessarono il tutto. Alcuni altri stettero saldi un pezzo, senza confessar nulla, pure alla fine sè stessi, et gli altri nominarono. Ma merauigliosa, come dice il Tarcagnota, fù la costantia di Costei, che per gran tormento, che dato le fosse non confessò mai cosa alcuna; anzi essendo per soffrire il giorno seguente nuoui tormenti, et essendo portata sopra un seggio; perche caminar non potea per gli aspri tormenti hauuti, fattosi un laccio di una fascetta di tela, che si cauò di seno, se’l riuolse al collo, hauendolo prima al legno del seggio legato, et si lasciò andar di peso con tutto il corpo et cosi spinse fuori dal tormentato corpo il trauagliato spirito. Che vi pare, non fù questa una grandissima costanza? Ma doue rimane Isabella d’Aragona? laqual rimasa vedoua del Duca Giouan Galeazzo Sforza fù bersaglio della fortuna, la cui fortezza di mente non fù mai vinta dalle ingiurie dell’auuersa fortuna; fù oppressa inanzi la morte del marito dall’insidie di Ludouico Sforza, et fù da lui spogliata contra ogni ragione dello stato, et poco dopo la morte tolse l’auolo suo il Rè Ferdinando di questa vita, della qual cosa hebbe gran dolore: Ma con animo patientissimo soffrì questi acerbi colpi di fortuna. Poi vide il Rè Alfonso suo padre del regno scacciato, vergognosamente fuoruscito in Sicilia. viuersi et mentre questi dolori, et in queste sciagure staua, intese che’l Re Ferigo suo zio era stato spogliato del Regno per la crudel congiura de’ Rè stranieri: allhora la sua chiarissima casa fù affatto ruinata da quella gran machina, che la percosse, et in un medesimo tempo hebbe nouella, che suo figliuolo Francesco era morto in Borgogna alla caccia, essendoli caduto il cauallo sotto, ne mai l’inuitto, et costante animo di questa gran donna si perdè, o si smar- P. 87 rì punto; ma con fortezza inusitata tollerò tutte le percosse della nimica fortuna. Questo racconta Mons. Paolo Giouio, et Gian Antonio Volpi mostra la sua gran sofferenza in questi versi fatti in sua lode. ella fù tanto In odio al Ciel, che vide à un tempo morto L’auolo di dolore, il padre e’l zio Cacciati fuor del regno, il pio fratello Spento à l’entrar col pie nel seggio antico: Che dirò del carissimo marito Del regno, e de la vita a torto priuo? Et de la morte de l’amato figlio? Chi potrebbe udir ciò con gli occhi asciutti? Ella non versò già pianti, ò lamenti Ma vinse con virtù l’alto dolore. Et veramente questo fù un chiarissimo specchio di costanza, et di fermezza d’animo. Costantissima ancho diremo noi esser stata Elena Cantacusina moglie di Dauide Dauignano Imperator di Trapezunda, che si vide morire inanzi à gli occhi il caro marito, et sei figliuolini, et due menarne à far Turchi, et queste cose tollerò con animo costantissimo, et haueua solamente dolore di quei due figliuoli, che erano stati fatti Turchi; perche era Christianissima. Sofferenza grande fù quella senza dubbio di Penelopo, laquale oltre l’absenza del marito haueua in casa quei scelerati Proci, ouer porci, che consumauano il suo hauere, et molti anni lo sopportò, come dice Homero nell’Odissea. Grande più di quello, che credere si possa, fù la sofferenza di Psiche in cercar Amore. Fù scacciata da Cerere, et da Giunone, et al fin da Venere fù tormentata et afflitta con commandarle cose difficilissime da mettersi in essecutione, come il portar l’oro da quella horrenda selua cinta dall’onde spumose: Il portar l’urna piena dell’onde stigie tolte nella sommità di uno altissimo monte ultimamente le commandò, che scendesse all’Inferno come scriue Ercole Udine Segretario dell’Altezza Serenissima di Mantoa nella sua Psiche, come qui sotto segue. O di quel, ch’io commando. Scendi hor hora Giù ne lo inferno, e la Reina troua P. 88 E dille che d’hauer grato mi fora Quel suo liquor, che la beltà rinoua. Et ella superando ogni difficoltà scese all’Inferno, et andò alla presenza della Reina, come si vede in questi versi. Giunge al fin doue in soglio alto risiede De l’infernal signor la cara sposa; Oue à lei riuerente china il piede E’l suo messaggio spiega vergognosa; Proserpina le dà cio, ch’ella chiede In nome della Dea, E cosi vincendo tutti i perigli portò il pregiato liquore à Venere: et però Gioue la fece Dea, et fù vera moglie d’Amore. Costantissima fù Leona cortigiana, laquale essendo fatta crudelmente tormentare da Ippia Tiranno d’Atene: accioche confessasse quali erano gli huomini d’una congiura ordita contra di lui, più tosto si lasciò con infiniti flagelli lacerare tutta, et priuare di vita, che nominare alcuno de congiurati. Onde gli Ateniesi per honorarla della sua virtù dirizzarono una Leona di bronzo, senza lingua, perche si conoscesse la sua fortezza, et la sua taciturnità. Delle donne di forti membra, et della delicatezza sprezzatrici. Cap. VIIII. Rende più l’essercitio il corpo forte, et robusto, [Essercitio quanto possa.] che non fa bene spesso la stessa natura quando lo produce, et genera; percioche il moto consumando il superfluo humore, et eccitando il calore fà, che le parti si rendono più agili, et più robuste, come ben racconta Plutarco. essercitano le donne il corpo, ancor che delicato, in mille essercitii et cosi vigorosamente, et lungamente sopportano le fatiche, come gli uomini si facciano, et se noi guardiamo fra le genti plebee, se ne vederà chiarissimo segno; percioche le villanesche si P. 89 adoprano ne gli essercitii rusticali, et in tutte quelle fatiche, che gli huomini altresì fanno. Nelle Cittadi quante opere laboriose sono fatte da loro? infinite certo, et veggiamo notte, et giorno con grandissima patienza, et gran fatica, et se alcune si veggono poco atte alle fatiche, questo auiene perché assuefatte non sono, come si veggono anco molti huomini, che si si affaticano un’hora, ò due, in caminare, ò in altro esserciti dicono, che sono lassi, et però vogliono riposare il giorno seguente, et bere l’oua fresche. sono adunque le donne etiandio robuste; cosa merauigliosa, che un corpo cosi delicato qual è quello della femina sopporti tante fatiche, et divenga per modo di dire rozzo, et incallito; sprezzando la delicatezza, et la morbidezza. Ma veniamo à gli essempi. Zenobia sprezzò, come dice il Tarcagnota, le delicatezze di questa vita, et spese tutti i suoi primi anni nelle caccie de Leoni, de gli Orsi, de’ Pardi, et d’altri feroci animali. et si assuefece alle pioggie, al sole, al freddo, al caldo, et à tutti i disagi, che si possono sentire in una trauagliata et misera vita. Sprezzò etiandio gli agi Elena Cantacusina, alla quale essendo stato ucciso il marito, et i figliuoli ella con le sue delicate mani cauaua la terra con una zappa, et andaua sotterando il marito, et i figliuoli, benche fosse un commandamento di Maumete, che sotto pena della vita alcuno non sepelisse quei corpi. Andaua vestita di cilicio, et non mangiaua carne: et dormiua sotto un poco di tugurio di paglia. queste erano le delicatezze di questa sauia, et sobria Imperatice. E Camilla Reina del Volsci non apprezzò punto le delicatezze, et le mollitie di questo corpo. Costei nella, sua prima età fù inuolta in grossi et rozzi panni, non fù da morbide nutrici nudrita: ma da Metabo suo Padre fra le selue di ferino latte fatta poi più grande, non si essercitò nel filare, ò fra lasciue damigelle: ma fra le fiere con l’arco, con le saette senza ornamenti, o lasciuie, come mostra Annibal Caro nell’Eneida di Virgilio da lui recata in lingua volgare. Ne pria tenne de’ piè salde le piante, Che d’arco, di pharetra, et di nodosi Dardi le mani, e gli homeri grauolle. Non d’or le chiome, ò di monile il collo Ne men di lunga, ò di pregiata gonna, La ricouerse, ma di tigre un cuoio P. 90 Le facea veste intorno, et cuffia in capo. Il fanciullesco suo primo diletto, E’l primo studio fù lanciar il palo, E trar d’arco, e di frombra: Et mostrando, ch’ella à feminil lauoro non inchinò la mano. dice Virgilio. Non illa collo, calathis ve mineruae Foemineas assueta manus, sed praelia virgo Dura pati, cursuque pedum preuertere ventos. Illa vel intactae segetis per summa volaret Gramina, nec teneras cursu laesisset aristas; Vel mare per medium, fluctu suspensa tumenti Ferret iter, celeres nec angeret aequore plantas. Ne meno di questa gran donna si affaticò Maria da Pozzuolo, la quale al tempo di Francesco Petrarca, illustre, et gloriosa diuenne, come egli nelle sue epistole racconta. Costei si astenne dal vino, era di cibo, et di parole sobria. Lasciò lungi da se la lana, i fusi, et gli altri esserciti di simil sorte; godeua sommamente nel trar d’arco, nel lanciar il palo, soleua souente stare tutta la notte armata, et non dormiua. Ma quando dormir voleua, appoggiaua il biondo, et delicato capo sopra lo scudo; sempre conuersaua fra caualieri armati, ne niuna cosa tanto hebbe cara, quanto la sua pura verginità, la qual conseruò fino alla morte, et cosi sprezzando ogni culto del corpo, l’anima, et la sua fama di chiari, et incorruttibili fregi rese adorna. Ma che dice il Tasso di Clorinda? in questi versi, che tanto si affaticò nelle selue, et nel campo fra caualieri. Costei gl’ingegni femmenili, e gli usi Tutti sprezzò fin da l’età più acerba: A i lauori d’Aragne, à l’ago, à i fusi Inchinar non degnò la man superba; Fuggì gli habiti molli, e i luochi chiusi: Che ne’ campi honestate anco si serba; Armò d’orgoglio il volto; et si compiacque Rigido farlo; e pur rigido piacque. Tenera anchor con pargoletia destra Strinse, e lentò d’un corridore il morso; Trattò l’arco, e la spada; et in palestra Indurò i membri, et allenolli al corso; P. 91 Poscia, ò per via montana, ò per siluestra L’orme seguì di fier leone, e d’orso; Seguì le fere, e in esse, e frà le selue, Fera à gli huomini parue; huomo à le belue. Et Marfisa, da questo si può conoscere, se alle delicatezze, et alla quiete si diede, poi che essendo di diciotto anni prese sette regni, come dice l’Ariosto nel canto trentesimo ottauo. Che diciotto anni d’uno, ò di due mesi Io non passai, che sette Regni presi. Et di lei ragionando nel canto decimo ottaua dice. Fece piu volte al gran signor di Braua Sudar la fronte, e à quel di Mont’Albano E’l dì, e la notte armata sempre andaua Di quà, di là cercando monte, e piano. Ne stimaua fatica per farsi immortale, come si vede in cento luoghi. Ne delicatezze mi pare, che apprezzasse in questo luogo Erminia, come narra il Tasso. La fanciulla regal di rozze spoglie S’ammanta, e cinge il crin ruuido velo. Et altroue. Col durissimo acciar preme, et offende Il delicato collo, e l’aurea chioma. Et cosi faceuano tutte le Amazzoni, lequali sempre armate andauano, et fanciulline si auezzauano all’arti militari, et alle caccie di animali feroci. come scriue Solino. oltre à modo indefesse; et gagliarde sono le donne de’ popoli Tribali, che fanno, et trattano tutti i negotii, et sono molte di loro ornate di virtù militare, ma gli huomini stando in casa si mantengono molli, et delicati, amano l’otio, et si guardano dalla fatica piu che possono. Che diremo noi di quelli maschi arditi, et vigilanti? P. 92 Dell’amor delle Donne verso i Padri, i Mariti, i Fratelli, et i Figliuoli. Cap. X. [Amor delle Madri quale.] Quello è sincero, et vero amore, che non ha per oggetto il piacere, o l’utile: anzi per la cosa amata si contenta l’amante, et gode di patire anco una cruda, et acerba morte, non aspettandone diletto, od utilità alcuna. Come sarebbe, se la madre veggendo morire il figliuolo, si contentasse di morire in luogo di lui; percioche in un tal caso non c’è alcuna cosa, che à ciò la spinga, se non il desiderio di saluar la vita al figliuolo, et causa n’è quello intenso amore, che à lui porta, senza fine alcuno ò di utilità, ò di diletto. à questo modo amano le madri i figliuoli, ancorche da loro amate non sieno et nello amargli si rallegrano. Onde dice Arist. nell’ottaua dell’Etica. Argumento sunt matres, quae amando gaudent, rea mari non curant, sed satis ipsis videtur, si liberos suos bene agentes inspiciant amantque ipsos. Et questo è un vero amare, et un sincero, et perfetto amore, et però disse Propertio. Verus amor nullum nouit habere modum. Di questo amore le donne sono piene, come si vedrà ne gli essempi. Essendo l’Imperator Corrado sotto la Città di Vespergia in modo tale l’assediò, come racconta il Tarcagnota, che gli assediati tentando molte vie d’accordi, non puotero altro ottenere, se non che le donne se ne uscissero della città cariche di quello, che più à loro piaceua: Ma le pietose, et amoreuoli donne non curandosi ne de l’oro, ne delle altre cose pretiose, (o verace amore) portarono in spalla, à loro caro peso, et più pretioso, che le gioie non sono, quale il marito, quale il padre, quale il Fratello, quale il Figliuolo. Chi non si marauigliera di questo pietoso, e santo amore? Artemisia amò con tanto ardore, et con tanta fede il suo caro marito Mausoleo, che venendo à morte l’honorò di un sepolcro, ilquale è posto fra le sette merauiglie del mondo, et à guisa di sconsolata P. 93 tortorella sempre piangeua la morte del marito: et benche fosse domandata per moglie da molti Principi grandi, ella però non volle passare alle seconde nozze. Et essendo stato abbrucciato il corpo di Mausoleo, ella sempre le cenere portaua seco, lequali andaua mettendo nelle sue copiose lagrime, che raccoglieua, et poscia se le beuea, et tanto continuò di cosi fare, che le ceneri, il pianto, e la vita vennero à finirsi. Ne men fu grande l’amore di Giulia figlia di Cesare verso il gran Pompeo suo marito, che essendole recata la veste di lui tutta macchiata di sangue, ella tosto ricordandosi delle ciuili discordie, credendo che fosse stato morto da suoi nimici, prese cosi acerbo dolore, che tramortì, et poi morì subito, non senza lagrime di tutta Roma, essendo ella colei, che manteneua amicitia fra Cesare, e Pompeo. Ma doue rimane Laodamia figliuola di Acusto Tessalo, che portò al marito Protesilao cosi ardente amore, che egli essendo andato alla guerra Troiana visse in continue lagrime, et dolori, sempre chiamandolo, fin che le fù portato il corpo di lui, che fù ucciso da Ettore, et vinta da crudel cordoglio sopra il corpo morto se ne morì. Hiphisicratea, come scriue Valerio Massimo, amò con ferma fede, et amore Mitridate suo marito, che per andarli sempre dietro, et esserli compagna, et aiutarlo in mille suoi trauagli si tagliò i capelli, et si armò come soldato seguitandolo ouunque andaua, et à lui fù di molto contento. Cornelia amò ardentemente Pompeo suo consorte, et sempre seguitollo in pace, et in guerra, et dopo che fù ucciso da Tolomeo à tradimento lo pianse, et sempre si lamentò fino alla morte. Ma che dirò io della gran pietà, et del saldo amore della moglie di Alessio? il quale essendo stato cacciato in un monastero à farsi monaco da Manuelo Comneo, fingendo che Alessio hauesse voluto con incanti torli la vita, ella andò à gittarsi dinanzi a i piedi di Manuelo, che era suo zio, et molto lo pregò, et mostrò con molti giuramenti, che à torto il marito soffriua. Ma il crudo Imperator, anzi seuer tiranno, non guardando se lo’nocente à torto od à ragione affliggesse, volendo fare à suo modo, et come li piaceua, non volle punto mouersi à misericordia ne per la verità, che ella gli mostraua, ne per le sue affettuose lagrime, ne per l’habito, in che ella era. Onde la pietosa donna, non potendo in modo alcuno aiutare il marito, passò a miglior vita consumata dal dolore, et dalle lagrime. Questo racconta Niceta Acominato. Porcia portò tanto P. 94 vero amore al suo sposo, che essendole morto, et per lo dolore volendosi uccidere, ne hauendo cosa alcuna da poter ciò far, inghiottì carboni accesi, et cosi finì la sua vita. Ne minor di quel di Porcia fu quello di Fille verso Demosonte suo caro sposo, il quale hauendo tolto licenza dalla moglie d’andare à vedere il suo imperio, con promesse di ritornar fra un mese, essendo poi passato il termine di quattro, senza che nouella di lui s’hauesse, et per fermo tenendo, che egli fosse morto, per dolore s’impiccò. Hipermnestra portò un vero, et sincero amore à Lino suo consorte. Hauendo Nerone fatto che Seneca si eleggesse qual morte più li piaceua, Seneca si hauea eletto di voler morire col lasciar la vita, et il sangue in un bagno, Pauolina sua moglie mossa da fido amore s’era deliberata di voler morir seco (benche egli non volesse) perche, come erano stati compagni in vita, voleua che il medesimo nella morte altresi auenisse, et cosi fù posta con Seneca nel bagno. Ma come questo intese Nerone, subito mandò molte persone à farle fermare il sangue, et ritenerla in vita, et essendogliene uscito molto, sempre poi restò pallida, et sempre nel volto il segno del suo casto amore seruò. Ma doue rimane Triaria la quale spinta da matrimoniale amore seguì il marito L. Vitellio nella guerra ciuile, che i Vitelliani fecero contra Vespasiano. Et in quella notte, che il marito uscì di Terracina co’ soldati, ella come sua fidissima compagna lo seguì, et fece opera piu che di prode caualiere. Durando la legge de’ Triumuiri, nella quale coloro, che non manifestauano i proscritti cadeuano nella medesima pena, per paura della quale molti haueuano traditi i propri figliuoli, i fratelli; et i padri; Ligario fù uno de’ proscritti, il quale dalla moglie fù lungo tempo tenuto secreto in Roma, ma una serua, che haueuano, l’accusò. Venuti i ministri et pigliato, menauanlo al luogo destinato per farlo morire, ella andaua dietro al marito, pregando i ministri che lei anchora, uccidessero, dicendo che secondo la legge, la morte meritaua, per hauer’ ella tenuto in casa il marito proscritto. Ma non v’essendo alcuno, che la volesse compiacere, tornò à casa, s’astenne di mangiare, et con gran trauaglio con la fame, et con le continue lagrime finì la sua vita. Mostrò similmente grand’amore verso il marito Arria, percioche essendo nominato nella congiura Scriboniana, fù pigliato in Schiauonia, et menato à Roma. ella fece ogni sforzo, accioche con esso lui la menassero, il che P. 95 hauendo indarno tentato fu cagione, che con una barchetta dietro fino à Roma se n’andasse, et quando alla presenza fù di lui con un pugnale si passò il petto, e non men piena d’Amore, che forte d’animo si cauò il pugnal del petto, ilquale porse al marito, accioche similmente egli si uccidese, anzi, che alle mani de manegoldi venisse, dicendo per darli animo, che la ferita non li doleua punto. Oltre à queste, che direm noi di quelle donne Spartaneet allequali essendo stati imprigionati i mariti da Lacedemoni, ogni giorno andauano alla prigione, et dopo molti prieghi ottennero di fauellare à mariti, le quali entrate dentro confortarono i lor mariti, che con le lor vesti, si vestissero da donna, et uscissero di prigione col capo coperto, come elle andauano, et cosi le pietose donne rimasero in prigione, per dar libertà a’ mariti, à soffrire ogni tormento, et gli huomini uscendo ingannarono le guardie; et subito pigliarono Taigeta, et cosi i Lacedemoni lor diedero poi le mogli, et si partirono da Sparta. Grande veramente è la beneuolenza delle donne verso i fratelli, come per gli seguenti essempi palesemente si conoscera. Haueua il Rè Dario condennato à morte Itapherne co’ figliuoli; et con tutto il parentado; la moglie d’Itapherne andò al palazzo, et riempì ogni cosa di pianto, et di lamento. Onde Dario mosso à misericordia, le fece dire, che domandasse qual più le piaceua di quelli condannati, et essa domandò il fratello, ch’era nel numero de’ dannati. Merauigliossi Dario, ch’ella hauesse preposto al marito, et a’ figliuoli il fratello. Essa rispose, che se perdeua questo fratello, non ne era piu per hauere un altro, ma se perdeua i figliuoli, et il marito, poteua hauere altri figliuoli et un’altro marito. Da questo si può conoscere, che verso i mariti, et verso i fratelli sempre le donne sono amoreuoli. Grande similmente fù l’amor di Hisiphile verso il suo carissimo Padre Thoante. costei essendo Reina dell’isola Lenno, tutte le donne si consigliarono di uccidere i loro padri et determinarono. che colei, che ad alcun huomo perdonasse, s’uccidesse. Ad Hisiphile cio spiacque, et dolente, et lagrimosa per pietà del vecchio padre Thoante, et perche già hauea veduto ad Alcimede portar la testa del proprio padre, se le arricciaro i capelli, come la fa dir Statio nella sua Thebaide, che fatta in volgar dal Valuasone, cosi suona. Il crin mi s’arricciò, tremar le piante Mi venne in mente il mio padre Thoante. P. 96 Et tosto corse al padre, et lo fece fuggire, et poi fingendo di hauerlo ucciso; accomodò un Rogo col manto, con lo scettro, et con l’armi del genitore. Et hauendo tinto un coltello nelle ferite, si asise appresso il Rogo; perche se stata fosse scoperta, quelle altre donne, ch’uccisi haueuano i suoi, haurebbono lei uccisa. Non fù grande amore verso il padre quello di quelle cinquanta figliuole di Danao, le quali per ubbedire à lui uccisero i miseri giouini loro sposi. grandissimo fù l’amore, et la beniuolenza di Althea verso i fratelli, che furono uccisi dal suo proprio figliuolo, il quale nascendo, si dice, che le Parche tolsero un legno, et lo misero nel fuoco, et dissero; tanto durerà la vita di questo fanciullo, quanto si mantenerà questo legno: Althea, partite le Parche, prese il legno, et con grande custodia lo guardò: essendole da lui morti i fratelli, spinta da fraterno amore lo gettò nel fuoco, come dice Ouidio nel lib. 8. per priuarlo di vita. Me miseram, male vincetis, sed vincite fratres. Dummodo quae dedero vobis solatia, vosque Ipsa sequar, dixit, dextraque auersa dementi Funereum torum medios coniecit in ignes, Et cosi vinse l’amor fraterno quello del figliuolo. Ma doue rimane Drusilla, che tanto amò il marito, che con animo forte, et generoso uccise il suo nemico, facendo auelenare il vino, che volle, che il sacerdote porgesse à Tanacro. facendo prima fare l’essequie al morto marito, come dice l’Ariosto nel canto 37. Tosto, ch’al fin le sante essequie foro, E fù col tosco il vino benedetto, Il sacerdote in una coppa d’oro Lo versò, come hauea Drusilla detto: Ella ne hebbe quanto al suo decoro Si conuenia, e potea far l’effetto; Poi diè à lo sposo con viso giocondo Il nappo, e quel li fè apparire il fondo. Et cosi fece vendetta del Tiranno. et certo anchor grande era la beneuolenza di Gildippe verso il caro Odoardo, come ben dice il Tasso nel primo libro di lei ragionando. Ne le scole d’amor, che non s’apprende? Iui si fè costei guerriera ardita. P. 97 Va sempre affissa al caro fianco, e pende Da un fato solo l’una, e l’altra vita Colpo ch’ad un sol noccia, unqua non scende; Ma indiuiso è il dolor di ogni ferita: E spesso è l’un ferito, e l’altra langue, E versa l’alma quel, se questa il sangue. Son le Donne state similmente verso i figliuoli loro oltre à modo amoreuoli, con cio sia cosa, che molte di loro si sieno d’allegrezza morte, come in Tito Liuio si legge, raccontando egli che dopo la graue sconfitta, che i Romani lungo il lago Trasimeno riceuerono, assai huomini, ma molte più donne corsero alle porte della città per udire certa nouella della vita, o della morte de loro perscritti parenti, et tra l’altre donne una ve n’hebbe, la quale, per hauere udito affermare la morte del suo amato figliuolo, mentre da smisurato dolore era trauagliata, si vide, oltre ad ogni sua credenza, il figliuol sano, et saluo innanzi comparere, onda da souerchia letitia soprapresa incontanente l’anima spirò. Et un’altra, la quale per morto hauea il figliuol pianto, et in andarsene à casa allo’mprouiso lo’ncontrò, onde vinta da grandissimo giubilo subito si morì. Ne si mostrarono elleno meno affabili, ne meno amoreuoli verso i mariti loro, perche leggiamo, che Argia, figliuola d’Adrasto Rè d’Argo, non cessaua giamai di chiamare il suo molto amato sposo Polinice, che da Lae suo padre l’era stato ucciso; et perche Creonte hauea grauemente difeso, che i morti non si sepellissero, ella in compagnia d’Arrigona sorella di suo marito arditamente, et senza punto curare l’empio editto del tiranno, di notte tempo andò à cercar fra morti il corpo del suo caro Polinice, il quale essendo da lei ritrouato con molte lagrime lo sepelli, il che peruenuto alle orecchie del crudel Creonte fu cagione, che la facesse uccidere. Deidamia doue resta? la qual fù tanto amoreuole verso il marito, che poi che fù morto à Troia, visse sempre vedoua, sconsolata, pascendosi solo della memoria di lui. Merauiglioso senza dubbio fù l’amore d’Alceste verso il caro marito Admeto, poiche diede la sua vita in preda à morte per conseruarlo in vita. Eraclito, chiedendo à l’oraculo se lungo tempo viuerebbe, gli fu da quel risposto, che in pochissimo tempo finirebbe la sua vita, quando egli non P. 98 ritrouasse chi morire per lui volesse: egli oltre à modo dolente per la vicina morte domandò al Padre se per lui morire volesse, et il simigliante domandò alla Madre, à figliuoli, à fratelli, de quali ogn’uno ricusò di voler per lui morire. Ma la cortese moglie, come questo intese volontariamente alla morte si offerse, et saluò la vita al marito. Conoscere etiandio da quello che dice l’Ariosto si può se grande fosse l’amore, ch’al marito portaua Vittoria Colonna in queste stanze. Se Laodamia, se la moglier di Bruto; S’Arria, s’Argia, s’Euadne, et altre molte Meritar laude per hauer voluto Morti i mariti esser con loro sepolte, Quanto honore à Vittoria è più douuto Che di Lete, e del Rio che noue volte L’ombre circonda, ha tratto il suo consorte Mal grado de le Parche, e de la morte? Se al fero Achille inuidia de la chiara Meonia tromba il Macedonico hebbe, Quanto inuitto Francesco di Pescara Maggior à te, se viuesse hor, l’haurebbe? Che si casta mogliere, e à te si cara Canti l’eterno, honor, ch’à te si debbe, E che per lei si’l nome tuo rimbombe, Che da bramar non hai piu chiare trombe. Dell’amore delle donne verso la Patria. Cap. XI. [Amor della patria quanto possa.] Hanno etiandio le donne antiposto al proprio bene l’honore, et l’amore della Patria; ne in questo hanno portato punto d’inuidia à gli huomini: anzi molte volte hanno lor peruenuti, ò li hanno superati, ò gli hanno innanimiti, et incittati alle difese, et alle vittorie; et veramente, come disse Cicerone nel libro de gli uffici, cari sono gli amici, cari i Parenti; ma l’amor della Patria contiene tutte le altre cose. Et non si può se non con verità affermare P. 99 il detto di quel filosofo, Nihil est dulcius quam libera Patria frui. Et però molte Donne posero il petto inuitto per liberar l’amate mura da l’insolenza de’nimici. Essendo dunque assediati gli Spartani, haueuano gli huomini determinato di mandar tutte le Donne in Creta, allaqual cosa tutte contradissero, fra le quali vi si trouò Archidamia valorosa, et forte, che prendendo una spada in mano andò in Senato, et riprendendo gli huomini, disse se pensauano, che le Donne volessero viuere, quando Sparta fosse pigliata, et ruinata. Onde stupefatto il Senato d’un tanto ardire, rispose che tutto quello à lei piacesse, l’altre facessero. Subito le corraggiose Donne andarono, et mandarono à cauar fosse, et à fare altri ripari, et vollero, che i soldati si riposassero: et molte di loro combattendo fecero loro inuidia. Hauendo gli Efori condannato à morte Agide Spartano con inganno ordito da loro; et essendo menato in una prigione doue si soleuano strangolare coloro, che erano condannati à morire, venne alla prigione, l’auola, et la Madre di Agide, pregando et domandando con gridi, ch’egli potesse dir la sua ragione dinanzi a’ suoi Cittadini; Per questo i nimici d’Agide spauentati, affrettarono à lui la morte, temendo che non fosse cauato di prigione la notte dalle Donne, et perciò subito fù strangolato. Ma Anfare, il quale era uno di quelli, che condannarono à morte Agide veggendo à terra la madre di lui giacersi, laquale Agesistrata s’appellaua, et che per lo smisurato dolore non hauea pace, presela per mano la leuò in piedi, et dissele non temere d’Agide; percioche non è alcuno, che gli usi forza, ne crudeltà alcuna, et se ti piace puoi entrare à vederlo, et ella pregollo, che lasciasse con esso lei anchora entrare la Madre sua, laqual era auola di Agide: disse Anfare crudelissimo, menala, che non c’è alcuno, che te lo vieti et pigliatele amendue per mano, menolle dentro, e fece ferrar la porta della prigione, et fece uccidere Archidamia già dalla vecchiezza consumata, laquale era tenuta in grandissima reputatione, et riuerenza per saper le cose publiche. Dopo che fù amazzata costei, disse Ansare ad Agesistrata, che andasse à vedere il figliuolo, et subito entrò dentro, et vide il figliuolo morto, et la mardre, che haueua anchora il laccio al collo: ella dolente: ma forte ne punto mostrando il dolore, che l’animo premea, aiutò à leuare il capestro dal collo alla Madre, et la mise à lato ad Agide, e l’uno, et P. 100 l’altra con una veste coperse, et poi gettandosi sopra il figliuolo lagrimando disse. La tua carità verso la Patria, figliuol mio, ha ruinato te medesimo, et noi insieme. Ma Anfare, udente cotali parole, disse con voce empia. Agesistrata, perche tu persuadeui il tuo figliuolo à far questo, tu hai da morire con lui, et l’animosa Agesistrata acconciandosi il laccio al collo, disse, dolce è la morte, pur che gioui alla mia Patria Sparta, et cosi subito fù morta. Amatrice veramente della Patria fu una Madonna Paola della famiglia de Buti degna d’eterna memoria: perche essendo assediata Pisa, laquale era piena d’ogni commodita circa il combattere, et il nutrirsi, ma le mancauano solamente persone, che facessero fosse, et i ripari alla Città. Ne poteua il senato per la poca copia d’huomini à questo bisogno prouedere. Ella si appresentò al Senato, et promise di voler saluar la Città con le ceste, se mille Asine simili alle sue date le fossero, mostrando loro Ginerua, et Lucretia sue figliuole. Missesi il partito, et fù vinto, et subito furono ritrouate le ceste, et le pale, et cosi le Donne ressero la Città inespugnabile. Racconta il Conte Giouanni Castiglione di una giouine Pisana, laqual valorosamente difese la patria, nella cui morte fu fatto questo bellissimo Epigramma. Semianimem in muris mater Pisana puellam Dum fovet, et tenero pectore vulnus hiat: Nata tibi has, dixit, thedas, atque hos Hymeneos Haec defense tuo moenia marte dabunt. Cui virgo haud alias thedas, alio sue Himeneos Debuit haec nobis grata reprendere humus. Hanc ego solameo seruaui sanguine terram, Haec seruata meos terra tegat cineres. Quod si iterum ad muros accedet Gallicus hostis Pro patria arma iterum ossa haec cinisque dabunt. Et questo leggiadro Epigramma fù poi recato dal Domenichi in lingua volgare; che qui sotto noteremo. Mentre abbracciaua la Pisana Madre La valorosa, e quasi morta figlia, Et l’ampia piaga il tener petto apriua P. 101 Queste le nozze sien, questo il marito Disse ella, che tu haurai da queste mura, Di fese col valor della tua mano. Cui la donzella; et altre già non voglio Pompe ò marito hauer dal patrio nido, Sola difesi col mio proprio sangue, Coprà ei difeso dunque il corpo mio; Che se mai torneranno à queste mura I nimici Francesi, un’altra volta L’ossa mie prenderan l’armi per lui. Ne minor fù l’amore della madre di Pausania verso la Patria; percioche hauendo Pausania tenuto da Persi contra la Patria, et per questo richiamato nella Città da gli Ephori, et conoscendo che essi ogni cura metteuano per ritenerlo, fuggì nell’Asilo di Pallade, questo luogo era sacro, et molto reuerito; Onde sarebbe stato fatto ingiuria a’ Dei, che l’hauesse di là cauato: et perche determinarono gli Ephori di chiuderlo dentro, et farlo morire di fame, la Madre di lui corse, et innanzi à tutti portaua la materia di chiudere le porte del tempio, tenendolo per nimico; perche haueua operato contra la Patria questo racconta Emilio Probo con tai parole. Dicitur eo tempore matrem Pausaniae etc. Cruda verso il figliuolo fù Danatriona Spartana per amor della Patria; perche essendo il figliuolo andato alla guerra, intese che era timido, et vile ne pericoli; onde ritornando ella di sua mano l’uccise, et fece porrre questa sentenza sopra il sepolcro; DAMATRIONA fù la Madre, che quì ripose il suo figliuolo: et perche ella lo vide timido, et indegno della Madre, et di Sparta sua Patria, di sua propria mano l’uccise. Et un’altra Madre non meno amorosa verso la Patria, vedendo venire il figliuolo, subito li domandò in che stato fossero le cose Della Patria; et egli rispose, che tutti gli altri erano morti: prese ella un tegolo, l’auentò di gran furia nella testa al figliuolo dicendo: dunque sei rimaso viuo per portare si dolorosa novella alla Patria? et egli di quel colpo si morì. Guerreggiando i Latini co Romani; i Latini domandarono a’ Romani alcune fanciulle vergini: i Romani non sapendosi in questo determinare, temeuano à prendere una guerra grande non hauendo allhora troppo gran forza, et temeuano che i Latini fingendo di P. 102 volersi apparentar con loro, malitiosamente cercassero di hauere gli Statichi in mano, ma una fante, che hauea nome Tutola, ò come dicono alcuni Filoti, fece sapere al Senato, che facessero vestire di pretiose vesti molte serue delle piu belle, et delle più vaghe, che nella città si fossero à guisa di nouelle spose, et le mandassero a’ Latini. Del rimanente lasciassero il carico à lei. Accettarono i Senatori il suo ottimo ricordo et fecero la scelta delle serue, le vestirono, et ottimamente ornarono et le mandarono a’ Latini, che poco lontani dalla Città accampati s’erano: come fù la notte, le serue leuarono le spade a’ nemici, et Tutola salendo sopra un fico, gettandosi la veste su le spalle alzò una fiamma verso Roma, come haueua a’ Senatori detto che farebbe; i quali affrettando i soldati, presero gli alloggiamenti de’ nimici, et molti ne tagliarono à pezzi, In memoria dunque di cosi lodeuole fatto fù ordinata in Roma una festa, che si chiama delle serue. Non cedono à queste le donne di Smirna; percioche hauendo i Sardeschi posto l’assedio alla Città di Smirna. fecero intendere a’ Cittadini, che non si voleuano mai partir dall’assedio fino che non li dauano in mano tutte le lor mogli. Per la qual cosa, altro, che una graue bonta de gli Smirnei non s’aspettauano. quando una loro aueduta serua gli confortò à mandar tutte le serue loro, adornate delle vesti delle padrone, à nimici, per gabbargli. Il che, come ottimo compenso a tanto lor male, fecero. I Sardeschi adunque riscaldati dal vino si diedero à ridere, et a sollazzarsi con le serve da lor stimate le mogli de nimicim che gli fece diuenir pigri, et trascurati. Gli Smirnei veduto il tempo opportuno arditamente usciron fuori, et correndoui sopra tutti gli fecero prigioni, et per l’aueduto auiso d’una Donna la patria loro da grandissima vergogna liberarono. Essendo i Persiani da’ Medi messi in fuga nella guerra, che Ciro facea loro, le Donne fatto loro animo in dietro gli fecero ritornare, et cosi s’ottenero una non isperata vittoria, Grande senza dubbio, fù l’amore, che Vetturia portò à Roma sua cara patria, perche hauendo Martio Coriolano suo figliuolo assediata Roma, et non volendosi per lo mezzo de gli ambasciatori ne de Sacerdoti placare, ella, pigliata seco Volummia, moglie di lui, et due suoi figliuolini, andò nel campo nimico. Coriolano intendendo da un suo huomo, che quiui la madre sua era venuta; a quel riuerendo nome subito scese giu del tribunale per girsi ad abbracciarla. Laquale ciò non P. 103 permettendo, disse. Fa che prima, che tu m’abbracci, io intenda, s’io mi son venuta à visitare il figliuolo, od il nimico, et s’io mi son nel campo tuo prigiona, ò serua, ò madre libera? Deh m’haurà la mia lunga Vecchiaia seruata à vederti non pur bandito, ma nimico ancora? Hai dunque tu potuto ruinare, et rubare questa terra, che ti ha generato, e nutrito? come non ti cessò ogni odio, quando entrasti dentro questi confini? come, quando Roma s’offerse à gli occhi tuoi, non ti tornò egli à mente, come dentro à quelle mura è la mia casa, gli miei Dei famigliari, la Madre, la donna, et i tuoi figliuoli? Adunque s’io non t’hauessi partorito, Roma non sarebbe combattuta, et s’io non hauessi hauuto figliuoli, io sarei morta libera nella mia Patria libera. Ma horamai io non posso patire cosa alcuna, ò à me piu misera, ò à te più brutta, et vitupereuole. Ma se ben sono infelicissima, non posso cosi durare molto tempo; pensa tu à costoro, i quali se cosi vai seguitando, tosto saranno soprapresi da morte acerba, ò da lunga seruitù. La moglie poi l’abbracciò, et i figliuoli; et cosi si piegò Martio, ilquale tosto ritirando l’essercito, si partì del contado di Roma. Queste sono parole di Tito Liuio; onde si può ben dire à ragione, che questa gran donna era degna di Poema chiarissimo, et d’Historia. Nella guerra di Enea con Turno le donne, non difesero la Patria? come dice Virgilio nel libro undecimo in questo modo? Ipsae de muris summo certamine matres (Monstrat amor verus Patriae) ut videre Camillam Taela manu trepide iaciunt, ac robore duro Stipitibus ferrum, sudibusque imitantur obustis Praecipites, primaeque mori pro maenibus audent. I quali versi fatti in volgare da Annibal Caro cosi suonano. -------In su i ripari Anchor le donne, (che le donne anchora Il vero de la Patria amore infiamma) Come giunte à l’estremo, alhor che morta Vider Camilla, il feminil timore Volgono in sicurezza, et sassi, et dardi Lanciando, et con aguzzi inarsicciati Pali, il ferro imitando; osano anch’elle Gir le prime à morir morte honorata. P. 104 Et il Tasso nel Canto undecimo dice, che molte donne difendeuano Gerusalem in questo modo. E mirando la Vergine gagliarda: Vero amor de la Patria, arma le donne. Correr le vedi, e collocarsi in guarda, Con chiome sparse, e con succinte gonne; E lanciar dadi, e non hauer paura D’esporre il petto per l’amate mura. Hauendosi Aristodemo fatto Tiranno di Elide, bandì quasi tutti i Cittadini, ch’erano intorno ad ottocento, tutti insieme se ne andarono à saluarsi in Etolia, et poi fecero pregare il Tiranno, che li piacesse mandare i loro figliuoli, et le mogli: ma questo non poterono impetrar dal Tiranno. Il quale fingendo di essere mitigato, mandò un bando, che in un certo giorno determinato douessero tutte le mogli de banditi co’ figliuoli, et con tutto quello, che piaceua loro andare à ritrouare i mariti. Tutte credendo che fosse vero, allegre aspettauano il giorno assignato: venuto il giorno tutte si ritrouarono alla porta della Città, per doue haueuano ad uscire con le lor cose. Alcune haueuano i piccioli figliuolini in braccio, et i più grandicelli per mano, altre andauano sopra i carri, portando in seno i lattanti pegni, et quiui le une aspettauano le altre, per potersi, raccolte tutte insieme, partirsi. ma subito i ministri del Tiranno furo loro dietro, et saliti soura i carri, indietro gli voltarono con gran macello de misero puttini; percioche alcuni cadeuano da i carri; ad alcuni altri, che erano su la strada, le ruote delle carrette andauano sopra, et l’infrangeuano, et à l’ultimo con molta crudeltà le cacciò in prigione. Questa cosa mosse molto i petti de gli Eliensi. Onde le sacerdotesse di Bacco sacerdotalmente ornate andarono à pregar il Tiranno per le donne con le cose sacre in mano per mouere più l’ostinato cuore di lui. Il crudele, come le vide, stette cheto ad ascoltare: ma come udì, che erano venute à pregar per le donne, subito salì in grandissima rabbia, et commandò, che fussero mandate via con molte bastonate, et pagassero duo talenti per una, et cosi fù fatto. In questo mezzo gli Eliensi, ch’erano ricouerati in Etolia con quelle poche genti, che haueuano potuto mettere insieme, haueuano occupato una parte del territorio di Elide, vicino alla Città, P. 105 doue sicuramente poteuano starsi, et far guerra al Tiranno. Ogni giorno fuggiua della Città qualch’uno, per non vedere il Tiranno. Altri erano da lui banditi, i quali si andauano volontariamente ad unire con coloro, che haueuano occupato il territorio; onde fecero un’essercito grande. Il Tiranno di ciò impaurito, andò alla prigione dalle donne, et con gridi, e minaccie comandò loro, che scriuessero a’ mariti, et gli pregassero, che leuassero l’assedio della Città, altrimenti egli le haurebbe uccisi i lor teneri bambini dinanzi à gli occhi, et loro anchora dopo diuersi, et strani tormenii. Le donne udendo questo si guardauano in viso l’una l’altra, mostrando di non temere punto le sue crudeli minaccie. Quando Megistona, moglie di Timoleonte, la quale, per la nobiltà del marito, et per lo natio valore, era la prima, sdegnò, alla venuto del Tiranno, de leuarsi in piedi, et il medesimo haueua ordinato, che facessero tutte le altre, rispose all’empio in questo modo. Se tu hauessi un poco di ceruello, non ci comanderesti, che scriuessimo à mariti; ma noi stesse, come à nostri Signori manderesti à negotiar in miglior modo, et più lealmente, che non facesti dianzi, quando c’ingannasti: Ma perche ti truoui senza speranza di poter dalle lor mani fuggire, vorresti per il mezzo nostro anchora loro ingannare; tu sei in errore, se credi, che di nuouo ci vogliamo lasciare fare inganno, et che essi lasciassero, l’assedio per liberar da morte i figliuoli, et le mogli lasciando la Patria restarsi nella tua seruitù. Ma questo no’l faran mai; perche tanto non perderanno perdendo, noi, et questi figliuoli, quanto acquisteranno, liberando dalle tue mani la Patria loro. Seguiua la corraggiosa Megistona, quando il Tiranno non potendo più sopportare, comandò, che gli fusse portato il fanciullo di lei per volerlo uccidere dinanzi à gli occhi della madre. I ministri non sapeuano ritrouare fra tanti fanciulli il suo. Essa lo chiamò dicendo, vieni figliuolo mio: accioche sii il primo à prouare la crudele asprezza del Tiranno; perche maggiore è il mio dolore à vederti seruo contra la tua dignità, che morto. Il Tiranno udendo il parlare di lei cosi animoso, con furia mise mano alla spada, et si mosse per andare ad ucciderla; Ma un suo famigliare lo tenne con ragioni efficaci, et con prieghi, et si partì di prigione: essendo poi in camera con la moglie, et co figliuoli vide volare P. 106 un’Aquila che lasciò andare un gran sasso sopra la parte della casa, che rispondeua alla camera del Tiranno, et leuandosi un gran strepito, sparì da gli occhi d’ognuno. Egli pieno di spauento chiamò uno indouino, et li dimandò, che volesse significare questo, et egli rispose, confortandolo, che questo era un segno, che Gioue li voleua gran bene, et lo voleua aiutare ne’ suoi bisogni. Cosi disse al Tiranno, et in uno altro modo disse a’ Cittadini; percioche quello era segno, che’l Tiranno doueua incorrere in un gran pericolo; onde essendosi uniti certi huomini, che haueuano congiurato contra lui, fra quali era uno chiamato Hellanico, non volsero piu aspettare à porre la Patria in libertà, et vedendo il Tiranno venirsene in piazza, senza guardia, gridò Hellanico. O fratelli mostrate hora un bellissimo spettacolo alla vostra Città; et Chilone uno de’ congiurati messe mano alla spada, et uccise uno, che accompagnaua il Tiranno. Ma esso fuggì nel tempio di Gioue, et fù da coloro, che lo seguitauano morto. La moglie del detto Tiranno s’impiccò per la gola, come udì la morte di lui: et due figliuole, che v’erano fecero il medesimo, inuitando l’una l’altra; perche i Cittadini voleuano far loro vergogna. Ma Megistona ch’era uscita di prigione con le altre donne le difese, dicendo, che pazzia è la vostra ò Cittadini? odiate le tiranniche crudeltà, et poi volete far peggio assai? et per la sua difesa morirono caste, et inuiolate le figliuole, et pregarono Megistona, et dopo la lor morte, non le lasciasse in terra dishonestamente giacere, et cosi fù liberata la cara Patria dall’ingiusto Tiranno. Che vi pare per vostra fè ò fratelli dell’animoso petto di Magistona? et di tutte quelle altre donne veramente degne di eterna memoria. Grande certamente sempre fù nel cuore donnesco l’amore della Patria, come oltre à tanti essempi si può conoscere nelle donne d’Aquilea; perche essendo assediata Aquilea da Massimino, et mancando le funi per gli archi, le donne sprezzando la bellezza de’ capelli se li tagliarono per amore della Patria: et il simile fecero le Romane, et quelle di Marsilia in altri tempi. Da questi pochi essempi, pochi à comparatione di quelli, che lascio, si può vedere con quanta vehementia, et ardore posero le magnanime donne il petto per forte scudo alla care, et amate mura, et non solamente offrirono volontariamente la vita alla morte per loro: ma uccisero i figliuoli, a’ quali ogn’uno per se stesso sa P. 107 quanto amore, portino le pietose madri: et per dirlo in poche parole si spogliarono del proprio hauere, della bellezza, de figliuoli, et della vita, che pur è cara; sapendosi che la morte est ultimum terribilium, per amore della Patria. Grande senza dubbio fù l’amore, che portò alla Patria una donna Spartana, laquale hauendo cinque figliuoli maschi, tutti li mandò alla guerra: dopo alquanto tempo venne un’huomo dal campo à Sparta, et ella lo domandò, come andauano le cose, egli rispose, che erano morti nelle battaglie tutti cinque i suoi figliuoli, et ella disse, io non ti domando questo: ma come stanno le cose della guerra per utilità commune, egli disse, vanno bene, et ella rispose, à me poco monta la morte de’ figliuoli, già che la patria resterà honorata, et non suddita. Non è bene, che Ifigenia rimanga sotto il silentio, laquale fù cosi amatrice della Patria, che sapendo, come l’oracolo haueua detto, che bisognaua che fosse sacrificata a Diana sdegnata per lo Ceruo che uccise suo padre Agamennone, ella vedendolo afflitto, e dolente per cotal vaticinio, mossa da una salda fortezza, e da uno amore fedele verso la Patria tormentata da l’ira di Diana disse à lui queste parole, le quali sono nella tragedia di Euripide nomata Ifigenia. At illa patri proxime assistens suo, Hoc elocuta est, ò parens, adsum tibi, Et hocce corpus pro salute patriae, Proque uniuersa Grecia trado volens, Ut immolandum hinc ad dicatas numinis Bucatis aras, quando diuum oracula. Ita canunt. prorsum quod ad me pertinet Et rem geratis bellicam feliciter, Laetaeque vobis premium victorie Cedat. P. 108 Risposta alle leggierissime, et vane ragione addotte da gli huomini in lor fauore. Cap. VII. A me pare d’hauere apertamente mostrato, che le donne sono molto più nobili, et più eccellente de’ maschi. Hora resta, che io risponda alle false obiettioni de nostri calunniatori, le quali sono di due maniere: percioche alcune sono fondate su le ragioni apparenti, et l’altre sopra la semplice auttorità, et opinione loro: cominciando dalla loro auttorità, dico, ch’io non son tenuta à rispondere cosa alcuna à quelle: percioche, se io affermassi, che non si trouasse l’Elemento dell’aere, non sarei obligata rispondere alle autorità d’Aristotile, ouero d’altri Scrittori, che dicessero, che egli si ritrouasse. Ma non voglio però far torto ad huomini di tanta fama, negando le lor sentenze, che cosa troppo ingiusta giudicherebbono certi ostinatelli questo: dico adunque, che varie furono le cagioni, che spinsero, et sforzarono alcuni huomini sapienti, et dotti à biasimar’, et vituperar le donne, fra le quali è lo sdegno, l’amor di se stessi, l’inuidia, et la scusa del poco ingegno loro. Onde si potrebbe dire, che quando Aristotile, ò alcuno altro biasmò le donne, che ò sdegno, ò inuidia, ò troppo amor di lor medesimi ne fosse cagione, che lo sdegno sia origine di far dire cose sconcie contra le donne, è cosa chiara ad ogn’uno; percioche desiderando alcuno di adempire le sue sfrenate voglie, et non potendo per la temperantia, et continentia di quelle, subito si sdegna, et adira: et adirato dice tutti quei mali, che son possibili à ritrouarsi, si come di cosa odiosa, et pessima. [Cause, che hanno omssi molti à biasmar le donne] Il medesimo si può dire dell’inuidioso, che non guarda mai con occhio dritto alcuno, ch’egli di lode meriteuole conosca; onde vedendo l’huomo, che la donna è più nobile, e di virtù, e di beltà di lui, et però anco da lui, come veramente debbe, honorata, et amata, si rode, et si consuma per inuidia, et non potendosi in altro modo sfogare, corre con la pungente, et mordace lingua à’ vituperii, et à’ biasmi tutti simulati, et falsi; il medesimo accadde per lo troppo amore, che à lor medesimi portano gli huomini, giudicandosi d’intelletto, et d’ingegno nobilissimo, et di natura superiori alle donne; arroganza troppo grande, et superbia troppo P. 109 altiera, et gonfia; ma se con la sottigliezza dell’ingegno considerassero le loro imperfettioni, ò come se ne starebbono humili, et bassi; ma forsi un giorno le vederanno, che Dio lo voglia. Tutte adunque queste cagioni indussero il buono Aristotile à biasmare le donne, fra le quali la principale, io credo, che fosse l’inuidia, che egli à loro portaua; percioche quando consideraua, che tre anni, come scriue Diogene Laertio, era stato innamorato di una donna concubina di Hermia, il quale conoscendo il grande, e pazzo amor di lui, gliele concedette à moglie, onde egli d’allegrezza insuperbito fece sacrificii in honore della sua nouella donna, et dea, come si faceua in quei tempi à, Cerere, Eleusina, et ad Hermia, che à lui la diede sacrificò similmente. Considerando dico tutte questo cose degne, et memorabili inuidiò la moglie, et inuidiando il suo stato, et vedendo non poter aggiungerli, non essendo da alcuno adorato, come Dio, si voltò à vituperar le donne anchor ch’egli conoscesse, che fossero di ogni lode degne; overo si potrebbe dire, che si come huomo di poco ingegno (perdonateci Aristotelici, che leggiero, et sciocco anco lo chiamò Timone) attribuendo le cagioni del suo lungo errore alla donna di Hermia, et non al suo intelletto poco sano uscisse à dire sconcie parole per coprire l’error commesso, et poco honorate in biasimo del sesso feminile, cosa irragioneuole. [Errore di Arist.] Si potrebbe anco aggiungere à queste due l’amor di se stesso; percioche giundicando di essere un miracolo della natura, et del mondo reputaua ogni altra persona indegna dell’amor suo usciua di sè stesso, et però come si ricordaua di essere stato sotto posto alle donne, et fra se medesimo vergognandosi, cercaua di coprire il suo fallo, con dirne male: che sdegno etiandio contra alcuna lo inducesse ad ingiurare il donnesco sesso, è cosa necessaria à credere; percioche era amante, et amante sfrenato come habbiamo di sopra mostrato, et queste furono le cagioni, che indussero il pouero Aristotile à dire, che le donne sono più mendaci, et cianciatrici de gli huomini; più inuidiose, et mal dicenti, et non s’auuedeua, che mentre diceua, che esse sono maldicenti, entraua anch’egli nel numero de tali, et nel libro 9. dell’Istoria de gli animali, et in altri luoghi dice, ch’elle sono materiali, imperfette, deboli, mancheuoli, et di poco animo, delle quali cose habbiamo parlato nel terzo ragionamento. Potrebbe anco esser di leggiero, che si hauesse ingannato intorno alla natura, et all’essenza della donna, forse troppo graue soma à P. 110 gli homeri suoi, non hauendo considerato maturamente la nobiltà, et l’eccellenza di lei: si come anco si vede, che molti hanno creduto, che la terra si muoui, et che il Cielo stia fermo, altri che ci sieno infiniti mondi, et alcun’altri un solo: alcuno che la mosca sia più nobile del Cielo, et cosi ogn’uno difende la sua opinione, con molte ragioni, et ostinatamente, et queste sono le risposte, che si danno à coloro, che vituperano il femenil sesso. Sono stati poi alcuni altri troppo linguacciuti, et mordaci contro le donne, et ritrouandone alcuna non troppo buona hanno detto, che tutte sono maluaggie, et pessime; error grande di volere per una particolare biasimarle tutte in uniuersale; ben’è vero, che auuedutisi poi han lodate le buone. Et una sola risposta è conuenientissima à’ Filosofi morali, et à’ Poeti; percioche quando biasimano le donne, biasimano le pessime, come Hesiodo, che dice non si poter trouar peggio della maluaggia moglie; et poi Theognide afferma non si poter trouar cosa piu cara della buona moglie. Et Plauto: In mala uxore, atque inimico si quid sumatur, sumptus est. Oue si conosce, che tutte queste sentenze hanno la risposta con loro, già che cosi parlano honoratamente delle buone, et vituperano le cattiue; cosi anco parlaua il Satiro, mentre biasimaua le donne, le cui parole sono nel primo atto del Pastor Fido. O femenil perfidia, à te si rechi La cagion pur d’ogni amorosa infamia; Da te sola deriua, e non da lui, Quant’ha di crudo, e di maluagio amore. Et però dopo mostra le male simulationi della donna, dicendo: Qual cosa hai tu, che non sia tutta finta? S’apri la bocca menti, se sospiri, Son mentiti i sospir, se moui gli occhi, E simulato il guardo, in somma ogni atto, etc. Ma nell’atto secondo rauuedutosi dell’errore di hauer parlato in uniuersale, si emenda, et vitupera solo le maluagie, et ree, come Corisca, dicendo; P. 111 Maledetta Corisca, e quasi dissi Quante femine ha il mondo, Nelle quali parole si vede, che non vuol biasimar tutte le donne, dicendo, quasi dissi: ma nelle ultime dimostra, che solo delle pessime ragiona, dicendo. Hor le si darà il fuoco, ou’io vorrei Veder quante son femine maluagie In un incendio solo, arse, e distrutte. Non si vede, che solamente delle cattiue egli parla? Et ancor che il Petrarca dica. Femina è cosa mobil per natura. Et Iacopo Sannazaro nell’Arcadia cosi ragioni della donne, introducendo un misero innamorato, che dice. Ne l’onde solca, e ne l’arena semina, E’l vago vento spera in rete accogliere, Chi sua speranza fonda in cor di femina. Non pero parlano delle buone, come si vede nel Trionfo della Castità del Petrarca; oue egli ne loda tante, per la lor costanza. O che diremo, che il Sannazaro parlaua come per passione, et per isdegno. E in questo medesimo modo parlò il Casa nelle stanze fatte contra le donne, hauendo la sua amata donna volto l’animo verso altro amante. Onde egli adirato, non discernendo il vero dal falso le biasima tutte, che questo di ciò fosse cagione lo dimostra, dicendo. Che s’io potessi le parole, e’l viso, Farui, e i costumi, e le maniere espresse, Di quel che in luogon mio per suo Narciso, La saggia donna, che fu mia, s’elesse, Non so, se più la merauiglia, ò’l riso, P. 112 O la pietà, ne nostri cor potesse, Anzi sò, che n’hauresti ira, e cordoglio, Che di tant’util perdita mi doglio. O come il pouerello si lasciò spingere dallo sdegno à dir male di tutte, et fingeua di non si muouere per questo: ma non troua alcuno, che à lui lo creda; dicendo nel principio delle stanze. Nè crediate però, che’l dolor mio, E’l pianto sia, perche lasciato m’habbia, Anzi mi dolgo, e piango il tempo, ch’io Fui seruo altrui ne l’amorosa gabbia: Già fù grande l’ardor, grande il desio, Hor’è maggior lo sdegno, e più la rabbia; Già ne cantai, et hor perder mi duole In soggetto si vil queste parole; Ma quel di ch’io m’affligo, e mi tormento E, che mi dà la fede, et vuol, ch’io creda Giurando ella, che m’ami, e in un momento La veggio darsi ad un strano in preda, Quanto possa la fede, e’l giuramento In donna quindi ogn’huomo stimi, e creda, Che farà in acquistar perle, oro, et ostro, Se così l’usa in farsi serua à un mostro? E par che anco Vaffrino, grandissimo spione, et delle frodi albergo, biasimi le donne, come si legge nel canto 19. del Goffredo, mentre che Erminia li racconta di volere scoprir le congiure, le cui parole sono. Cosi li parla intanto, ei mira, e tace. Pensa a l’essempio de la falsa Armida, Femina è cosa garrula, e loquace, Vuole, e disuuole, è folle huom, che se’n fida. Nè consideraua l’ingannatore, che egli usaua ogni arte per ingannar lo essercito Pagano, et voleua poi riprendere la falsità d’Armida, se falsità si può chiamare il tentare ogni modo per P. 113 vincere il nimico, si come fece Armida. Onde ne anco realmente io chiamarei Vaffrino vero ingannatore: ma il pouerello auuedutosi poi del suo errore, conoscendo, che sono anco copiosissime le donne buone, et veraci, rispose ad Erminia, che la menerebbe, oue ella desideraua. Ecco mutabilità dell’huomo scaltrito. Horsù voglio che queste varie opinioni di vari Poeti bastino, et similmente le risposte. Concludendo, che fra le donne, maggior’è il numero delle buone senza comparatione, che delle cattiue; et che gli huomini precipitosi in far le sentenze, mossi da sdegno, o da altra cosa, che hanno verso alcuna particolare, le biasimano tutte; come fece il buon Rodomonte, che sdegnato per la sentenza di Doralice, fuor di ragione con la mordace lingua vituperò tutto il sesso femenile: ma che parlasse, come huomo adirato, et sciocco, lo dimostra l’Ariosto nel canto 29. dicendo. Ma che parlo, come ignorante, e sciocco Ve lo dimostra chiara esperienza: Gia contra tutte trasse fuor lo stocco De l’ira senza farvi differenza. Poi d’Isabella un guardo si lo toccò, Che subito li fa mutar sentenza: Già in cambio di quell’altra la desia, L’ha vista à pena, e non sà ancor, chi sia. Che di questo Marte stabilissimo nelle sue maldicenze, vi pare che egli stia fermo? conobbe l’Ariosto essere il numero delle buone grandissimo à paragon delle cattiue, et maluagie, et che lo sdegno trasporta gli huomini à dir male delle donne, certo fuori d’ogni ragione: che il numero sia maggiore, lo dimostra con queste parole. Con queste, e molte altre infinite appresso Querele il Re di Sarza se ne giua, Hor ragionando in un parlar sommesso, Quando in un suon, che di lontan s’udiua, In onta, e in biasmo del femineo sesso, E certo da ragio si dispartiua, Che per una, ò per due, che troui ree, Che cento buone sien creder si dee. P. 114 E poco dopo. Ma mia fortuna vuol, che s’una ria, Ne sia tra cento, io di lei preda sia. Che vi pare dell’Ariosto? vi pare, ch’egli lasciando lo sdegno dica il vero? io per me credo che cosi sia; ma egli non si contentò di questo, cioè, che fra cento donne ce ne sia una cattiua, che ne anco questo consentì, dando la colpa allo sdegno, et all’ira, ch’egli biasimasse quella. et però dice nel canto 30 nelle ultime rime della prima stanza. Lasso, mi dolgo, e affliggo in van di quanto Dissi per ira al fin dell’altro Canto. Poi lodò le buone soggiungendo. Ben spero donne in vostra cortesia Hauer da voi perdon, poi ch’io ve’l chieggio, Voi scuserete, che per frenesia Vinto da l’aspra passion vaneggio; Date la colpa à la nemica mia, Che mi fa star, ch’io non potria star peggio, E mi fa dir quel, di ch’io son poi gramo, Sallo Dio, s’ella ha torto, e sà s’io l’amo. Si può parlar piu chiaramente in lode delle donne? Tacciano adunque alcuni, che non leggono se non una stanza, et subito dicono, che l’Ariosto dice male di loro; cosa ridiculosa. che più si può dire? poiche i nostri nimici sono al lor dispetto amici? Fu mosso anco da sdegno Angelo Ingegnieri à biasimar le donne nel libro di Amore di Ouidio, da lui ridotto in ottaua rima, et che sdegno lo mouesse appare dicendo: Voi, c’hor d’acerbe ingiurie hor d’aspri scorni Danno sentir lunga stagion mi feste, Per lo cui sdegno i miei piu chiari giorni Spesso cangiarsi in notti atre, e funeste P. 115 Donna crudele, perch’io non ritorni Al foco indegno, ond’il cor vano ardeste, E perch’io segua pur la bella impresa, Siate ogn’hor piu ver me di rabbia accesa Guardate se’ era spinto dalla ira, poi ch’egli desideraua sempre ch’ella ver lui più s’incrudelisse per hauer cagion da vituperar le donne: ma poi auuedutosi dell’errore, che commesso hauea biasimandole, domandò lor perdono in un capitolo in terza rima, in questo modo. Cortesi donne, il bel giudicio vostro, Se pur ritiene il natural suo lume. Non può dannar il mio quì speso inchiostro, Che del mio stile à torto si presume, Ch’unqua si volga a procurarui oltraggio Poi che d’ogn’hor lodarui hebbi costume; Anzi vedrà, chi ben ne fara il saggio, Riuolto pur à la vostra salute, Senza punto de gli huomini vantaggio. Non perch’una, et un’altra mi rifiute, Non che mi sprezzi ben tutto lo stuolo, Verra giamai, che di pensier mi mute. Et anco il Passi crudelissimo nostro nimico dice, che fù sdegno, che l’indusse à biasimarle, dicendo nella lettera à’ Lettori. [Il Passi biasma le Donne per isdegno.] Nondimeno non son cosi arrogante, nè meno cosi acerbo, et crudele nimico del sesso feminile, ch’io possa derogare all’auttorità di tanti eccellenti scrittori, che hanno celebrato fino al Cielo le virtù, i gesti gloriosi di famose, et honorate donne, i nomi delle quali viuono, et viuerano mentre il Sole darà luce al mondo: Ma solo sdegno m’indusse di quelle, che amando poco il suo honore sono state cagioni d’innumerabili mali. Che dite Lettori; vi pare, ch’egli sia vinto? et pur di sopra parlò in generale del suo primo capo, dicendo: Nulla mulier bona. et cosi mentre tarttò de nomi. E cosa basimeuole il saltar dal particolare all’universale; et però staua meglio l’inscrittione del libro in questo modo. I difetti delle donne maluagie; ma di ciò fù sdegno cagione verso la donna amata, et non l’utilità commune. Et che questo sia vero lo dice il Morigi nel suo Sonetto, P. 116 nelle sei ultime rime. Ma Gioseffo, che prò (benche conforto Di vendetta vi dia) s’al fin non rende Quel che bramaste, e ch’ottener deureste? Iniquo amor, meglio era, pur ch’accorto Fessi da prima lui, che si moleste Cure mai non hauria; come hora imprende. Non si conosce apertamente, quale sdegno, ch’egli hauea contra alcuna, lo habbia mosso. Si certo, o se li perdoni adunque; perche si emenderà del commesso fallo, et conoscerà la nobiltà delle Donne. queste sono le risposte, che si danno à persone, che sono della ragione capaci: percioche alle opinioni de gli huomini volgari, et ignoranti, non accadde faticarsi à rispondere, i quali senza fondamento, et ragione parlano ostinatamente. Onde l’Ariosto prega le Donne à non dare orecchia à l’ignorante volgo, mentre racconta la fauola narrata dall’hoste, dicendo nel Canto viggesimo ottauo. Donne, e voi che le donne hauete in pregio, Per Dio non date à questa Istoria orecchia A questa, che l’hostier dire in dispregio, E in vostra infamia, e biasmo s’apparecchia; Benche, ne macchia vi può dar, ne fregio Lingua si vile, e sia l’usanza vecchia, Che’l volgare ignorante ogn’un riprenda, E parli più di quel, che meno intenda. Et nel Canto 29. dice, che faceua meglio hauer taciuto, dicendo. Io farò sì con penna, e con inchiostro, Ch’ogn’un vedrà, che gli era utile, e buono Hauer taciuto, e mordersi anco poi Prima la lingua, che dir mal di voi. Ho per cortesia, non per obligo date varie risposte alle auttorità d’alcun ostinatelli: et ho mostrato, che molti scrittori sono, che à prima vista sono giudicati maledicenti, et biasimatori delle P. 117 donne, che ne dicono grandissimo bene. Oltre à ciò hauete da sapere, et pregoui à custodire questo nella memoria, che quasi tutte le maluagie operationi, che furono, e sono, ò saranno fatte dalle Donne hebbero, hanno, od hauranno il lor principio dalla pessima natura di molti huomini, et questo accade in due modi. Il primo è, che gli Scelerati, e cattiui essempi di molti corrompono ogni purissima et candidissima creatura. il secondo è che con le persuasioni, con le ostinationi, con le insolenze, con le infintioni, et con le promesse inducono le pietose donne talhora à commettere fatti crudeli, et empi, ouero dishonesti, et lasciui. che l’huomo sia cagione di tutti i mali di lasciuie, et che da pochissime Donne ciò dipenda, il dimostra apertamente una storia antica, intitolata di Aurelio, e d’Isabella, nella quale si disputa alla presenza del Rè di Scotia chi prestò più cagione di peccare l’huomo alla donna, ò la donna all’huomo. Et si conclude, che l’huomo sia l’origine di tutti i mali, che deriuano dalle donne. Resta, ch’io risponda alle ragioni leggierissime d’alcuni. et à la principale. Dicono alcuni huomini di poca leuatura, che Elena fù la ruina di Troia, cosa in tutto falsa. Fra costoro ci è quel buon compagno del Caporali, che lo dice, mosso forsi più dalla opinione commune, che dalla propria, essendo egli huomo nelle suo compositioni veridico, i cui versi sono. Queste tante bellezze ogn’hor congiunte Con lo scandalo stanno, Elena quella Onde uscir già tante amorose punte, Fù con le sue bellezze cosi fella A Troia, a Grecia, a tutto il mondo, ch’anco Da ciascuno Hoggidì se ne fauella. Et dicono, che le Sabine quasi furono la ruina di Roma, cosa da mouer le risa ad un’ huomo morto. Ditemi di gratia, chi fu primo, che s’inamorasse, Paride di Elena, ò Elena di Paride? Senza dubbio Paride di Elena, come si può vedere nella Epistola, che à lei mandò, come narra Ouidio, che tradotta in volgare da Remigio Fiorentino, cosi suona. Questa ti scriue, ò de l’eterno Gioue P. 118 E di Leda gentil pregiata figlia Il peregrin Troian, ch’ardendo aita Sola da te dolce suo bene attende: Et più sotto mostra, come fece per venire in Grecia, lunga, e difficile via. Ne promessa mi t’habbia in van la bella Madre d’Amor là nella valle Idea Per mia consorte, ond io si lunga via E cosi lunghi, e perigliosi errori Tra Sirti, e scogli, e tra procelle ho preso Perch’io le vele, e le Troiane antenne Di Grecia torni à le Beate arene. Et poi la persuade à partirsi seco biasimando le brutte fattezze, et i costumi del marito; et tanto si affaticò, et tanto fece, che vinta dall’importunità di questo amante, se ne andò seco. Adunque Paride fù la ruina di Troia, poi ch’egli stesso dice, che passò tanti trauagli, et fece cosi lunga via per lei sola: et conoscete un poco, come era leggiero; poiche rifiutò la sapienza offerta à lui da Minerua, et la richezza promessa da Giunone: et non solamente era leggiero, ma lasciuo, et sfrenato. Onde Laodamia scriuendo à Protesilao mostra, che Paride fù la ruina di Troia, come dice il medesimo autore nelle sue Epistole in questo in questo modo; O mal Pastore, ò mal Troiano amante, La cui beltade al tuo bel Regno arreca Gli ultimi stridi, almen consenta Dio, Che tanto vil tu sia guerriero, e tanto Pigro nemico, e difensor di Troia Quanto empio fosti habitatore strano Al maggior Greco, il cui cortese affetto Li nocque tanto, e li turbò sua pace. Cosi anco intrauenne delle Donne Sabine; percioche le Donne non rubbarono i Romani; Ma ben i Romani rubbarono violentemente le Sabine, hauendo però i buoni huomini bandita un festa, P. 119 accioche vi fossero menate, et poi insolentemente pigliarle, come racconta Tito Liuio. Che ui pare galant’huomini di questa iniqua, et scelerata fraude? Dio buono, che ragioni si possono trouar più sciocche, et sconcie di queste? [Opinione d’Aristotile.] Alcuni altri dicono, come fù il buono Aristotile, che le Donne sono men calde de gli huomini, et però sono più imperfette, et meno nobili di loro: ò che ragione indissolubile, et onnipotente. Non considerò, credo io allhora Aristotile con maturità d’ingegno l’operationi del calore, et quello, ch’importi l’esser più caldo, et men caldo, et quanti effetti buoni, et rei da questo deriuano; percioche s’egli hauesse ben pensato quante pessime operationi produce il calore, che eccede quello della donna, non haurebbe detto una minima parola. Ma se ne andò alla cieca il cattiuello, et però comise mille errori. Non è dubbio alcuno, come scriue Plutarco, che il calore è instrumento dell’anima; ma può esser buono, et ancho poco atto alle sue operationi, ricercandosi in esso una certa mediocrità fra il poco, et il molto: percioche il poco, et mancheuole, come ne’ vecchi è impotentissimo alle operationi. Il molto, et eccedente rende quelle precipitose, et sfrenate. adunque ogni calore non è buono, et atto a seruire alle operationi dell’anima, come dice Marsilio Ficino. Ma bene in un certo grado, et proportione conueniente, come quello della donna. Onde non uale la ragione d’Aristo. sono i maschi più caldi delle Donne, adunque sono più nobili. oltre che si vede che i giouini non sono riputati più nobili de gli huomini, che sono nell’età uirile, et pur sono piu caldi. et quante Donne poi sono più calde di natura de gli huomini? Onde ne meno si concederebbe di tutte le Donne la sentenza d’Aristotile esser vera: percioche si ritrouano molte prouincie, non dirò ville, ò castella, oue le Donne sono piu calde di natura, che non sono gli huomini di un’altra prouincia, come quelle di Spagna, et di Africa sono più calde de gli huomini, che habitano il freddo Settentrione, et l’Alamagna: et quanti credemo noi, che fossero, et sieno più caldi di natura di Aristo. et di Platone, adunque più nobili nelle operationi dell’anima? questo non già. Diremo adunque in questo modo, che la Donna è men calda dell’huomo, et però più nobile; et che se alcuno huomo fà cose eccellentemente, che questo auiene, perche si accosta alla natura et temperatura della Donna, essendo in lui calore placido, et non eccedente, et però l’età uirile essendo intepidito P. 120 il feruore di quello calore, ch’era nella giouinile, et accostatosi alla natura feminile opera più saggiamente, et più maturamente. Non mancano alcuni altri tra i quali è pur Aristotile, che dicono, che gli huomini sono più robusti, forti, et per concluderla migliori da portar la soma, et i pesi delle Donne. Notate bella maggioranza. A questi io rispondo, che le Donne essercitate nelle fatiche, trapassano, anzi vincono gli huomini; ò veramente, che questa robustezza nelle creature gentili, et dilicate non ha luogo; et che sia’l vero non possono i Regi, i Principi, et le persone grandi far fatiche da fachino, ne credo che Aristotile, che chiama le donne languide, et simili alla mano sinistra, fosse forte, come sono gli huomini rustici, et molte donne. Adunque era men nobile de gli huomini rozzi, et di molte donne. et cosi i fabri sarebbono più nobili de’Regi, et delle persone scientiate, et dotte. Cosa fuor di ragione, percioche se cosi fosse, si potrebbe dire, che i soldati Romani, i quali sforzarono tante volte i prudentissimi Senatori ad eleggere Imperatore, secondo la lor volontà, fossero più nobili, et eccellenti de’ Senatori; Cosa falsissima [.] Ma questo accadea; perche la forza era nelle armi, et non nella ragione, et nel giusto. et però disse quello galant’huomo: Vis erat in armis: Et per questo interuiene, che un fratello homicida, et robusto occupi il Regno, et il Ducato all’altro fratello, che è delicato, et gentile; et per l’istessa cagione il sesso donnesco, il quale è più delicato del sesso virile, et anco men robusto, per non essere assuefatto alle fatiche, vien tiranneggiato, et calpestrato da gli insolenti et da gli ingiusti huomini; ma se le Donne, come io spero, si sueglieranno dal lungo sonno, dal qual sono oppresse, diuerranno mansueti, et humili questi ingrati, et superbi. Sarebbono senza dubbio tutte le risposte realissime da me in questo caso date alle autorità, et alle ragioni dè Poeti, dè Sacri Dottori, de Filosofi narate, et di Aristotile (non dirò gia dal Passi, che con semplici essempi, et di numero pochi se ne procede) buonissime per rispondere ad ogn’uno, che hauesse in qualche modo biasimato il sesso feminile: nondimeno son sforzata, accioche si lieui ogni cagione di dubitare, di rispondere particolarmente à molti, ciò è al Boccaccio, che fece il Laberinto d’Amore: ad Ercole Tasso, che compose con Esclamatione contro l’ammogliarsi, à Mons. Arrigo di Namur, che mandò in luce nell’anno 1428 la P. 121 Maluagità delle Donne; allo Speroni, che intitolando un suo Dialogo la Dignità, ò la Nobiltà delle donne. Le biasmò. cosa che similmente fece Torquato Tasso nel libretto della virtù feminile et Donnesca. prima adunque addurro la loro opinione, poi la rifiuterò. Opinione di Ercole Tasso, et di Monsignor Arrigo di Namur narrata, & rifiutata. FECE Ercole Tasso un discorso, ouero esclamatione contra l’ammogliarsi (cosa che Monsignor Arrigo di Namur, gia molti anni, quasi con le stesse ragioni, in luce pose) ilquale addusse in suo fauore molte autorità di Filosofi, et d’huomini reputati saui. come fù Thalesthene, et di Antisthene Ateniese, i quali biasimauano à fatto il prender moglie, et di Sofarione, che giudicaua, che fosse cosa rea il prender moglie: ma però in tutto non la prohibì. di Metello Numidico Censore, et di Catone, il qual diceua, se il mondo potesse star senza moglie, noi non staremo senza Dii tra di noi. Seguitò Diogine Cirico, Thalete Milesio, similmente Menandro, Arrio, Esiodo, et Achille, Tatio Alessandrino. oltre à ciò narra, che gli Essei Filosofi Ebrei questo tale atto di matrimonio abborriuano. queste sono le autorità, ch’egli adduce, poi se ne passa alle ragioni. una parte delle quali è tutta della indignità, e della maluagità del sesso feminile, et l’altra del male, che da quelle à mariti ne segue. Le ragioni sono in tutto noue, la prima è. L’huomo. è come atto, e forma, e tiene ragione del meglio: adunque la Donna tiene la parte del peggio. La seconda. vili sono tutte quelle cose, che dentro di se non hanno il fin loro: ma son fatte in gratia altrui: tale è la Donna, che fù per l’huomo creata. La terza ragione è il suo essere, la Donna esser non ha, se non in quanto le è donato dalla costa dell’huomo: onde cader senza alcun dubbio sotto l’infame consideratione di tal non ente. La quarta è questa. Ogni cosa, che nasce contra lo intento della natura causalmente è vitio, ò mostro; la Donna è tale: adunque la Donna è un mostro. La quinta P.122 è. Nasce la Donna per difetto della natura dell’operante, si come i mostri per difetto, ò per soprabondanza della materai: adunque nasce per accidente. La sesta vorrebbe ogni Donna esser Huomo, come ogni sformato bello, et ogni laico dotto. La settima è. La donna è particolar influenza della Luna. L’ottaua. sono di habitudine fredda, et humida, questo appare dalla mollitia delle carni loro, & dall’ampiezza delle mamelle. La nona, et ultima. Escludono le leggi le donne da’ magistrati. Hora raccontate le predette ragioni egli discende à raccontare quai dani le mogli apportino a’ mariti, dicendo. Qual donna si marita, che non voglia intorno i piu superbi vestimenti, che si trouino? Qual nouella sposa è di due di entrata nella casa del marito, che non voglia ordini nuoui? non biasimi li trouati? non maledica il suocero la suocera? non semini discordia tra il marito, e i fratelli? non contenda con le cognate? non garrisca con le Fanti? non villaneggi i serui? non distrugga la facultà, che deurebbe conseruare, non rumoreggia continuamente col marito, et all ultimo non lo aueleni? In conclusione non può operar l’Huomo cosa, che piaccia alla Donna, e che continuamente non gli porta dinanzi le commodità delle sue vicine, e cosi d’una seccaggine all’altra trapassando conchiude, che tu non sei di lei degno, e spetialmente s’ella dosse ò più ricca, ò più nobile, ò piu giouane di te. il medesimo interuiene se di bellezza esquisita ornata fosse, ouero scaltrita, e letterata, et perche la Donna non è moderata nelle sue operationi, ne segue ch’ella sia ò auara, ò prodiga. et non credere, fice, di fuggir cosi fatti incontri, se bene la pigliassi brutta, ò pouera, ò ignobile, ouero sciocca, percioche à tutti i modi ne porterai mille croci, et spetialmente se hauerà madre; percioche ella sempre intorno ti sara, ne mai finir[a] di garrire, ne di dolersi con queste, ò similmenti parole. La mia figliuola è molto disfatta, io non so, donde cio si proceda, tu non la dei amare. egli non si dourebbe far cosi, io me la conuerrò rimenare à casa. Aggiunge di più, dicendo. S’egli vuole una cosa, e tu ne fai un’altra. se dice di si, e tu di di nò, se maledisse, e tu bestemmi. & in somma non lo lasciar vincere, che io stesso ho ciò sperimentato. non credere per trouarla buona di possedere percio una quieta pace, percioche di buona diuenta rea: aggiunge à questa ragione molte autorità della scrittura, et di Huomini santi. All’autorità di alcuni huomini letterati saui, ch’egli adduce, varie risposte noi possiamo P. 123 dare. Prima, che hauendo essi tutti l’animo volto alle speculationi fuggiuano le donne, come faceuano etiandio tutti i carichi di casa, et de gouerni, ritirandosi nelle solitudini, come fecero i Filosofi Egitii, et questo per poter vie meglio Filosofare. Ouero noi diremo, che hauessero una falsa, et strana opinione contra le leggi diuine, et contra il commune parere. ouero che erano vili di animo, et timidi, non conoscendosi atti à seruire una cosi nobile creatura, come è la Donna. ouer, che lo sdegno, et la loro natural maladicenza, ò la Inuidia gli inducessere à biasmarle. ouero, che in diuersi tempi, et in diuerse opportunità & cagioni hora le lodassero hora le biasimassero, si come Catone. che più lodaua uno huomo, che si portasse verso la moglie, che colui, che ottimamente reggeua la republica, et però egli ne prese due, non satio della prima, et ultimamente io dico che, se d’alcuni pochi di quei grandi letterati è stato biasimato il matrimoni et le Donne, ci sono stati de gli altri, che lo hanno lodato, si come Teofrasto, che pohibì la communanza delle Donne, et lodò l’ammogliarsi, cosa che fece etiandio Aristotile, et Pittaco, & quanti saui hanno hauuto moglie? infiniti come Pitagora, Socrate, Crate, Solon, et, per concluderla, credo che tutto il mondo si legghi col dolce legame del matrimonio. andate considerando tutte le parti sottoposte alle santissime leggi di Christo, tutte quelle che adorano il falso Maometto, et il mondo nuouo. che vedrete chiaramtnte che il matrimonio è conseruato, cosa, che non sarebbe s’egli fosse nociuo, et dannoso. Hora mi discendo io alle solutioni delle sue ragioni. alla prima io nego, che l’huomo tenga la ragione del meglio, et che sia come forma. alla seconda, io dico che il proprio fine della Donna non è di esser fatta in gratia dell’huomo, ma d’intendere, e di gouernare, di generare, et di adornare il mondo. alla terza ragione si nefa, che la Donna non habbia il proprio essere datole da Dio, et dalla natura, concedendo però che la costa dell’huomo le fosse Materia, si come fù il fango all’huomo. alla quarta io concedo, che quelle cose, che nascono contra lo intento della natura sieno mostri, e vitio, ma ben nego, che le Donne à tal modo nascano: prima percioche i nostri rade volte si veggono, et poi sono dalla natura generati: onde per lo contrario veggiamo più Donne, che Huomini nascere. laonde io direi, che gli Huomini sieno mostri, generando sempre la natura maggior copia del megliore, et minor quantità del piggiore. oltre à cio tanto P. 124 è inteso dalla natura la generatione della femina, quanto quella del maschio, se ella uuole eternare la spetie de gli Huomini, ricercandosi alla generatione la Femina, et il maschio. Alla quinta si insegna, che la Donna nasca per difetto della natura dell’operante. Alla settima si dice, che è falso, che ogni Donna desideri d’essere huomo, et se lo desiderasse ciò farebbe ella per sotrahere il collo dalla tirannesca signoria del maschio, et per farui meglio conoscer le sue rare uirtù, che stanno celate tra le parete. delle case. Alla settima passando. si nega, che la Donna sia sotto l’influenza della Luna; percioche da gli Astrologhi è posta sotto l’influenza di Venere, argomenta ciò la beltà, et i vezzosi costumi loro. Alla ottaua. io rispondo, che la Donna è di habitudine calda, et humida, come vuole il più saggio medico. et questo argomenta il color bianco, e vermiglio de delicati uolti, et la mollicie, e la morbidezza delle carni, lequali non sono tali per lo freddo, et per l’humido soprabondante, che lasse sarebbono, et non delicate, e morbide. All’ultima io rispondo, che gli Huomini fanno le leggi, et però come tiranni iscludono da magistrati le Donne. ma non già perche conoscano che à reggere elleno non sieno buone, & ottime. Ma perche egli, narrate che egli ha le predette ragioni, se ne trapassa à raccontare quei mali, che le ree Donne possano portare a’ mariti, liquali à giudicio mio ò non sono veri, ò di poco momento, presupponendo egli molte cose per vere, che pero’ tali non sono. percioche di rado si truoua scritto nelle storie, che le Donne habbiano huomo alcuno ucciso, ne vi si legge che elle habbiano desiderata la morte del lor padre per hereditare le facultà, come han fatto i crudeli maschi, et s’elle sono di natura piaceuoli e quiete, che d’ognuno vien confessato, come cagioniano tanto discordie nelle case. se alcuna di loro si lameuta dello’ndiscreto e del poco sauio marito, non commette però alcuno errore; percio che molti sono, che nell’hostiere, in disonestà, in giuochi, et in altre uanità consumano tutto l’hauere. Onde le cattiuelle, bene spesso digiunano le uigilie non comandate, ma questo sarebbe poco, se eglino pieni di uino, od’infuriati per la perdita de denari per la perdita de denari o per lo’ntelletto offuscato da vapori dal vino generati, non bastonassero le loro honeste, e prudenti Donne. quanti hanno giucato la dote della moglie, et delle Sorelle? ditelo voi, che mantenete il contrario? par, ch’egli si merauigli quando la Donna si P. 125 lamenta del marito; percioche ella sia più giouane, più ricca, più nobile, più sauia, et più di lui fornita di bellezze diuine. che merauiglia è questa senza ragione? Deh ditemi si conuiene egli vna gentildonna ad vn fachino? vna douitiosa de’beni della fortuna ad un mendico? una Donna discreta, e prudente ad un Zotico, et ignorante? una leggiadra, et uezzosa giouane ad un Orco, ad nn Satiro, et ad un’Huomo tutto sgangherato? et una Donna giouane ad un uecchio identato con gli occhi, et col naso gociolante? non già certo; percioche sempre conoscerebbe che non ci fosse una equalità, à proportione (parlo) tra il marito, e tra la mogliere d’età, di grado, et d’ogni altra cosa raccontata, et quanto alla beltà, et defformità della Donna, sopra laquale egli fa tanto schiamazzo, dico secondo l’opinione di Pittaco, che fù uno de sette saui delle Grecia, che se la prenderai bella non ti farà pena, se brutta non sara commune. Ma ce, il ualente Ercole Tasso non potè finire la esclamatione, che la verità non gli leuasse il uelo delle tenebre da gli occhi della mente: onde pentito cosi disse. Vero è, che sotto à questa forma feminile, et à questi panni discendono tal uolta tra noi, alcune nature sopra humane, et angeliche; non solo lontane da ogni difetto raccontato; ma di tanta perfettione, et eccellenza, e di tanta bontà, e ualore, che altretanta consolatione presente, e futura apportino à chi degnan se in mogli. et percioche è poca diferenza fra l’opinione di Mons. Arrigo & quella di Hercole Tasso, non mi affaticherò punto in rispondergli. P. 126 Opinione dello Sperone raccontata & distrutta. PEN SO’ lo Sperone in un suo Dialogo intitolato. La Dignità, ò la Nobiltà delle Donne, nel quale i ragionanti son Michel Barozzi. et Daniel Barbaro, et si sforza di prouare che le Donne sieno nate per seruire l’huomo, et che naturalmente à ciò sieno dalla natura generate, come quelle, che sono imperfette, e impotenti, e che ciò sia il uero osseruate quello, ch’egli dice nel suo Dialogo, facendo raccontare l’opinione della Signora Obiza ad uno interlocutore (bella fintione) per dimostrar, che le Donne stesse fanno la sentenza, le “ cui parole sono. Queste le auuiene per esser moglie, cioè serua “ del suo marito, al cui uolere essa moglie contra al proprio piace “ re è di piacere obligata. et poi soggiunge, Tal’è l’huomo alla don “ na, quale è la ragione à i sentimenti. Queste cose dic’egli secondo la sua opinione, et poi narra la sentenza della Sig. Obiza. la qual “ è. Che la Donna, non è Donna senza la seruitù del marito; per “ cioche è natural sua conditione di seruire. per distruggere questa opinione, nego, che la Donna sia serua al marito, se però noi vorremo star ne’ principii Aristotelici. percioche compagna egli in ogni luoco la chiama, et non solamente compagna, ma compagna hauuta in riuerenza dal marito, ch’ella sia tal si legge nel lib. dell’Economica al cap.3. Societas enim est maxime secundum naturam mari, & Feminae. Che ui pare egli non sice già serua per natura: ma si compagna per natura; soggiunge. Apparent enim his magis natura auxilia, dilectiones, & cooperationes. delle quali parole chiaramente si comprende una soccietà con amore, et operationi scambieuoli: oltre à questo nel secondo libro al secondo capitolo non dice egli manifestamente, che l’huomo, cioè il marito, dee portare honore alla moglie? con queste propie parole Prudentem igno rare non debet qui P. 127 honores conuentiant uxori. queste cose medesime egli racconta nel primo libro della cura famigliare. che l’huomo debbe la donna honorae, et con riuerenza amare, lo mostrò etiandio, adduncendo le parole d’Homero manifestando in un medesimo tempo, che la Donan deue honorar l’huomo, con l’essempio di Helena, e di Ulisse. le parole dette da Helena à Priamo sono. O metuende mihi semper, semperque; tremende Chare socer. Le parole di Ulisse à Nausica donna sono. Te mulier ualde equi dem admiror, et metuo. Et poi soggiunge. Censet autem Homerus uirum, et uxorem sic se inuincem debere habare: nam nemo deteriorem se admiratur, ac ueretur. Onde Aristotile conclude con Homero che debba essere una sincera compagnia, et una unanime concordia accompagnata da una cera riuerenza tra marito, e moglie. cosa che non si uede tra serui, e padroni; oltre a questo pose lo stesso l’amicitia tra la moglie et il marito nel settimo libro delle morali al quinto capitolo: ma non gia tra il padrone, et il seruo. aggiungiamo che nel primo libro della Politica al capitolo ottauo egli mostra chiaramente che spetie di preminenza habbia il marito sopra la moglie, et che maniera d’imperio, ponendo due ordini, d’imperio, uno ciuile, et l’aliro regio, hauendo iscluso fuori quello del Signore, e del seruo, le cui parole sono. Quoniamo uero tres erant partes rei domesticae, una dominica, de qua supra diximus, alia paterna, et alaia coniugalis: nam preaest filiis & vxori tanquam liberis quidem ambosus, sed non eodem modo imperii, vxori quidem ciuilter, filiis autem regie. Con le quali parole conclude, che l’huomo habbia nella Donna un’imperio ciuile, et nel figliuolo regio. lo’mperio ciuile è quello di coloro, che hora comandano, et hora à loro è comandato, cosi lo descriue Aristo. nel medesimo capitolo con queste parole. In ciuilibus igitur principatibus plerunque commutatur is, qui praeest, is qui subest. nam equales esse uolunt. Che più manifesta pruoua, et ragioni più palesi d’Arist. si possono desiderare. però si può chiaramente conoscere, che P. 128 la opinione dello Sperone manca de quei fondamenti, che sono ueri, e reali. Forsi ch’egli si è accostato à questo parere, mosso dalla insolenza tirannesca di molti Huomini, i quali si fanno seruire non solo dalla moglie; ma dalla madre, e dalle sorelle con tanta ubbidienza, e con tanto timore, che con minore seruono le fanti uili, et le Schiaue i lor Signori, et padroni. Parere di Torquato Tasso addotto et rifiutato. Crede Torquato Tasso in un suo discorso intitolato della uirtù feminile et donnesca, seguendo l’opinione di Tucidide, et di Aristotile, che le Donne sieno à comparatione de gli Huomini imperfette, et deboli, simili à punto alla mano sinistra, et però ad esse non conuenirsi la fortezza, ne meno essere à loro di honor la fama, che di uulghi le loro operationi, desiderando la pudicitia la retiratezza; non nega però piu di sotto, che la fortezza non sia uirtù feminile; ma non l’assoluta fortezza, ma si ben quella, che è chiamata fortezza ubbidiente. onde conclude che molti atti, che sono atti di fortezza nelle Donne, non sarebbono atti di fortezza ne gli Huomini: poi fa una distinzione delle uirtù, una spetie delle quali, che all’intelletto s’appartiene nega alla Donna conuenire, similmente afferma la prudenza non esser sua virtù, perche nella donna non dee esser se non tanta quanta basti per ubbidire alla prudenza dell’Huomo, cosa, che racconta etiandio Aristotile, si come anchora egli disse della fortezza donnesca. Narrate ch’egli ha queste cose, se ne passa à raccontare della donnesca virtù, fingendo una sua nouella inuentione, la qual’è, che gran differenza sia tra la virtù feminile, e quella che donnesca egli chiama, onde finge, che il nome di Donna si conuenga solamente alle Reine, alle Prencipesse, et à quelle, che gli chiama Donne heroiche, alle quali non vuole, che si conuenga piu la pudicitia di quella, ch’ella si conuenga al Caualliere, le cui parole sono. piu non si conuiene alla Donna Heroica la modestia, e pudicitia di quello, che si conuenga al Caualliere; perche quelle virtù di coloro son proprie, di cui l’altre maggiori non possono esser proprie, ne puo esser detta infame P. 129 quantunque come alcun’atto d’impudicitia. et à queste si conuiene l’esser destra, e sinistra. Queste sono tutte le cose essentiali, che racconta Torquato Tasso nel suo discorso, alle quali io rispondo, che s’egli haueua quella opinione, che hebbe Tucidide, et Aristotile, la doueua sostentare con alcun fondamento, buono, et reale, et distruggere quella verissima risposta, che diede Platone della mano, mostrando non esserci alcuna differentia tra la destra, e la sinistra essercitata, come si vede in molti. Oue poi egli soggiunge, che alle Donne non si conuiene la fortezza, spinto dall’autorità d’Aristotile, dico che non accettiamo la opinione d’Arist. per vera; percioche habbiamo prodotti mille essempi di Donne fortissime, non già Reine nel nostro libro. Et non già di fortezza ubbidiente (cosa da serua) ma di fortezza signoreggiante; percioche ne la fortezza, come la diffinisce Aristotile una costanzia d’animo contra quelle cose, che spauentano per fine di cosa honesta, et lodeuole, il qual però consiste in varie cose, come ho dimostrato. chi negera, che molte Donne non sieno state adornate di simil virtù? lequali però non furono da alcuno huomo stimolate, come potrete vedere ne gli infiniti essempi posti nel capo delle donne forti, liquali atti di fortezza sarebbono stati ne gli huomini marauigliosi: ma se ne trouarebbonole [sic!] migliaia s’elle praticassero, e si essercitassero ne i publici maneggi, come fanno, i maschili quanto alla distintione delle virtù fatta da lui, parte delse [delle] quali, che speculatiue sono nega alle Donne conuenire; io non admetto questa sua suppositione, anzi essendo le donne della medesima spetie de gli huomini, et hauendo una stessa anima, et le stesse potenze, come tutti i peripateci affermano, la qual cosa conobbe etiandio Senofonte nella sua Economica, oue egli dice. Virum fecit audaciorem muliere, memoriam verò, et intelligentiam dedit fratrem. Direi che tanto si conuiene la speculatione alla Donna, quanto all’Huomo: ma l’Huomo non lascia, che la Donna à tali contemplationi attenda, temendo ragioneuolmente la superiorità di lei, nego similmente che la prudenza donnesca sia semplicemente ubbediente à quella del marito; percioche colui vien da Aristotile reputato prudente che intorno alle cose venture sà consigliare, et elegere quello, ch’è meglio: ma chi negerà che non sieno state molte donne ne gouerni militari, et pacifici prudentissime? leggasi il capo delle donne prudenti? Et P. 130 chi negherà, che la Donna non dimostri una somma prudenza nel gouerno di casa? niuno à giudicio mio. ilqual gouerno à lei sola pur s’appartiene, et non al marito, come nell’Economica si legge. Oltre à questo, se colui è ornato di principal prudenza, che gouerna, et impera seguiterebbe che tutti i sudditi sarrebbono prudenti di prudenza ubbediente, et sarrebbono secondo questa opinione tali à rispetto del Prencipe, quali sono le donne à rispetto del marito? grande inconuenienza; percioche il sommo della prudenza non si misura dal signoreggiare: ma dall’operare con maturità d’ingegno preuedendo, et procedendo. afferma il medesimo adducendo autorità di Tucidide, che la fama della Donna non deue uscire dalla propria casa. et io mossa dal parere di Gorgia Leontino, et di Plutarco dico che il grido dell’operationi donnesche, parlo in materia di scientie, et d’attioni virtuose, deue risonare non solo nella propria Città: ma in diuerse, et varie prouincie, et però Plutarco nel libro della dignità delle donne lasciò scritte queste parole. Io stimo eccellente, et ragioneuole legge quella de Romani, laquale consente, che si possino lodare con orationi publicamente fatte le donne buone da parenti loro in quel modo, che si lodano gli huomini, ilqual costume noi habbiamo imitato, quando poco fa dopo la morte della eccellente Donna Leonida habbiamo con lunghissimo ragionamento lodate le sue operationi, aggiungiamo à tutte queste cose, che Euripide pur huomo letterato, et singulare lasciò scritto che il lodar le virtù delle Donne è cosa da huomo sauio. intorno à quella sua nuoua distintione di femina, e di donna, nuoua dico, percioche il Boccaccio, il Petrarca, et altri hanno dato il nome di donne à qualunque creatura di questo sesso. non mi voglio faticare à distruggerla, et à vituperarla. P. 131 Opinione del Boccaccio, qui addotta et distrutta. Vituperò il Boccaccio etiandio il donnesco sesso piu tosto con parole sconcie, piene di inuidia, et di veleno, che di vere ragioni, ouero apparente: et percio molte cose egli suppone, che haurebbono bisogno di realissime pruoue. suppone adunque, che la Donna sia animale imperfetto appassionato da mille passioni spiaceuoli, et abbomineuoli à ricordarsene, non che à ragionarne. Che le donne conoscano d’esser nate serue et usando l’humiltà, et l’ubbedienza impetrano da mariti mille maniere di vestementi, et di ornamenti, et poi la signoria d’occupar s’ingegnano: onde sono come fameliche lupe venute ad occupar i patrimoni, e le ricchezze di mariti: Son, seguita dicendo, timide nelle cose, che possono apportar giouamento al marito: ma fortissimi animali in quelle cose, ch’elle vogliono dishonestamente adoperare. Che tutti i pensieri delle femine, tutto lo studio, tutte le opere à niuna altra cosa tirano se non à rubbare, à signoreggiare, ad ingannare gli huomini: da questo le femine malitiose, et gli indouini sono da lor visitate, et chiamate. che le Donne hanno meno d’humanità, che non hanno le Tigri, i Leoni, et i Serpenti: onde subitamente, quando adirate sono, corrono al fuoco, al veleno, et al ferro, et allhora sarebbe caro à ciascuna tutto il mondo, il Cielo, Dio, et ciò chi è di sopra, e di sotto uniuersalmente potere confondere, et guastare. oltre à cio sono auarissime con ogni maniera di genti e di persone; ma prodighe ne lisci, ne belletti: sono tutte mobili, vogliono, et disuogliono una medesima cosa ben mille volte in una hora. sono generalmente tutte presontuose, et à se medesime fanno credere, che ogni cosa à lor si conuegna, et che d’ogni honore, e d’ogni grandezza sien degne. Sono ritrose, et inubbedienti; percioche fanno le cose loro imposte quando à lor piace, anzi lo inritrosire è tanto lor proprio, che una pouera ardisce di sdegnarsi col piu ricco huomo del mondo. Fanno professione di scienza, e di dottrina; percioche una mattina sola, che vadino à messa sanno come si riuolga il firmamento, quante stelle sieno in Cielo: come il mare vadi et ritorni, sanno cio, che ci fa in India, P. 132 et in Spagua [Spagna], et cio che fecero non mai Troiani, Greci, e Romani, in conclusione non si fa cosa nella Citta che non ne sappino render conto. sono ostinate, percioche s’esse diranno di hauer veduto un Ansio volare, bisognera, che lor si conceda il tutto, se non le nimicitie mortali, le insidie, e gli Odii saranno di presente in campo. dopo che il mondo fù fatto infra tanta moltitudine del femineo sesso sone state diece donne solamente solennissime, et sauie trouate. sono tutte queste uniuersalmente golose, et voraci. aggiunge à tutte queste cose, che sono vane, Inuidiose, Sdegnose, et Laide, percioche se fossero vedute quando escono la mattina dal letto col viso verde, e giallo, mal tinto di colore di un fumo di pantano, et broccute, quali sono gli uccelli che mudano, e tutte cascanti stomacherebbono i riguardanti, specialmente se fossero vedute couare il fuoco su le calcagna con l’occhiata liuida, et tossire, e sputar farfallon: et sentissero col naso il fetore, et il lezzo caprino, ilquale spira da tutta la persona, quando da caldo, ò da fatica-è incitato. conclude in somma, che le donne sieno l’origine, et la primiera cagione di tutti quei vitii, che al mondo si ritrouano. [Lab. 37.] et soggiunge felici gli huomini se queste mai nate non fossero; anchor ch’esse credano con la lor prosuntione, che senza loro gli huomini nessuna cosa uagliano, ne viuer possano, et però sono noiose, et imperiose nel farsi seruire. Diremo adunque per distruggere la di costui falsa opinione, incominciando dal principio suo, che le Donne non sono animali imperfetti, ne meno appassionati da mille passioni, se non da quelle, che la perversa natura de maschi lor fanno tutto giorno sentire, et procurare. Non intende la Donna di esser nata serua; percioche colui, che nasce naturalmente seruo, non aspira alla signoria. ma se ne viue nella seruitù natia. Onde si può dire, che aspirando, si come egli dice al dominio, non serua ma signora sia nata, si come mostra il nome, che porta seco di Donna. io non uedo che le discrete, e benigne donne occupino i patrimoni de mariti; percioche portano seco nel uenire à perfettionar l’huomo tanta dote, che non solamente à se stesse fanno le spese conuenienti, ma anchora à mariti. et quanti ce ne sono, che per mezzo delle doti ritornano à propri honori, e se ne vanno caminando fra gli altri gonfi di superbia, che marcirebbono nelle prigioni dishonoratamente? oltre à cio non trouerete mai che la Donna dissipi la facultà dell’huomo, come il marito quello della P. 133 moglie: onde sono molte Donne, che non sono state in tutta la lor vita padrone di un danaio, gl’indouini hanno poco da loro, e che sia il vero, sono sempre mendici. Sono di natura piaceuoli, et misericordiose, et però lontani da loro se ne stanno i tradimenti, i ueleni, gli homicidi, e simili cose. che sieno tali ben ce lo dimostra Aristotile quantunque lor nimico, dicendo nel lib. 9 della storia de gli Animali. sunt foeminae moribus molliores mites sunt .n. celerius et magis misericordes sunt. non si puo secondo il mio parere chiamar le femine auare et cio per diuerse ragioni prima percioche l’huomo usurpa in giusa [guisa] tutto l’hauere ch’elle non possono disporre di alcuna cosa, anchor che minima; secondariamente è tanto l’amore, che portano al marito, et à figliuoli, che non ardiscono di consumare, ò di lasciare andare à male punto del patrimonio, et però à giusa di formiche, à cui è data per dote la prudenza con ansietà di moglie, e di madre continuamente accumulano. Et però disse Aristotile cio conoscendo nel lib. della cura famigliare. et foemina conseruat ea: non si troua la più ferma stabilità della sua certissimamente: cio si discopre in alleuare, in nutrire, et in ammaestrare gli impatienti maschi con tanta patienza, ch’è cosa di stupore: aggiungiamo, che è proprio dono del donnesco sesso la diligenza, la qual ricerca una ferma stabilità. dimostrò questo Aristotile dicendo nell’Economica al cap. 3. Mulier ad sedulitatem optima, et vir deterior. si dimostrano prontissime, et ubbidientissime ad un minimo cenno del padre, della madre, de fratelli, de mariti, cosa che non è negli huomini, essendo essi di natura più aspri, et più rozzi. Crede egli di biasmar le Donne dicendo. che se si trasferiscono ad una messa sappiano raccontare infinite cose tanto appartenenti al gouerno dello stato, quanto alla sottilità delle scientie, et io sicurissimamente penso, che queste cose argomentino sottigliezza d’intelletto, et profondità di memoria, e Dio volesse, che egli, ch’era stato à gli studi, e che faceua il gran maestro, hauesse saputo in quattro anni darne cosi minuto conto, come fa ogni minima Donniciuola in un quarto di hora. Infinito numero di questo sesso si è ritrouato, e si ritroua, che è stato dotato di nobilissime scienze. si come ho dimostrato con infiniti essempi. Le chiama oltre à cio Voraci, Ingorde, e Golose, cosa che ripugna alla continua sperienza, che si veggono parche nel cibo e moderatissime: attribusce à loro innumerabili vitii, come l’Inuidia, lo sdegno, la Maledicenza P. 134 et altri simiglianti, suppositione in tutto falsa; percioche sono uniuersalmente di più gentili, et ragioneuoli costumi, che non sono i maschi, come si legge nell’Ethica, et come egli medesimo dice nelle nouelle sue, non possono gli huomini viuer senza le donne, si come esse senza i maschi hanno retto, e gouernato non solo le cittadi, ma le prouincie intiere, questo fu fatto dalle Amazzoni. Ultimamente spinto dall’ira forsi ardisce di affermare, ch’elle sono Defformi, è [sic!] Brutte sporse, et fetenti. cosa strauagantissima, essendo la beltà proprio dono data à lei dalla natura, e da Dio, et però Xenofonte nella sua Economica lasciò scritte queste parole Deus uxorem pulcriorem condidit. cosa che già habbiamo dimostrato ne nostri primi capitoli, non è la più gran mondezza, e politezza in questo nostro mondo di quella, che si mira nelle Donne, essendo elle schife delle lordure, che fanno brutto il gratioso de’ corpi loro, et di tutte quelle cose, che spirano puzzolente odore, ma gli huomini, come creature piu rozze, et nate per seruire, meno adorni, et bene spesso lordi, et sporchi si uedono, come si potrebbe dire di alcuni, che hanno intorno al mostaccio, et intorno al collo piu untume, e soccidume, che non hanno le caldaie de cuochi, et spirano odori si spiaceuoli, che è di necessità alle circostanti Donne di turarsi il naso non nego però, che non si ritroui qualche donna poco monda, et che fuor di se mandi poco grato odore, si come era la donna amata dal cattiuello, che per l’età piegante alla vecchia haueua gli occhi priui di viuace splendore, era trauagliata da perpetua tosse, e da molti altri difetti propri dell’età senile. Femina in uero degna di lui. compose il Boccacio (che Dio habbia compassione all’anima sua) questo libro del Laberinto, come egli medesimo racconta, mosso da sdegno, e da una acerbissima aflittione, che lo indusse fino à desiderar la morte: le cui parole sono. [“]Et in tanta afflittione trascorsi hora della mia bestialità dolendomi, hora della crudeltà trascurata di colei, laqual piu assai, che la mia propria vita amaua, ch’io cominciai à chiamar la morte. [”] oltre à questo fu molto beffato da colei, che punto non l’amaua: onde egli spesso si duole, e si lamenta, ch’essendo letterato e pieno di dottrina fosse cosi schernito, e dileggiato. haueua torto à dolersi il pouerello, à dolersi che la vedoua da lui amata non l’amasse; percioche elle non era tenuta ad amarlo, come egli stesso dice nel principio del suo libro; non dicendo egli à lei, ragione, addotta da esso. I DIFETTI, ET MANCAMENTI DE GLI HUOMINI. DI LUCRETIA MARINELLA, PARTE SECONDA Gli Huomini senza alcuna proportione, come con ragioni, et essempi si pruoua, sono più vititosi delle Donne. P. 135 Hauendo io apertamente, con inuincibili ragioni, et essempi manifestata la nobiltà delle Donne, senza dubbio esser come per le comparationi si può vedere, à quella de gli huomini superiore; me ne passo a' difetti de' maschi, i quali vi prego di paragonar co' difetti donneschi discritti dal Passi, accioche in tutto, et per tutto restiate (ostinatelli) vinti, et superati. Parlo con coloro, che hanno poco sale in zucca, et che se ne vanno alla cieca. Credono tutti gli huomini dotti, et scientiati, che i maschi sieno più nobili delle femine, percioche di natura sono piu caldiò et s'ingannano di gran lunga, percioche l'anima opera certo col calore, il quale è di lei stromento, ma non già con ogni sorte di calore, ma con un dolce, et benigno, che non ecceda una certa mediocrità. Onde chi ardirà giamai di dire, che il calore del maschio sia medriocre, et atto à tutte le operationi dell'anima speculatiue, prattiche, et morali, già che la natura dell'huomo è calda, et secca, come dicono. Et la femina, come il più saggio, et famoso medico P. 136 dice, è calda, et humida per la copia, et per l'abbondanza del sangue. Che la complessione calda, et secca contenga un calore eccedente, et che trapassi la mediocrità, non accade, ch'io il pruoui, essendo cosa nota ad ogni uno, che il calore aggiunto con la siccità è grande, et trapassa la mediocrità: eccedendo adunque cagiona et produce infiniti vitiosi effetti, come appetiti piu ardenti, et voglie piu sfrenate, che non eccita il temperato calore. Questo si vede tutto giorno ne' giovani, i quali essendo di natura piu calda delle altre etadi, sono più desiderosi di novità, et più mobili de gli altri, che all'età più matura sono; et questo etiandio si conosce ne’ paesi, che sono caldi et infiamanti; è adunque la natura calda, et secca dannosa; portando allo’ntelletto desideri sensuali: onde egli spesso se ne resta vinto, et superato. Aggiungiamo, che rende gli huomini instabili et incostanti; perche, Calor exagitat molem, et come dice Chalcidio nel comento del Timeo di Platone. Mobilor anima ob calorem: ò che difetti sono quessi, che derivano da un tal calore da lor tanto lodato, et essaltato, gia che per sua cagione l'anima ragionevole è inchinata à piegarsi dal diritto sentiero delle virtù, et lasciarsi precipitar nelle dishonesti, et nelle concupiscenze, dalle quali ne nascono infiniti altri errori, et misfatti enormi. Cosa che non può accadere al sesso donnesco; essendo di natura calda et humida, nella quale si lasciano reggere i sensi della ragione, et però più temperate, più costanti, più ferme, più giuste et più prudenti sono le Donne de gli Huomini; et questo auiene, perche la ragione tiene il proprio seggio, cosa che non è nel maschio, si come con gli essempi noi dimostreremo; et infelice l'Huomo, se non hauesse per compagnia questo raro dono della Donna; percioche credo, che non si ritrouerebbe al mondo il più crudo, et il più horrendo mostro di lui, ne il più fiero, et dispietato Animale. Ma lodato sia Dio, la Donna lo raffrena, l'humilia, lo fa capace della ragione, et della vita ciuile. Onde conoscendo tutte queste cose il Signor Gugliemo si Salusto Signor di Bartas, nella sua diuina settimana, la quale è tradotta di lingua Francese in verso sciolto Italiano Da Ferrante Guisone dice. Deh quà volgete L'occhio subitamente, et l'alma, e'l core E de la donna la beltà mirate. P. 137 Senza cui mezzo è l'huom misero in terra, Et del sole in nemico, ascoso lupo Una seluaggia, e solitaria fera Frenetica, et paurosa, à cui piacere Altro, che'l dispiacer giamai non puote Nato à se sol di spirito, e di core D'amor, di fè, di sentimento priuo. Et questo è pur huomo, et non donna, che se stato fosse donna io direi, che essendo interessata non potesse vestir persona di giudice; stimando l'huomo una fiera frenetica, et paurosa. Io credo tutto quello, che dice questo Signore Francese, come quegli, che se ciò non fosse vero, non l'haurebbe detto, et ancho perche parla de gli huomini, et era huomo, et mi confermo in questo con le parole di Vertuno, quando rende ragione di se medesimo, le quali sono queste. Ma tu non quel, che dicon le persone Di me, ma quel ch'io stesso dico credi Ch'al ver non son tutte le lingue buone. Con ragioni adunque io credo di hauer manifestato, che gli Huomini sono piu vitiosi delle Donne. Ma non però nego, che non ci sieno donne di mala vita, et pessime; ma però à comparation de gli huomini ribaldi, et pessimi si possono chiamar ottime. Anzi io credo, che se noi accopiassimo insieme tutte le donne che furono, che sono et che saranno mai pessime, et cattiue, non si potrebbono in alcun modo agguagliare allo scelerato Nerone; che godeua del male altrui facendo abbruciare una gran parte di Roma; anzi delle quatordici parti ve ne restarono solamente quattro, et desideraua che tutta si ruinasse co' Cittadini, et in quel tempo, che Roma ardeua, egli sopra una alta torre cantaua allegramente ridendo. Spinto dall'auaritia ogni giorno faceua amazzare qualche ricco Cittadino per essere padrone delle sue facultà. Desideraua di vedere il mondo ruinato avanti la sua morte. Uccise sua Madre, et ammazzò Poppea sua moglie con un calcio, laquale era ancho grauida per leggerissime cagioni. Era sfrenato, et incontinente; spesso si ubbriacaua, et se ne staua le notti, et i giorni intieri giucando, et P. 138 cantando ne conuiti. Fece leuar la vita à Seneca, et à Plauto, et à molti altri; perche erano persone virtuose, et da bene, si dilettaua di Comedie, di buffoni, et de' mangiatori, et tutto che fosse auarissimo, era ancho prodigo, et oltre à tutte queste cose dispreggiaua i Dei. Era vitioso, et vanaglorioso. Che vi pare di questo huomaccino da bene. Credete, che tutte le donne insieme hauessero tutti questi difetti? Io non lo crederei, e pur sono tutti veri, come scriue Suetonio, Eusebiom Isidoro, et Orosio. Io potrei addure altri essempi, come d'Alcibiade ladro in solente, ambitioso, imprudente, et dato à tutte le dishonestà, ingiusto, et in somma d'ogni vitio albergo, come dice Plutarco, ilquale racconta, che Alcibiade andaua gittando per le strade, oue passaua molti denari, accioche le genti stessero intente à raccogliere, et non dicessero mal da lui. Pensate se douea dar loro cagione di vituperarlo; li quali essempi per lo piu saranno ò de Principi ò di sapienti; percioche da queste due maniere di persone vien gouernato il mondo, dando le leggi, et ritti a gli altri, et però da' costumi di questi si può concludere i difetti di tutti gli huomini. De gli huomini auari, et desiderosi di denari. Capitolo Primo. [Auaritia che cosa sia, & quai difetti produca.] Essendo l'Auaritia origine, et fonte d'ogni impietà, et sceleraggine; percioche ella rende l'huomo per la cupidità dell'hauer bugiardo, homicidia, ingrato spergiuro, tiranno, assassino, infedele, inuidio, ingiusto, et finalmente d'ogni vitio fede, et albergo. M'ha paruto cosa ragioneuole l'incominciar da questo vitio, ò difetto; Vitio, come lasciò scritto Aristotile nel libro terzo del'Ethica, danoso non solamente à gli altri, ma allo stesso avaro. Onde disse quel dotto poeta. In nullum auarus bonus in se pessimus. E se pur'è mai buono, egli è dopo la morte, come ben lasciò scritto il Trissino dicendo. P. 139 E l'auaritia ogni virtute adombra Che l'huomo auaro non suol far piacere A le persone mai se non morendo. Horsù discendiamo à gli essempi. Il primo sarà Caton maggiore, che faceva comperare i fanciulli, e dopo l'anno li riuendeua à maggior prezzo; et volendo persuadere un suo figliuolo, che s'ingenasse ancora egli à guadagnare in questo modo, disse, che non era cosa da huomo, ma da donna vedoua il lasciar scemar le sue facultà: et oltre à questo fece una usura marinaresca molto biasmata. Sprezzaua le cose della villa; percioche stimaua che fossero solamente diletteuoli, et non utili; voleva che le sue facultà fossero poste in luogo sicuro, proccacìua paludi, laghi, bagni, et luoghi accomodati al purgo delli panni. Possessioni, che facilmente fossero lauorate da contadini, boschi, pascoli, dequali ne potesse cauar gran quantità d'oro. Etiandio compraua servi giouani, gagliardi, non belli e delicati, ma rozzi, perche riuscissero buoni lauoratori di villa. Poi quando erano vecchi, li faceua vendere per non li dare il solito Alimento. Onde dice Plutarco, scriuendo la vita di lui, io non vendrei mai un bue vecchio, che fosse stato compagno della fatica rusticale, non che io mi mettessi à vendere uno huomo vecchio, per farne poi pochissimo guadagno, gia al compratore, et al venditore inutile dal luogo donde fu nudrito, et dal mondo del viuere, come dalla patria sbandito. Non cede punto à costui Caligula, che trouo, modo di rubar gli huomini, et ancho il mondo tutto. Ne si poteua imaginar via alcuna, che compitamente li piacesse da poter tirar denari col mezzo delle gabelle, et delle grauezze. Intorno a'litigi, che occoreuano, voleua la quarta parte di tutte quelle liti che si patteggiaua: et se i litiganti delle lor differenze si componevano insieme, prima che si facesse la sentenza, voleua una certa portione, cosi di tutti i mestieri, e facende de gli huomini voleua che à lui fosse dato una parte dell'utile; Ponendo fra costoro ogni vil huomo, fino quelli, che portauano pesi; in guisa tal che hauendo ragunato gran quantità di denari, si riuoltaua, et passeggiaua sopra quelli, godendo di quell'oro et argento, che hauea, si può dir rubato senza fatica dalle fatiche altrui. Si legge etiandio nell'Historie, che Tiberio era tanto inclinato à l'auaritia, che accrescendo i P. 140 tributi. Le Cittadi non potendo tolerarli si distruggeuano, et andauano in ruina, et Tolomeo Re di Cipro volle morire co' denari appresso, tanto n'era sempre auido. Quinto Cassio per denari non faceua giustitia. Comodo Imperatore la vendeua, et per ingordigia di denari perdonaua ad ogn'uno. Vespasiano Imperatore teneua nelle Prouincie huomini rapaci, i quali chiamaua sponghe: perche succhiauano con mille loro inuentioni il sangue a' miseri cittadini; ma udite strana, et insolita auaritia di Costante Imperator terzo che sforzaua i sudditi à vendere i propri figliuoli per trouar denari. ancho un grande auaro fù Ridolpho Imperatore. Appolonio Tineo dice, che Platone fù auaro, et che per questo seguì Dionisio fino in Cicilia. Ma che diremo di Vittelio Imperatore? Ilquale fù cosi auaro, che non solo voleua la roba: ma uccideua ancho le persone, come fece un caualiere, ilquale diceua, che hauea lasciato herede la sua facultà Vitellio Imperatore, egli come questo intese fece trovare il testamento, et trouò, che il caualiere lasciaua herede ancho uno suo Liberto, senza altra cagione, per diuorar tutta la facultà, fece uccidere il caualiere, et il Liberto, et cosi rimase solo del tutto herede. Si legge che Marco Crasso ricchissimo fra Romani, come dice Cicerone nell'ultimo paradosso fatto contra di lui, essendo, mandato contra Parthi mostrò gran segno d'auaritia, laqual cosa sapendo gli astuti nimici. Fingendo paura fuggirono, lasciando il paese abbondantissimo d'ogni sorte di preda, ma pieno d'aguati, egli per la cupidità di predare corse, et incorse incautamente nelle celate insidie; onde essendo circondato da tutte le parti, perdè tutto l'essercito con grande infamia et dishonore. Perciò arrabbiato contra la sua auaritia si fece da un seruo uccidere. Dopo gli fù tagliata la testa et posta un un utre d'oro strutto, et dettogli. Aurum sitisti, aurum bibe. Et per tale ignominioso vitio si oscurò ongi opera prima virtuosamente operata da lui. Però dice il Petrarca; E vidi Ciro più di sangue auaro Che Crasso d'oro, e l'uno, e l'altro n'hebbe Tanto à la fin ch'à ciascun parue amaro: Et Dante dice à Crasso. Dici che sai di che sapor'è l'oro? P. 141 Narra Plutarco, che Demostene fece bottega dell'arte oratoria pigliando denari, et scriuendo l'accuse a Formione, et Appollo doro auuersari, et fù condannato di furto. Et spesso spesso haueua in uso di dire. O Ciues ò Ciues querenda pecunia prius Virtus post nummos Scrive Ouidio, che Mida Re di Frigia fù tanto auaro, che volle impretar gratia da Bacco, che ciascuna cosa ch'egli toccasse si conuertisse in oro, et diceua à Bacco: ----------- effice quidquid. Corpore contigero fuluum vertatur in aurum O che contento, ò che allegrezza inaudita. Vixque sibi eredens, non alta fronde virentem Ilice detraxit virgam: virga aurea facta est. Tollit humo saxum: saxum quoque palluit auro. Contigit et glebam: contactu gleba potenti Massa fit. arentes Cereris decerpisit aristas Aurea Messis erat. demptum tenet arbore pomum Hesperi das donasse putes si postibus altis Admouit digito, postes radiare videntur. Ille etiam liquidis palmas ubi laureat undis Unda fluens palmis Danaen eludere possit. Vix spes ipse suas animo capit aurea fingens Omnia Et piu fotto quando le viuande si conuertiuano in oro, et che mescolò l'acqua col vino, il qual tocco dalla bocca si trasmutò in oro. Effugere optat opes, et quae modo nouerat odit, Copia nulla famen reuelat, sitis arida guttur Urit, et inuiso meritò torquetur ab auro. O quanti huomini sono nel tempo presente, iquali P. 142 sopporterebbono di cambiarsi per auidità dell'oro in una statua d'oro; però questi auaroni vengono assomigliati à Tantalo figliuolo di Gioue; che da Poeti è posto nell'inferno; perche lo scelerato diede Pelope suo figliuolo in un conuito à mangiare alli Dei, et è oppresso da fame, et da sete ha le acque limpidissime come christallo infino al labro di sotto, et dolcissimi pomi, de gli arbori, et altri varii frutti pendono si che giungono al labro di sopra; Ma piegandosi fuggono l'acque, alzandosi fuggono i pomi, laqual cosa interuiene all'auaro, ilquale benche sia in grandissima abodanza, non si caua mai la fame, et la sete d'oro. Onde si può à ragione esclamar con l'Ariosto, e dire. O essecrabile auaritia, ò ingorda Fame d'hauere, io non mi meraviglio Ch'ad alma vile, e d'altre macchie lorda Si facilmente dar possi di piglio: Ma che meni legato in una corda, E che tu impiaghi del medesimo artiglio Alcun che per altezza era d'ingegno Se te schiuar potea d'ogni honor degno. Et più sotto. Altri d'altre arti, e d'altri studi industri, Oscuri fai, che sarien chiari, e illustri. Ma che diremo noi di Pigmalion auarissimo, et crudelissimo Tiranno, ilquale senza hauer rispetto alla parentela cosi empiamente uccise il marito della sorella Didone, come si legge nel libro primo dell'Eneide. Ille Sicheum Impius ante aras, atque auri cecus amore Clam ferro incautum superat securus amorem. Ne voglio lasciar Polimnestore, ilquale di auaritia non si lasciò porre il piede inanzi alcuno, à cui l'infelice Re Priamo hauea dato il caro Polidoro à nutrire con gran somma d'oro, et l'iniquo huomo spinto da questo enorme vitio uccise il misero Polidoro, il P. 143 quale chiamaua in testimonio huomini, et Dei, con tanti strali, che lo coperse, et però Virgilio fa che dica ad Enea. Heu fuge crudeles terras, fuge litus auarum Nam Polidorus ego: hic confixum ferrea texit Telorum seges iaculis increuit acutis. Et anco Euripide nella tragedia nomata Ecuba fa dire à Polidoro, come per auuidità dell'oro, il buon Rè lo uccidesse, con tai parole. Mox me paternus amicus auri gratia Miserum trucidat, ac trucidatum salo Exponit, aurum ut ipse possideat sibi. Fù nella Città d'Arezzo di Toscana un gentil'huomo dell'antica famiglia de Vespucci, assai commodo de' beni della fortuna, hauendo due mila scudi l'anno di entrata; ma oltre à modo auarissimo: percioche datosi ad accumolar denari andaua sempre fra se stesso pensando qualche nouo modo, co'l quale potesse accrescere le sue ricchezze. Onde primieramente cominciò à scemar le proprie spese: et hauendo una casa assai buona, et grande la diede ad affitto, et egli si ritirò in una casetta vicina alla stufa di un fornaio: accioche in un medesimo tempo li fosse casa, et fuoco, fuggiua le serue, et i serui, più che non si fa il veleno; dicendo che la natura il hauea dato due mani, accioche lo seruissero, et che era un huomo ben da poco colui, che non si sapea riffare il letto, scoparsi la casa, et cucinarsi il vitto. Un paio di scarpe vecchie gli durauano un'anno. Haueua una berretta, che fù di suo auo ritinta delle volte ben venti. Portaua i capelli lunghi, affermando, che gli huomini nell'età dell'oro non si tosauano due volte in sua vita per conseruarsi sani. Cuciva così bene, come un buon sartore. Beveva chiare volte vino, et bene ad acquato; percioche non voleua contentar la gola. Mangiaua pane il più nero di Arezzo, et di mezza farina, dicendo che si rouinauano gli stomachi co' cibi tropo delicati. Carne egli non mangiaua se non un poco di testa di pecora il dì di Pascua. Mentre caminaua per la Città sempre guardaua in terra per ritrouar qualche cosa buona per lui, et diceua, che era peccato lasciare andare à male alcuna cosa. Biasimaua l'otio, affermando che era peccato non P. 144 de sette mortali, ma nello Spirito santo. Onde egli continuamente ò cuciua guanti, ò faceua bottoni. Stupiua fra se stesso, come alcuni huomini spendessero quattro scudi in un paio di fagiani, et li hauea per huomini di poco intelletto: andaua à dormire à hore ventiquattro; dicendo che era gran sanità, et la mattina nell'uscire del Sole leuaua di letto. Non portaua camiscia, ma solamente alcuni collari di tela assai grossa. Vestiuasi di pelli di camozza, lequali si conseruano gli anni non punto unte; non toccando egli cosa alcuna, che bruttar le potesse. Andaua spesso à difinar con questo, et con quello gentilhuomo, lasciando uscire di bocca, che teneua più conto di un'amico, che di un parente, et che co'l tempo lo vederebbono, et cosi credendo, che lor volesse lasciar heredi; lo inuitauano spesso, et egli allegro accettaua lo'nuito; percioche un desinare li scusaua per tre pasti, stando la sera inanzi senza cena, et ancho la sera del giorno, che hauea mangiato co' suoi amici. Daua ad usura cinquanta per cento co'l pegno in mano. Spesso chiamaua la natura mancheuole; percioche hauea fatto l'huomo igniudo, et goloso, non mangiando, come fanno gli altri animali herbe. Non haurebbe fatto una limosina, ancorche fosse stato sicuro di dar la vita à tre persone con un quattrino, dicendo che si nutriuano poltroni, et ladri: riputaua superflue le cose, che ornano la casa, però non haueua altro, che uno stramazzo senza lenzuola. Nel freddo si intrateneua dal sopradetto fornaio, et in segno di gratitudine mouea con un piede la culla, oue era un bambino del fornaio, hauendo sempre occupate le mani; et diceua gran male di certi superboni, che sdegnano la pratica de galant'huomini. Se voleua pigliare alcuna ricreatione, cosa che rade volte accadeua, caricauasi di varie cosette buone per gli huomini di villa, et se ne andaua à buon passo ad un suo podere lontano d'Arezzo delle miglia ben dieci, et poi la sera ricreandosi nel vendere quelle bagaglie se ne ritornaua à casa. Affitaua i suoi luoghi di villa à denari contati intanti il tempo un'anno. Hauendo accumulato gran quantità di denari non si partiua più di casa in alcun tempo dell'anno: dubitando che non li fossero furati. Venuto il tempo dell'morire s'infermò di una passione di stomaco acerbissima, et essendo andato un suo amico à visitarlo li disse. Signor Cosmo, voi pagheresti ben dua mila scudi, et essere sano: vorrei hauere altro tanto male, soggiunse l'auarone, et P. 145 hauerne cento appresso questi, ch'io ho. Disse l'amico voi morireste, et egli, che importerebbe à me, più tosto desidero esser ricco morto, che viuo povero. In questo tempo mangiaua qualche ovo, et un poco di pane grattato con l'oglio: vittelo mai non volle comperare: la notte poco dormiva, hauendo il cuore a' denari, sopra quali giaceua. Auicinandosi l'hora della morte chiamò un notaio et fece testamento, che voleua esser sepulto co' denari. Onde i parenti, i quali mai non si approssimauano à casa sua li mandarono un Padre di San Francesco, accioche si confessasse, et gli uscisse del capo questo suo desiderio. Il Padre fece l'ufficio suo, ma indarno; percioche adirato disse, à Dio buon compagne. Ma essendo poi venuto alla cosa di lasciar i denari, più non li volle parlare, ne volle in modo alcuno più confessarsi. Dicendo finalmente, che i denari non si acquistauano con fatica per lasciarli dietro di se, et cosi con le mani al sacco, et gli occhi verso loro morì dicendo. Ò quanto ho speso misero me in questa malatia. Ma certo Nabide Tiranno vinse questo auarissimo huomo; perche egli non rubbaua, ne toglieua per forza, come faceua questo tiranno, ilquale le spogliò tutti gli huomini sudditi delle lor ricchezze, et denari. Sforzò la moglie ad andare in Argo, et fece, che mettesse in essecutione una astutia che le insegnò, et è questa, ch'ella inuitasse le più nobili, et ricche donne di Argo, et poi con lusinghe, et con minaccie togliesse gli ornamenti loro, et le vesti pretiose, et ella il fece per comandamento dello scelerato huomo. Et un grande auarone fù Don Robles Spagnuolo, ilquale essendo al gouerno d'Utrec con molte rapine, come dice Mambrino Roseo, accumulò molti denari. Achille come è noto à ciascuno era tanto auaro, che vendè il corpo morto di Hettore. Si può sentire la piu scelerata auaritia? Onde Virgilio dice. Exanimumque; auro corpus vendebat Achilles. Auarissimo entiandio fù Barnaba, che scorticaua i popoli del suo Stato per accumolar denari, come scriue Mons. Paolo Giovio. Et il Tarcagnota mostra nelle sue Historie del mondo, che auarissimo fù uno capitano de caualli Traci, ilquale nella ruina di Thebe entrò in casa per forza di Timoclia sorella di Teagebe nobilissimo Thebano, et dopo che l'hebbe violata, la cominciò à tentare parte con P. 146 minaccie, parte con piaceuolezze, doue hauesse l'oro, et l'argento ascoso, et ella, che prudente era, rispose, che poi che la sua fortuna le hauea lui dato per Signore, et difensore, non voleua celarli, come hauea in un pozzo senza acqua molti vasi d'oro, et argento, et molte vesti pretiose; egli come udì questo di allegrezza non sapeua che si facesse, et subito fattosi mostrare il luogo, benche di notte fusse, discese lentamente nel pozzo in giubbone, et ella, come al fondo giunto il vide, tirandoli molti sassi l'uccise, et cosi riceuette il premio della sua auaritia. Auarissimi furono i Corintii, i quali olsero nella lor naue Arione musico eccellentissimo; et accorgendosi gli scelerati, che egli haueua molti denari seco, lo voleuano gettare in mare, per restarne padroni. Il musico, come questo intese tentaua con l'oro che seco hauea, et con preghi, di comprar la vita. Ma il tutto fù vano, solamente ottenne con molti preghi di poter cantare, et suonare con la sua citera, ornato delle sue pretiose gioie, et fu la prua cantò si dolcemente, che gli humidi pesci ne presero diletto, et poi si gettò in mare, un delphino portollo à saluamento nell'Isola di Tenaro, et egli andò à Corintho al Re Periandro, ilquale diede il meritato castigo à quelli auari marinari. Vespasiano, come referisce il Tarcagnota, et Suetonio, fu molto auaro, et per accumular denari accrebbe i dazii, et ne mise de' nuoui, raddoppiò alle prouincie i tributi, et in quelle teneua huomini auarissimi, i quali chiamaua Spongie, perche succhiauano con mile loro inuentioni il sangue a'miseri Cittadini. Et era tanto dominato da questo vitio, che vendeua gli honori della Città, l'assolutione de gli incarcerati; ò giusta, ò ingiusta cosa che fosse. Ma udite cosa in vero degna di riso. Venne la sua auaritia à segno tale, che fino sopra l'orina pose il datio. Onde essendo ripreso dal figliuolo Tito il primo argento, che cauò di cosi ignominiosa grauezza, l'appressò al naso del figliuolo, et domandollo su puzza alcuna ne sentiua. Tito rispose di nò, et pur questo di orina viene disse. Vespasiano. Questo datio si chiamaua Crisargiro, il quale fù fatto di tal forte, come dice Giorgio Cedreno. Il Crisargiro fù pagamento tale, che ciascuno ricco, pouero, mendico, vecchio, giouine seruo et parimente fatto libero recasse al tesoro per l'orina una certa quantità di denari; et del bestiame si faceua il simile, et etiandio gli huomini, che habitauano nelle Ville erano costretti di portare denari al tesoro. Gli huomini, et le donne pagauano una moneta P. 147 d’argento, il cauallo, il bue, et il mulo altrotanto, ma l'Asino, et il cane sei folle, et l'istesso racconta Costantino Manassè dicendo, Anastasio Imperatore sospese il Crisargiro, il quale era, che ogni femina, huomo, fanciullo, seruo, et libero pagasse una moneta d'argento per l'orina, et lo stesso i muli, i Caualli, et l'altro bestiame. Questo datio fù principato da Vespasiano, et finì al tempo di Anastasio, che vergognandosi lo leuò via. Da questo si può considerare quanto liberale, et magnifico fosse Vespasiano, il quale anchor che raccogliesse infinita quantità d'oro, et d'argento per li infiniti datii, nondimeno sempre n'era sitibondo: onde si può dire che in questi tali Crescit amor Nummi, quantum ipsa pecunia crescit. Et conoscetelo da questo. Intendendo questo Principe auarissimo da alcuni ambasciatori che la lor Città voleua alzarli una statua con grande spesa in suo honore, egli subito stendendo la mano come per riceuere l'argento, che haueuano à spendere disse. Ecco qui la base, non la dirizzate altroue. Scriue Emilio Probo, che Miltiade fù avarissimo lasciando egli diprendere l'Isola di Paro; perche era stato corrotto con doni dal Re dell'istesso luoco et queste sono le sue parole. Accusatus ergo proditionis, quodcum Parum expugnare posset à rege correptus infestis rebus à pugna discessisset. Non cede à costui come si legge nel suddetto scrittore, Lisandro, il quale essendo stato auarissimo verso il suo essercito, et verso altre persone, et dubitando che una cotal nuolla non venisse alle orecchie de suoi Cittadini, pregò Farnabazo, che scriuesse un libretto, nel quale mostrasse con quanta pietà, sanità, et liberalità si portò col suo essercito. Farnabazo, che era huomo accorto, et nemico de gli auari, fece due libri di una medesima grandezza, co medesimi ornamenti, et sigilli, in uno alzaua fino al Cielo le opre di Lisandro, et à lui lo mostrò. Ma nella sua partenza li diede l'altro, nel quale con diligenza raccontaua la sua perfidia, et auaritia. Il povero auarone giunto alla Patria presentò il libro in sua lode, il quale oltre modo l'accusava, pensate voi, come rimanesse questo galanthuomo vedendosi si schernito dall'amico. Non voglio che rimagna à dietro Pertinace Imperatore Romano, di cui scriue il Tarcagnota dicendo fù molto auaro, et misero nella vita privata, laquale illiberalità essendo Imperatore ne suoi conuiti mostrò. Era sempre largo nelle parole, ma nell'opere molto scarso. Scriue il sopra citato autore che Domitiano era tanto auido di ricchezze, che usaua ogni P. 148 malitia, et ogni fraude per hauerne, et per ogni leggerissima causa confiscaua, et rapiua i beni altrui. Cosa vergognosa certamente, che gli huomini habbiano si cupa fame, et si accesa sete di oro. Onde sono simili al fuoco, à cui quanto maggior nutrimento porgi, tanto piu auido di nuou'esca diuiene: Raccotando il Giouio il sacco di Roma fatto da francesi dice, che ogn'uno con infatiabile crudeltà usaua ogni sorte di tormenti ne i nobilissimi corpi de Cittadini per ingordigia d'oro; ancora che hauessero havuto grandissima quantità d'oro, et d'altre cose di valuta: nondimeno hebbero ardire di trarre fuori dalla sepoltura Papa Giulio molto tempo morto, per torli un anello. Ma udite quel che narra Appiano Alessandrino. Quando i Trumuiri haueuano condannato à morte molti Cittadini Romani, et haueuano promesso premio à chi li uccideua, molti per guadagnare si mescolorno fra soldati, andauano alla caccia d'huomini, come si fa di fiere. Questi sono gli essempi de gli huomini auari, che gia furono Illustri, et famosi, percioche s'io narrar gli volessi tutti, che di tal nattura sono, poco spatio di tempo sarebbe un'anno intiero. Bene è vero, che hanno sempre con esso loro un continuo dolore. Cedano adunque gli huomini innumerabili di tal vitio macchiati à due, od à quattro Donne poste per essempio d'auaritia da Giuseppe Passi, ilqual merita gran lode; perche io credo,che si habia affaticato molto in ritrouarle. De gli Huomini. P. 149 De gli Inuidiosi. Cap. II. [Inuidia che cosa sia.] E di tanti mali, et inconuenienti cagione la maledetta, et rabbiosa inuidia, che si può con ragione concederle il primo luogo dopo l'auaritia, come vitio, che precede à tutti gli altri seguenti; et colui, che inuidia ò ricchezze, ò dignità d'altrui, non si può dire, se non che habbia un'animo scelerato, et iniquo; percioche non è altro l'inuidia, che uno interno dolore, ò dispiacere delle prosperità altrui; cosi la descriue Speusippo Platonico nelle diffinitioni di Plat. dicendo. Inuidia est tristitia ex amicorù bonis siue presentibus, siue futuris, vitio certo di un'animo cattiuo. Ma non è tanto il danno, che bene spesso suole à gli altri apportare, quanto ne sente, et proua lo stesso inuidioso. Onde lasciò scritro Oratio nel libro primo delle Epistole, che i Tiranni di Cicilia non trouauano il maggior tormento dell'inuidia, et dice. Inuidus alterius rebus maci essit opimis. Inuidia ficuli nòn inuenere Tiranni Maius tormentum. Et in vero l'inuidia distrugge l'inuidioso istesso, anchor che goda dell'altrui male. Onde Annibal Caro ne' suoi sonetti, cosi la descrisse. Vibra pur la tua sferza, e mordi il freno Rabbiosa Inuidia, habita ò speco, ò bosco. Pasciti d'Idre, e mira bieco, e losco, E fa d'altrui tempesta à te sereno: Et i' Sannazaro volendo mostrare, che l'Inuidia è una peste che consuma se medesima dice: P. 150 L'invidia figliuol mio se stessa macera, E si dilegua come agnel per fascino, Che non le gioua ombra di pino, ò d'acera. Con miglior modo la manifestò Ouidio nelle Metamorphosi ma per concluderla io porterò qui i versi d'uno Epigramma attribuito à Virgilio, nel qual si scuopre una perfettissima descrittione dell'Inuidia, et èquesto. Liuor tabisium malis venenum Intactis vorat ossibus medullas, Et totum bibit artubus cruorem, Quo quisque furit, inuidetque sorti, Ut debet, sibi paena semper ipse est. Testatur gemitu graueis dolores. Suspirat, gemit, incutitque denteis, Effudit mala lingua virus atrum Pallor terribilis genas colorat. Infelix macies remudat ossa Non lux, non cibus est suauis illi. Nec potus iuuat, nec sapor Liei: Viuit pectore sub bolente vulunus, Quod chironia nec manus leuarit. Nec Phaebus sobolesue clara Phaebi. Et è tanto potente l'Inuidia ne' cuori de gli huomini, che molti volendo inuitare i Regi, et i principi à nuoue discordie, et guerre pongono dinanzi à gli occhi loro i titoli illustri, l'antichità del regnare, i trionfi, la grandezza de gli stati altrui, et l'ubbidienza de feudatari, dalle quali cose stimulati prendono bene spesse volte l'armi contro ad ogni ragione, etdi questo ne fa fede il Guicciardini, et Monsignor Giouio et tralascio per hora gli Historici antichi: Di questo potentissimo mezzo finge l'Ariosto, che se ne seruisse Alcina nella persona di Gano, il quale conoscendo la potenza, et i danni, che sempre guida seco questa peste de gli animi, fa che Alcina honorasse con queste parole l'Inuidia. P. 151 O de gli Imperatori Imperatrice, (Cominciò Alcina) ò de li Re Regina. O de' Principi inuit ti domitrice, O de' Persi, e Macedoni ruina, O del Romano, e Greco orgoglio ultrice, O gloria, à cui null'altra s'auuicina, Ne mai sarà per appreffarsi s'anco. Il fasto leui à l'alto imperio franco. Fra gli huomini celebri, che da questa signoreggiati furono, anchor ch'o creda che molti fossero, et siano da tal vitio infetti; latè enim patet hoc vitium, et est in multis inuidere, scilicet: Come scriue Cicerone ad Appio Pulchro: Voglio dare il primo seggio à Caligula Imp. accioche egli non inuidiasse alcun'altro, che à lui proponessi: era tanta l'inuidia, che egli portaua à gli huomeni, che si distruggeua dolendosi, ch'essi hauessero statue, et honorate memorie de' loro antichi. Però ne fece spezzar molte, et gettare à terra. Oltre à questo procurò con ogni suo potere, che si estinguessero i gloriosi poemi di Virg. e d'Homero. Diceua, che Virg. era stato un huomo di poco ingegno, Tito Liuio un parabolano, Seneca, ch'in quel tempo era in grandissima stima, arena senza calce leuò l'insegne, et gli adornamenti à molti illustri gentilhuomini Rom. ch'erano segni delle loro antiche nobiltà. S'abbassò ancora la sua inuidia à cose più leggieri; percio che non v'era persona di cosi vile conditione, à cui non inuidiasse alcuna cosa, et faceua infino tosar gli huomini, i quali vedeua, c'hauessero belle, e lunghe zazzere, et faceua macchiare il volto ad alcuno, ch'à lui pareua bellissimo. Io non mi ricordo mai hauer letto, ch'in una donna fosse tanta inuidia, e tanta rabbia de gli honori, et delle bellezze altrui, com'io leggo di quest' huomo. Non merita d'esser lasciato à dietro Cesare, che leggendo l'imprese d'Alessandro, piangendo si doleua, vedendo che le sue non erano eguali à quelle del Macedonico. Mi souiene di Marco Crasso, ch'era sempre punto dalla venenosa sferza dell'inuidia per gli honori di Giulio Cesare, et di Pompeo. Fù anco stimulato grandemente da costei Isaccio Com meno, come narra Niceta Alhominato da Chone, c'hauendo tolto l'Imperio al crudele Andronico, per inuidia ruinò superbissime fabriche, et P. 152 un'alta Torre, et altre bellissime habitationi vicine ad una fontana, le quali cose Andronico con grandissime spese hauea inalzate, et per ornamento della città fatte, nelle quali si vedea essere ornamento, utilità, et piaceri. Mi souiene d'Alessandro figliuolo di Filippo, ch'era inuidiosissimo della gloria d'Achile. Però dice il Petrarca. Giunto Alessandro à la famosa tomba. Del fiero Achille, sospirando disse; O fortunato, che si chiara tromba Hauesti, che di te si altro scrisse. Et Carneade fù tanto inuidiato, che nulla più, fiorì nel tempo di Catone, come scriue Valerio Massimo, pose lo suo studio in accordar le differentie, et varie sette de' Filosofanti. Peripatetici, Epicurei, et Stoici; ma non lo pote far, come dice il Petrarca per, l'inuidia altrui. La lunga vita, e la sua larga vena D'ingegno pose in accordar le parti, Che'l furror letterato à guerra mena, Ne'l poteo far, che come crebber l'arti Crebbe l'inuidia, e col sapere insieme Ne i cori enfiati i sui veneni sparti Fù un famoso inuidio Tito Flaminio, come dice Plutarco, che tutto giorno si rodeua fra se stesso di dolore per gli honori di Filipomene. Ne voglio tacere di Temistocle, che molte notti non dormiua; perche i trofei di Milciade lo teneuano desto. Ne d'Aristotile, che inuidiaua la gloria di Theodetto. Ne di Cato Uticense, che udendo le vittorie di Giulio Cesare s'ammazzò, et fece bene, che facendo cosi mostrò quello, che merita uno inuidio, ilquale cerca di uccidere la fama, et la gloria altrui. Asinio Pollione haueua tanta inuidia à Cicerone, che fuggiua udendolo nominare. Doue lascio Adriano? Che indiuiduo tanto il buono Imperator Traiano, che i ponti fatti con gran spesa fece gettare a terra, et ruinare: accioche si estinguesse il suo nome come narra Plutarco. Scipione African P. 153 fù etiandio molto inuidiato da i Tribuni, e da principali della Città di Roma, et egli conoscendo la loro inuidia se ne andò a Linterno villa à fare il rimanente della sua vita: et Tito Liuio, come narra il Petrarca, era inuidioso verso Chrispo Salustio, onde dice. Crispo Salustio è seco, à mano à mano Uno che gli hebbe inuidia, e vide il torto Ciò è il buon Tito Liuio Padoano. Torquato Tasso dice nel suo Poema, veramente degno d'ogni lode, che Gernando era pieno di questo mostro diabolico per la virtù di Rinaldo. Tal che'l malingo spirito d'Auerno. Che in lui strada sì larga aprir si vede Tacito in sen li serpe, et al gouerno De suoi pensieri lusingando siede. Che dirò di Senofonte? Che impugnò i libri della Republica di Platone per inuidia: che di Gano? Che cercaua per inuidia di distruggere la potenza di Carlo Magno, come dice l' Ariosto, ilquale scoprendo ad Alcina il petto colmo d'odio, e di rabbia verso il Re Carlo dice. Ma se piu tosto odiate, chi li è amico E di sua volontà vuol seguitarlo, Mè non haurete in odio, ch'io non l'amo, Ma il danno, e'l biasmo suo piu di voi bramo. Et da questo si può comprendere di qual'astio, et di qual veneno hanno pieno il cuore questi inuidiosi, che odiano, et opprimono le virtù, onde però il Petrarca, esclamando dice. O inuidia nemica di virtute. P. 154 I difetti, et i mancamenti De gli incontinenti, cioè Golosi, Ubbriachi, et Sfrentati. Cap. III [Incontinenza che cosa sia.] ANNOUERANO gli antichi, et i morali Filosofi tra i più graui, et segnalati vitii la laida incontinenza; percioche offuscando la ragione i diletti de sensi vengono in un certo modo à priuar l'huomo del suo proprio essere; che ella turbi la ragione per lo mezzo del diletto sensuale, lasciò scritto Speusippo dicendo Incontinentia est affectio trahens ad ea, quae iucunda videntur, praeter rectae rationis iudicium. Le quali cose benissimo conobbe Ariost. nel libro 2. delle grandi Morali al cap. 7. et nel 3. delle Morali à Nicomacho dicendo. Incontinens est, quihonestorum tenet scientiam; sed eam non exercet, imo indulget corporis voluptatibus, quae vituperandae sunt, et circa has magis, quam par sit verlatur. Se adunque l'incontinenza è tale, ch'ella offuschi la ragione dominando i sensi del gusto, et del tatto, come dice Aristotile chi dubiterà, ch'ella non guidi gli huomini in mille errori, et inconuenienze? Et però da questa nascono furti, rapine, homicidii, tradimenti, et bugie, et rende l'huomo, come dice Aristo. imprudente, et lo dimostra con queste parole, Prudentem verrò incontinentem esse non contigit. Et di questo non è merauiglia; percioche antipone a' diletti tutte l'altre attioni, anchor che nobili, et laudabili et si duole, e lamenta, incontinente quando ch'egli non ottiene il bramato fine, come si legge nel 3. delle Morali à Nicomacho al cap. undecimo. Fù incontinentissimo in ogni sorte di cosa Nerone, ilquale à freno sciolto si diede in preda à tutte le sceleratezze, et lasciuie, che mai imaginar si possino, et l'Autor, che descriue la sua vita, dice che i suoi vitii furno tanto horribili, che per non offendere l'orrecchie di chi legge, hà proposto di non volerui scriuere, consumando egli in quelle dishonestà la maggior parte del tempo, et tutto il rimanente spendeua in giuochi, et in altri vitiosi essercitii, e spesso in conuiti, i quali durauano tutto il giorno, et parimente tutta la notte: ne à questo P. 155 scelerato Imperatore cede pure in una minima parte Silla, il quale sempre si dilettò di facetie, di prattiche, di buffoni, e di persone ridicole et dishoneste: Ma come fù posto à reggere lo stato, ragunandosi con huomini sfacciatissimi, venuti dalle scene, et da gli spetacoli si staua à bere, et à mangiare con esso loro, et à dire parole molte sconcie, et vituperose anchor che fosse persona attempata, et per attendere alla gola trascuraua molte attioni, lequali haueuano bisogno di gran consideratione, et diligenza. Scriue Suetonio che Vittelio Imperatore era tanto goloso, che trouandosi in viaggio entraua per tutte le hosterie, et mangiaua le cose, che vi trouaua calde, et fumanti, et tal volta le reliquie del giorno inanti, et sempre comandaua hora ad uno, hora ad un'altro, che lo conuitassero. Sergio Galba fù anchora egli tanto gran mangiatore, et beuitore et sfrenato in mille altre dishonestà, che è più noto per loro, che per alcuna virtù; che fosse in lui. Ma che diremo noi di Domitio Afro; che per troppo mangiare st soffocò à tauola alla presenza di molti. Che di Catone Uticense? Ilquale era tanto amico del vino, che à lui si haurebbe lasciato abbrucciare, che continuaua beuendo con gli amici infino all'Alba. Che di Comodo Imperatore? Ilquale consumaua il giorno, et la notte per le tauerne in conuiti, in tracannare, et in mille altri vitii enormi, et brutti, in bagni, et in lasciuie. Alessandro Magno fù oltre modo amator del vino, et facendo un conuito promise la corona à chi più beueua; quegli che in quel contrasto si mostrò più inuitto fù Promaco, ilquale tracannò quattro cantari di vino, et acquistò la corona et la vittoria. Ma perche il pouero huomo douea hauer bevuto troppo poco, se ne morì nello spatio di due giorni, et ne morirono per lastessa cagione quaranta altri. Mentre Alessandro attendeua à perseguitar Dario, faceua alcuna volta grandissimi conuiti, et godeua nella ebbrietà, et nelle Crapule un giorno, ch'egli era molto bene ubbriaco, se li fece inanzi una donna, per nome chiamata Thaide Ateniese, la qual piaceuolmente lodando Alessandro, diceua ch'ella hauea riceuuto in quel giorno grandissimo frutto delle fatiche, ch'ella hauea sofferte à venire in Asia; veggendosi tanto accarezzata ne i superbisimi palazzi de' Persiani, ch'ella haurebbe molto diletto se per ispasso, hauesse potuto cacciare il fuoco nel palazzo di Serse, ilquale hauea gia abbrucciata Atene sua patria. Stando Alessandro ad udirla, non li dispiacque quel pensiero, etcose caldo dal vino P. 156 fatto accendere una facella, andò innanzi à tutti con esso lei, et cacciarono foco nel palazzo di Serse. Tutte queste cose narra Plutarco Ne ad Alessandro cede Tiberio Imperatore, che fino dalla sua fanciullezza li fù posto nome Beuiero Mero, che dinota beuitore de' migliori vini, et nella sua vecchiezza staua tutta la notte, et parte del giorno dando premi à chi più beuea. Ma doue lascio Diaocrate i Messenio? Che era piu ghiotto del vino, che l'orso del mele et facendosi un gran conuito in Roma et essendo ebro si vesti da donna, et quiui saltò, et ballò, e fece mille altre pazzie, et l'altro giorno poi domandò aiuto à Tito; perche tentaua di ribellar Messana à gli Achei, ch'era cosa di grande importanza, come dice Plutarco. Io non so come bene si conuenissero insieme l'ebrietà, i salti, i giuochi con la grauitò quasi di Principe. Non merita silentio la voracità di Massimino, il quale, come scriue Capitolino, mangiaua quaranta libre di carne al giorno, et beueua un' anfora di vino. Per quanto mi pare, era molto sobrio. Etiandio Claudio Imperatore era tanto disordianto nel mangiare, et nel bere, et nell'altre sceleratezze, che li parea di non hauer mai nè luogo, nè tempo bastante da satiar la gola, mangiaua à corpo pieno, et poi si prouocaua il vomito, cosa più tosto da uno imperator di porci, che d'huomini. Et Cambisce essendo stato ammonito da un suo di moestico, che lasciasse l'ubbriacchezze, egli subito coo una saetta l'ammazzò. Ne voglio, che resti disguinto da questi golosi mangiatori Epicuro Ateniese figliuolo di Noede, da cui hebbe origine la setta Epicurea, ilquale ponendo il sommo bene nelle voluttà, et ne' piaceri del corpo si armò con sottili argomenti contra Phiricide Filosofo. A costui piacque con tutta la sua compagnia il mangiare, il bere et it sollazzarsi; però diceua. Post mortem nulla est voluptas. Onde il Petrarca di lui parlando, dice: Contra il buon fire, che l'humana speme Alzo ponendo l'anima immortale, S'armò Epicuro; onde sua fama geme Ardito à dir, ch'ella non fosse tale, Cosi al lume fu famoso, e lippo Con la brigata al suo maestro eguale.d P.157 Leggesi ne gli Epigrammi di Possidonio, et di Theodoro, d'alcuni huomini, che mangiauano fino un bue: ò come male sarebbono stati sotto Pittagora, che non voleua, che si mangiasse carne; non è cosa giusta, che io lasci à dietro il Re Antioco, ilquale giorno, e notte attendeua alle crapule, et al vino: nè giusto è, che io lasci Trasimarco Macedone, il quale illustra Timacreonte, dicendo di lui. Plurima edens, permulta bibens, mala plurima dicens: Scriue Aristotile nell'Etica, che uno desideraua di hauere il collo di grue, per poter più lungamente gustar il vino, ch'io penso, che non li piacesse punto. Epicarmo nel suo Busiride della ingordigia loda Ercole dicendo. Intus sonat guttur, sonantque maxillae Simul dentes, dens caninus instrepit, Exibliant nares, et ipsam aurem mouet. Non voglio gia lasciar da parte Sardanpalo, ultimo Re de gli Assiri, huomo deditissimo à tutte le voluttà. Costui di mangiare, e di bere non cedeua a più famoso huomo dell'età sua. Spesso si vestiua da donna, et staua ancora egli ritirato con le altre donne; in questo tempo Arbace capitano de Persi, intendendo la vita d'un cosi famoso, huomo, venne, et assediollo, et il galante huomo, disperando la salute, fece accendere uno grandissimo fuoco, gettoui dentro le cose più care, et anco molte cose da mangiare, et finalmente se stesso et fece queste parole sopra la sua sepoltura. Mangia, beui, et giuoca, che dopo morte niente piace. Che dirò di Ciacco che in lingua Fiorintina vuol dir porco, parlando di Boccaccio di lui dice. Essendo uno in Firenze da tutti chiamato Ciaccho, huomo giottissimo quando alcuno altro fosse giamai, et con quello che segue. Dante lo pone nell'inferno, et à lui fa dire cosi: Voi cittadini mi chiamaste Ciacco Per la dannosa colpa de la gola, Come tu vedi à la poggia mi fiacco. Furono tanto mangiatori, e golosi i compagni d'Ulisse, come P.158 racconta Homero nel libro duodecimo dell'Odissea, che rapirono i bue del Sole, et con grande auidità cercauano i più grassi, nè fecero alcuno profitto i ricordi d'Ulisse, i cui versi Greci tradotti da Girolamo Bacelli così suonano: Sei giorni intieri i miei compagni amati Mangiar gli armenti del lucente Sole, Sempre scegliendo i più grassi, e megliori, Ma ben portorono la pena della lor gelosità tanto accesa, quando Gioue ne prese vendetta, che vibrando il fulmine ardente, percosse la naue, et si può dire, Che sol foco per foco allhor si spense. Cioè il fuoco della gola col fuoco celeste. Moschino era un gran beuitore, quando non era ubbriaco li pareua d'esser morto, però dice l'Ariosto parlando di lui, quando vien gettato da Rodomonte nell'acqua. Getta da' merli Andropono, e Moschino Giù nella fossa, il primo è Sacerdote, Non adora il secondo altro, che'l vino, E le bigonze à un sorso n'ha gia vote, Come veneno, e sangue viperino, L'acque fuggia, quanto fuggir si puote, Hora quì more, e quel che più l'annoia, E'l sentir, che nell'acqua se ne muoia. E Grillo, forse, che ancor egli non era un bello, e buon bevitore? Come dice il medesimo; Poi se ne vien, doue col capo giace, Appoggiato al barile il miser Grillo Hauealo voto, e hauea creduto in pace Godersi un sonno placido, e tranquillo, Troncogli il capo il Saracino audace, Esce co'l sangue il vin per uno spillo, P. 159 Di che n'hà in corpo più d'una bigoncia, Di ber si sogna, e Cloridan lo sconcia. Gio. Bottero Benese (nelle sue relationi d'Europa), dice, che i Germani son dediti fuor di modo alla gola, et all'ebrietà; onde segue, che dificilmente diuentano prudenti: percioche non è cosa, che più offuschi lo intelletto, et renda l'animo bruto, qual'è quello delle bestie, che la crapula, et il vino, et per la gola patiscono molte infirmità. Et soggiunge che nella guerra la caualleria Tedesca è dispesa, e d'impaccio, più tosto, che di giouamento, et d'utilità, et la ragion'è questa, che i caualli so togliono dall'aractro, et gli huomini dalla stalla. I Siracusani si ubbriacauano fino quattro giorni intieri. Perché rendete voi, che Mezentio porgesse aiuto à Tosani? Solamente, perche haue an buon vino: non voglio, che il tempo mandi nel fiume dell'oblio la memoria di un gentilhuomo d'una città di lombardia, chiamata Pauia, ch'era huomo dotato di qualche virtù; ma pouero, e goloso, come un gatto: se alcuna volta era inuitato à disinare da qualche gentilhuomo, il quale hauesse fatto desinare da huomo temperato, e sauio, dopo incontrandosi in qualche suo amico, dal qual dimandato gli fosse, oue hauesse mangiato, rispondeva piangendo: in inferno leccardorum; Ma quando mangiaua con alcuno, il quale hauesse hauuta la tauola piena di molte, di varie, et di diuerse viuande, et dimandato doue mangiato hauesse da altri gentilhuomini, con faccia allegra, et con una voce gagliarda, e chiara, rispondeua. Non in Apollinem, come Lucullo: ma in Epulonem: Sono numerati fra gli ubbriachi di Caristia Filippo Re di Macedonia. Antigone, come scriue Philarco. Demetrio, come Polibio, et Agione Re de gli Mitii morì ubbriaco, ò che felice morte. Racconta Phanto, che Scotta figliolo del Re Crotone si ubbriacaua ogni giorno, et se perauentura fosse stato un giorno senza si stimaua più che morto si faceua poi portare per la città sopra un seggio d'oro, come se hauesse trionfato per qualche illustre vittoria. Ma udite questo bello Epigramma composto da Polemone sopra Hircadione Re de' beuitori. Hircadionis habet tumulus hic ossa bibacis, Erectusque urbis proximus ille viae huic P. 160 Charmilius, et Dorei posuerunt mortuus est vir Dum magni calicis ebibit iste merum. O che morte, già che pieno di vino se ne morì credo che sia inuidiato da molti huomini della nostra etade. I Sicilini erano tanto ingordi, et voraci, che alzorono un Tempio alla Voracità accioche questa tale Dea non lasciasce loro mancare l'esca, et il vino, et non si può dire, che non fossero deuoti, hauendo, fatto opera tale. Era tanto ghiotto Hiperido, che auanti giorno correua fuori di casa, per che non fossero da qualche uno altro tolti i megliori bocconi, ne mai haueua tanto sonno la mattina, che la gola non lo potesse destare. Aristippo era tanto mangiatore, e goloso, che quando vedeva quelle parole di Platone, le quali sono queste. Quod in die aut se mel comedatur parcè, aut bis parcissimè. Subito con grande ira stracciaua quella carta, oue erano scritte, et l'abruciaua, che nulla più. Era una golosità astuta quella, che Crobulo Comico racconta di colui, che per timore, che gli altri non mangiassero, diceua. Ad haec ego certè nimis calentia Nunc frigidas habeo manus. Io non voglio, che il silentio mandi in obliuione la nobile memoria d'un gentil Cortigiano, ilquale non si dilettaua, ne' di pompa, ne di delicie, come sogliono fare molti gentilhuomini di simil maniera: in casa non hauea specchio, ne pettini, se non quelli, che teneua: in bocca, co quali à tauola pettinaua come un paladino, nè adoperaua forchetta: ma come le dita, le quali con tanta prestezza, et celerità adoperaua, che passaua ogni sonatore di liuto. Se mangiaua come un paladino; beueua come un gigante: Sempre voleua il vino Giudeo; perche diceua, che l'acqua era fatta per li pesci, et per le bestie, non per li galant' huomini pari suoi. Costui beuea bene, et tanto devotamente, che ogni volta li veniuano le lagrime da gli occhi; et benche si hauesse posto un secchio di vino alla bocca, quando si spiccaua il vaso da' labri, erano tanto asciutti, quanto se fosse stato di mezzo giorno al Sole, quando egli è in Cancro, ò in Leone. Se dormiua comodamente bene; perche fra giorno, e notte non riposaua meno di sedici hore, et questo era la sobrietà, et la gentilezza di questo gentilhuomo, Margutte è tanto P. 161 noto, che non accade, ch'io di lui si scriua; ma in vece sua scriuerò di Erisitone, che mangiò tutte le sue facultà, et vendè la figlia, come dice Ouidio nel libro. 8. ________ tandem demisso in viscera censu Filia restabat, non illo digna parente Hanc quoque vendit inops. E così Erisitone vendè la figlia più volte, et all'ultimo mangiò se stesso, onde Ouidio disse. Ipse suos artus lacero diuellere morsu, Cepit, et infelix minuendo corpus alebat. I quali versi recati in ottaua rima dal Maretti cosi suonano. Le stesse membra incominciò col dente Ad ammorsar la carne sua ingogiata, Il nutrimento il misero porgendo Al corpo, il corpo stesso sminuendo. Questi sono gli essempi de gli huomini incontinenti, co' quali se si dee comparare il sesso donnesco ditelo, et consideratel voi; perciò che io mi credo, che commettessero più atti d'incontinenza Eliogabalo, et Nerone soli, che tutte le donne insieme: ancorche fossero tutte le morte, le viue, et le venture unite. Scrive Capitolino, che Clodio Albino era molto continente, et di poco cibo, percioche in un sol pasto non mangiaua più di cinquecento fichi, cento pesci, dieci melloni, cinquanta persichi, dieci libre di uua, cento Beccafichi, et quattrocento ostriche. À me pare, che ei mangiasse comodamente bene. Ma doue rimane Calicula, ilquale poneua il suo maggior pensiero in cercare stranissime maniere di cibo, sorbiua perle di smisurato prezzo disfatte nell'aceto, et Seneca scriue nel libro della consolatione da Heluida di G. Cesare l'armi ch'egli sia stato dalla natura prodotto: accioche mostrasse quanto potessero i vitii in estremità egli mangiò il costo in una cena di cento sesterci maggiori essendo in questo aiutato da tutti gli ingegni Cizza ladrone. Metello oue resta? Di cui scriua Salustio queste parole; volendo mostrare la P. 162 sua golosità. Le viuande erano esquisitissime ricercate non solo da quella prouincia ma etiandio oltre il mare della Mauritania, ò Barbaria, come uccelli di diuerse maniere, et fiere pigliate con grande dificultà, et per l'adietro non conosciute. Ma udite ciò che dice Seneca, volendo mostrare la smisurata ingordigia di Apitio, et di Ottanio essendo stato mandato à Tiberio Cesare un pesce mulo molto grande, ne voglio tacere il suo peso per destar l'appetito altrui, il quale era quattro libre, et mezzo. Allhora Tiberio per auaritia lo mandò à vendere in Pescaria, et egli stando ritirato diceua à gli amici, io m'inganno del tutto, se questo mulo non sia comprato da Apitio, ouero da Ottavio l'auiso suo li riuscì oltre alla speranza; percioche amendue questi contesero del prezzo. Offerendo più per hauerlo: ma vinse Ottauio acquistando gloria di un buon goloso, mercatando quel pesce cinque mila sesterzi. Dice Suetonio in Tiberio al capit. 34. quel Principe essersi lamentato perche tre Regali Marino, ouero Barboni fossero venduti trenta mila sesterzi fù entiandio goloso, anzi golosissimo Apitio, del quale Seneca dice. Visse à l'età nostra Apitio, ilquale fece professione dell'arte del cucinare in eccellente guisa in quella Città, dalla quale erano stati cacciati i filosofi, costui con la disciplina sua corruppe quel secolo, la fine del quale è degne di sapere. Hauendo costui speso nella cucina mille sesterzi maggiori si trouaua oppresso da debiti, et fù costretto allhora fare i suoi conti: onde hauendo pagato i creditori, non li rimase se non cento sesterzi maggiori. Et come nella sua vecchiezza egli havesse havuto à vivere in estrema necessità, si ammazzò col veleno. questo haueua consumato il Patrimonio, il quale era due millioni, et cinquanta scudi Romani onde il miserello, non essendoli rimaso se non cento sesterzi maggiori. Cio è ducento mila scudi, à ragione si uccise, et volentieri morì; perche diceua, che non hauria potuto contentar le sue ingordigie in tal pouertà. Catino Panegirico dice raccontando di alcuni Principi. Taccio la scelta infame de gli uccellator, et le compagnie de cacciatori raccolti sotto l'insegne, et noi habbiamo conosciuto non solamente il desinare di alcun Principe: ma l'intromessi di un piatto essere stimati mille sesterzi maggiori. Io resto stupefatta à considerare la gran voracità de gli huomini. Non voglio che resti fuori di questa compagnia Uguccione della Fagiuola, di cui scriue il Giouio dicendo. Essendo Vugoccione appresso il gran Can dalla scala sì vantò di essere un buono, et P. 163 valente mangiatore con tai parole. Mentre io era giouine per poco ch'io mangiassi, non mangiaua meno di due paia di capponi, due paia di starne, un petto di vitello pieno allesso, un quarto di capretto arrosto, et altre cosette. Narra il Lardino, che furono molti giouani ricchi, i quali facevano cene, et desinari magnifici, et souerchie spese' nel vestire, nel caualcare, et ne seruitori ferravano i caualli con l'argento, et attendeuano à mangiare, et sollazzare. Et questa era chiamata la brigata godereccia haueuano messo in commune venti mila fiorini, et in venti mesi non solamente consumarono i vinti mila fiorini. Ma ogni la sostanza anchora. Fra costoro era lo Soricca, et Nicolo de Salembeni di Sciena, i quali poneuano ogni loro ingegno per trouar maniere nouelle di viuande trovarono le fritelle Ubaldine, Bramangiari et altri sorti di cose. haueuano un cuoco, il quale fece un libro delle viuande ritrouate da loro. Furono inuentori di mettere garofani, et altre specierie fu gli arrosti. Onde mi pare che resti molto à dietro Melibea Melenzona nelle cose trouate per la gola scriuendo il Passi, nel capitolo delle donne golose, ch'ella fusse inuentrice della Peuerata, et che ponesse uso il mangiare i Lupuli, i cocumeri, et le zucche, et deue pur sapere, che zucche, cocumeri et Lupuli non sono cose da persone golose, anzi troppo continenti; perche fino gli Eremiti, i quali fanno vite asprissime ne gli Eremi mangiano simili cose. Scriue Herodiano, che i sergenti di Pertinace maluolentieri sopportauano la modestia, et integrità di lui: ma vaghi della tirannide, delle rapine, et lasciuie, et ubbriacamenti si consigliarono di uccidere il buon principe Pertinace, si come coloro, à quali spiaceua la sua bontà: però voleuano trovare uno, à cui dessero lo imperio dishordinato, et piegheuole alle loro pessime voglie: cosi adirati corsero con le spade nude al palazzo imperiale, et uscisero Pertinace. da questo atto pieno d'in humanità si può' conoscere di quanta molestia, et noia sieno le virtu di appresso à gli huomini: poi che satii, e fastiditi del buono Imperatore Pertinace cercarono di leuarli la vita: et accioche salisse à tanto honore uno, che fosse ubbriacco, et incontinente elessero Giuliano à cui per danari diedero l'imperio; perche sapeuano’, che era huomo di mala vita, et infame, ubbriacone, et crapulone, et queste furono le virtù, che ricercauano nello imp. quei buoni huomini. Di Ottone dice. Plutarco, parendoli che basti à mostrare la sua vita queste parole. Ottone visse tanto dishonestamente, quanto Nerone. Ma P. 164 udite queste nuoue sorti d'ingordigia. Racconta il Botero, che coloro, che habitauano nel Brasil, non finiuano mai di bere, crapolare, et uccidersi l'un l'altro per mangiare Et dice, trattauano lautamente i prigioni fatti in guerra, et quando vogliono fare qualche festa solenne, legano con più corde il più grasso, et lo tingono di varii colori, et l'adornano di diuerse penne, et per farli carezze li rilasciano i lacci, et i nodi, et li danno largamente da mangiare, et da bere. dopo tre giorni fanno, che i fanciulli, et le fanciulle lo tirano hor da una parte hor da l'altra con le corde, le quali li sono legate intorno al ventre. L'altra brigata li lancia pomi, et altri frutti egli leuando di terra i frutti, che può leuare li rimanda contra i suoi percossori, sforzandosi di vendicarsi. dimanda talhora in mezzo del giuoco da mangiare, et da bere per ripigliar le forze: allhora si rinuoua la battaglia, et li rispondono, tu pagherai il fio d'ossa, et di polpe per le tue ribalderie; perche noi ti faremo in pezzi, et ti trangugieremo arrostito. Risponde l'altro fate quanto voi volete, che non si potrà dire, ch'io sia morto da un huomo vile, se voi ammazzerete me, io ho prima ammazzato molti de vostri, et ho fratelli, et parenti, che mangiando una altra volta voi non lascieranno la mia morte in vendicata, dette queste parole lo cacciano in una gabbia grande, et spaziosa co'l suo custode coperto di varie piume, et variamente dipinto ilquale con un coltelazzo in mano salta, fischia, et mena il coltellazzo attorno. Il prigione hor si spinge inanzi per torli il coltello, hor si ritira per fuggire il colpo, finalmente per dare fine alla festa con alcuni colpi l'abbatte, et poi con un fendente gli spezza la testa, et li sparge il ceruello. L'arrostiscono poi, come si fanno i porci, et ne fanno un magnifico conuito. Dice ancora, che i Brasili haueuano ucciso un prigione, il quale era stato nutrito con molta delicatezza, et mentre lo voleuano inspedare soprauennero alcuni Padri Christiani, che haueuano la lor chiesa poco lontana dal luogo, oue si faceua questo, i Padri dopo molto contendere portarono vie il corpo, et lo sepillerono nel giardino. Dolenti i Barbari di tanta perdita, quasi s'impiccarono: ma quando fù venuta la notte, entrarono nel giardino, et andauano fiatando il luoco à guisa de bracchi, al fin lo trouarono, et cominciauano à cauarlo fuori: ma souragiungendo i Padri, fecero lasciar la desiata preda. Onde mesti, et mal contenti si partirono: et perche questo Padri andauano alle prigioni à tentare con varii mezi di saluare l'anime di quei miseri P. 165 col Battesimo, i manegoldi gridauano dicendo, che le carni battezzate perdeuano buona parte del lor sapore; et però cacciarono i Padri delle prigioni. Ma non si può sentire la più bella cosa di quella, che si fa nella valle di Note ne i confini del Popaxan, quiui i Caci chi vanno nelle terre di nimici à caccia di donne, et di ne conducono alle lor case quante più possono, et le tengono; accioche faccino figliuoli da mangiare, et li mangiano di dodici, et di tredici anni. Nel la valle di Guaca tenevano gli schiaui fatti in guerra, la maritauano con le lor parenti; accioche generassimo figliuoli da mangiare et mangiano poi ancora l'istessi schiaui, quando à loro per la molta vecchiezza non nascono più figliuoli: ma che direbbe Pitagora di questi tali? Poi che biasmaua il mangiar le bestie, come dice Ouidio. Infandum scelse est in viscere viscera condi, Congestoque auidum pinguescere corpore corpus: Alteriusque animantem animantis viuere letho. Lucio Vero fratello di Marco Aurelio Imperatore fù oltre ogni credenza dissoluto, et ingordo. Dice il Tarcagnota, che hauendo l'Oriente bisogno della sua presenza egli non finiua mai di andarui: ma si fermaua hora in Cortino, hora in Atene, et in altri luoghi della Grecia: giunto dopo molti passatempi in Soria mandò i suoi Capitani à far guerra col Re de Parthi egli rimaso in Antiochia, oue fece vita dihonestissima con molti buffoni in conuiti, et in giuochi. All'ultimo menò à Roma in vece di Regi prigioni una lunga schiera d'Histrioni, di musici, et di Arimi. Che diremo noi de gli huomini, di Chiusi? I quali allettati dalla dolcezza del vino passarono l'Alpi. Pensate, che à loro non doueua piacere punto il vino, cosi dice Tito Liuio et ancho narra, che Arunte portò in Gallia il vino, sapendo quanto quella gente inclimata li fosse. Io tralascio di raccontar, che l'hosterie siano sempre piene di questi incontinati maschi, et cosi tutti i luoghi, oue si vende vino, essendo queste cose à tutti notissime, si come anco è chiarissimo, che le donne non si ritrouano in simili ridotti, et luoghi. P. 166 De gl’iracondi, bizzarri, et bestiali. Cap. IIII. E Tanto detestabile, et vituperoso il vitio della fiera, et precipitosa iracondia da ogn’uno, che sempre senza dubbio merita riprensione, et spesso castigo, nè meno ella oscura il lume della ragione di quello, che facci l’incontinenza, ancorche alcuni l’ira incontinenza chiamassero. O di quanti homicidii ella è cagione; percioche essendo l’Ira, come dice Speusippo: Prouocatio irascibilis animae partis ad ulciscendum. Spinge souente gli huomini adirati à commettere simili eccessi per vendicarsi, bene spesso per leggierissimo oltraggio vien leuata la cara vita ad altrui, et questo accadde; percioche l’ira il più delle volte accieca affatto la ragione, come si legge nel libr.5. della Politica, al capitolo decimo; et ch’ella offuschi gl’ingegno, è cosa certa; percioche si vede non rare volte un carissimo amico, un’obbediente figliuolo in un subito lasciarsi trasportar tanto dalla colera, che offende ò l’amico, ò l’amico, ò il caro padre, et di poi auuedendosi piange il commesso errore, la qual cosa osservando l’Ariosto, disse, nel canto triggesimo, stanza prima. Quando vincer da l’impeto, e da l’ira Si lascia la ragion, nè si di fende, E che’l cieco furor si innanzi tira, O mano, ò lingua, che gli amici offende, Se ben dapoi si piange, e si sospira, Non è per questo, che l’error si emende; Lasso io mi dolgo, e affligo in van di quanto Dissi perira al fin dell’altro canto. Per lo più s’adirano gl’iracondi con quelli, co quali meno si deurebbono adirare, o di cose lieui, e sprezzabili, et molto più di quello, che deurebbono, cosa certo indegna, et con bestemmie, et con gridi horribili assordano il mondo; onde si può dire con Ouidio. P. 167 Crimina dicuntur, resonat clamoribus ether, Inuocat iratos est sibi quisque deos: Pertinet ad faciem, rabidos compescere mores: Candida pax homines, trux decet ira feras: Ora tument ira, nigrescunt sanguine venae; Lumina Gorgonio seuius angue micant. Ad Alessandro Re di Macedonia io darò il primo honore accioche non auampasse d’ira. Era tanto estremamente agitato da questa furia infernale, che non sapeua frenare la sua natura. Però fece molti atti indegni, come uccider Clito, et altri Illustrissimi huomini di grandissima autorità, come Plutarco racconta; et però dice il Pettraca. Vincitor Alessandro l’ira vinse. Ma che dirò io di Valentiniano Imperatore di Roma, Ungaro di natione? il quale si adirò tanto fieramente contra certe legioni, che li si ruppe una vena nel petto per lo gridare, et poi versando l’anima, e’l sangue si morì pieno d’ira. Che di Catone? che entraua in tanta rabbia, che non si potea ne con preghi, ne con altra cosa placare. Ma di più crudele, et feruente ira fù pieno Perso Re di Persia, che uccise due, i quali amicheuolmente lo consolauano. Si può vedere il più brutto essempio di costui? poi che priua di vita chi con dolci parole cercaua di mettere allegrezza nell’animo melanconico di lui. Ma doue lascio Cambise, ancor’esso Re di Persia? che non potendo hauere la figliuola del Re d’Egitto viua, fece tirarla fuori della sepoltura, et fece col ferro piagarla, et batterla, et di poi abbrucciare, come dice Battista Ful. è ben rabbia veramente irrationale, incrudelire contra un corpo esanimato. Herode Re de’ Giudei, figliuolo d’Antipatro, essendoli detto, che la moglie li voleua dare il veleno amatorio, senza cercar più oltre, preso da una feruente ira la fece ingiustamente uccidere. Ma dopo essendosi scoperta la verità, et raffreddato quello acceso furore irrationale piangendo la chiamaua. Onde parlando di lui il Petrarca dice; P. 168 Vedi com’arde prima, e poi si rode, Tardi pentito di sua feritate Mariane chiamando, che non l’ode. Ezzelino, che per l’ira commise tante crudeltà, non lascieremo gia à dietro; lascierò bene à dietro quello, che per ira fece verso gli altri, et solamente descriuerò quello, che fece verso se stesso: essendo ferito fù preso in battaglia, et fu medicato, et consolato assai nondimeno in lui mai si potè spegnere l’ira: et non hauendo armi, con che ferirsi, tenendo sempre gli occhi fissi in terra pieno d’una ostinata iracondia, si slegò la ferita, et la stracciò et cosi fini la vita, come scriue il Sabellico onde di lui dice l’Ariosto: Ezzelino immanissimo Tiranno, Che fia creduto figlio del demonio. Valerio Publicola per colera renunciò tutti i gradi honorati. I Francesi, come dice Tito Liuio, sono di natura iracondi. Ira grandissima fu quella di Tideo, come narra Statio nella sua Thebaide, ilquale hauendo fatto amicitia con Polinice andò con gli altri regi contra Thebani, et essendo in battaglia s’incontrò in Menalippo, ilquale era in aiuto de Thebani, et da lui fu grauemente ferito, et Tideo pieno di grande ira l’uccise, et da poi vedendo che la sua ferita era mortale, si fece portar la testa di Menalippo, et con grandissima ira rodendola si morì, onde il Petrarca ragionando dell’ira dice; L’ira di Tideo à tal rabbia sospise, Che morendo ei si rose Menalippo. Solimano fù anchor egli pieno di una colera irrationale, come dice Torquato Tasso; perche dopo, che hebbe ucciso Argillano, fece oltraggio al morto corpo. Nè di ciò ben contento: al corpo morto Smontato dal destriero, ancho fa guerra; Quasi Mastin, che’l sasso; onde à lui porto Fu duro colpo, infellonito, afferra P. 169 Et Marganor arrabbiò d’ira contra Drusilla, come l’Ariosto dice. Tal Marganor d’ogni mastin, d’ogni angue Via piu crudel fa contra il corpo essangue Grandonio fù molto colerico, per quel che dice l’Ariosto Si che senza poter replicar verbo Volta il destrier con colera, e con stizza. Alace figliuolo di Telamone, quando che i Greci giudicarono degno Ulisse dell’armi d’Achille, et priuorno lui, hebbe tanta ira, e dispetto, che diuentò matto, et furioso: et finalmente s’uccise; però udite quello, che dice Ouidio di lui. Hectora qui solus, qui ferrum, ignesque Iouemquem Sustinuit toties, unam non sustinet iram: Inuictumque virrum vicit dolor arripit ensem, Et meus hic certe est: an & hunc sibi poscit Ulisses? Hoc ait utendum est in me mihi: quique cruore Saepe Phrigium maduit: domini nunc cede madebit Ne quisquam Aiacem possit superare, nici Aiax Dixit: et in pectus tum demum Vulnera passum Qua patuit ferro, lethalem condidit ensem. Hor pensate voi, se questa doueua essere ira da giuoco. Ma di Achille, che diremo noi? che quando Agamenone dice di torli la figliuola di Briseo, tanta è l’ira, et il furore, che auampa, come dice Homero nel primo libro dell’Odissea con tai parole. Sic dixit. Pelide autem dolor factus est: intus autem sibi cor In pectoribus hirsutis bifariam cogitauit An ipsemet ensem acutum extrahens à femore Hos quidem fugaret: ipse autem interficeret An iram sedaret compescereque furorem Che tradutti in ottaua rima da Luigi Grotto cosi suonano. P. 170 Qui tace, e siede il Re. Ma un furor folle Tanto il figlio di Theti in questo auampa, Che’l sangue intorno al cor, s’accende, e bolle E un fortissimo duol nel sen s’accampa. Et piu sotto, quando si era alquanto placato, hauendo veduto Minerua; non mancaua di usare parole oltraggiose ad Agamenonne le quali son queste. Achille che de l’ira ancor riserua Nel cor qualche reliquia al Re proteruo, Conuerso grida in voce acra, et acerba; O de Greci signor del vino seruo, Di mente puerissima, e superba Re, c’hai faccia di cane, e cor di ceruo, Come per guida sua questo bel campo, Elesse un’huom più timido, che un tampo. Considerate un poco, se l’ira in costui era gagliarda, non hauendo rispetto più al Re Agamenone, che hauesse hauuto ad un suo nimico seruo. Ma che diremo, di Già? che come si vide Cloante vicino nel giuoco delle naui, arse di tanta colera, che senza hauer rispetto al suo decoro, prese Minete nocchiero, e guida della sua naue e l’auuentò nel mare: come dice Virg. nel lib.5. dell’Eneida con tai parole. Tum verò exarsit iuueni dolor ossibus ingens Nec lachymis caruere genae, senemque Menatem, Oblitus, decorisque sui sociumque salutis, In mare praecipitem puppi deturbat ab alta: Ipse gubernaculo rector subit: ipse magister. Et questi versi tradotti in lingua volgare dal Caro, tali sono. Grand’ira, gran dolore, & gran vergogna Ne sentì il fiero giouine: et piangendo Di stizza non mirando il suo decoro; Nè che Menete del suo legno seco Fosse guida, e salute, in mezzo il prese, P. 171 Et da la poppa in mar lungo auuentollo, Poscia ei nocchiero, e capitano insiemo, Diè di piglio al timone. Onde si può dire che l’ira è uno distruggimento di tutte le virtù, come dice il Trissino. Ma se tu lasci dominarti à l’ira, Quale eccellenza haurai, che non ti guasti? De’ Superbi, & Arroganti. Cap. V. Lo stimarsi, e il giudicarsi più degno, e più nobile de gli altri senza dubbio è atto di superbia: non essendo la superbia altri, che una falsa estimatione di se medesimo, per la quale si crede di hauere una libera superiorità, e impero sopra ogni persona, ancorche ne diuiene arrogante, insolente, sprezzatore di Dio, e de gli huomini, uantatore, ostinato l’ambitioso, e ingrato nelle sua attioni, e per concluderla è la superbia unaradice, e origine di grauissimi errori. Furono molto gli huobi, a i quali, come dice Pub. Citò ignominia sit superbi gloria, Io incomincierò da Giulio Cesare; accioche godi la superiorità de gli altri superbi. egli haueua pensieri tanto alti, e eleuati, che non ui era cosa tanto grande, che non li paresse di meritarla; udiste uoi la maggior arroganza di questa? Et Plutarco racconta di Camillo, che hauendo hauuto uittoria contra Veij, tanto era in costui grande l’alterezza, e il fasto, che facendo il trionfo trapassò tutti i riti ordinarij, et sdegnando le solite pompe salì sopra una carreta, la quale era solamente riseruata al Re, e al padre de gli Dei; segno euidente di un’animo gonfio d’una estrema superbia; né merita già silentio l’arroganza di Catone, per la quale fece merauigliare il Re Tolomeo, ilquale uolendoli parlare, non li andò incontro, non P. 172 Non si mosse di camera, né pur dal seggio, segno (dice Plutarco) di un’animo rusticale, e superbo. Tito Liuio uitupera l’alterezza grandissima di Annibale, il quale dopo la uittoria riceuuta di Canne, si alzò in tanto fasto, che uenendo i suoi cittadini, non si degnò ragionar con loro, se non per il mezzo d’interpreti. Et Caligula fra gli altri suoi pessimi uitii, fece uedere la sua alterezza, e superbia, della quale era tanto pieno, ch’io mi merauiglio, come non gli scoppiasse il cuore, non guardaua alcuno con diritto occhio, sprezzaua le altrui uirtù, né le sue amaua; perche in lui non haueuano albergo. Non lascierò Domitiano superbo, quanto imaginar si possa, che senza scoprirla, mai non operaua cosa alcuna. Et il superbo Senitione non uolena se non cose grandi, uoleua seruitori grandi, destrieri grandi, e per maggior pazzia essenso egli grande. Come dice Apuleio gli Egini sono per natura superbi. Timeo Siculo si pensò di superare nell’istoria la Greca il famoso Thucidide, della qual cosa vide Plutarco. Oue lasciò Senapo Imperator dell’Ethiopia, che era tanto superbo per la ricchezza, che come dice l’Ariosto: Diuenne come Lucifer superbo, E penso muouer guerra al suo fattore, Con la sua gente la uia prese al dritto, Al monte, on’esce il gran fiume d’Egitto. Inteso hauea, che su quel monre alpestre; Ch’oltre le nubi uerso il Ciel si leua, Era quel paradiso, che terrestre Si dice, oue habitò già Adamo,& Eua. Con camelli, elefanti, e con pedestre Essercito orgoglioso si mouea Con gran desir,se u’habitaua gente Di farla à le sue leggi ubbediente. Onde Dio ottimo Massimo per farli in parte deponere la superbia, lo priuò del lume de gli occhi, e li mandò l’arpie alla mensa; ma prima gli hauea fatto uccidere l’essercito dall’Angelo; cosi ueramente meritano questi fastosi, insolenti, e superbi huomini, che uogliono pigliare infino guerra con Dio; ma perche tanta super P. 173 Degli Huomini perbia, ò huomini fratelli? Non u’accorgete uoi, che sete uermi. Come narra Dante, Rodomonte, come dice l’Ariosto, non cedeua punto à Nembrotte, come mostra in questa stanza, canto 14. Rodomonte non già men di Nembrotte Indomito, superbo, e furibondo, Che d’ire al Ciel non tarderebbe à notte, Quando la strada si trouasse al mondo. Et Torquato Tasso mostra Gernando nel suo Goffreddo, essere stato un superbo huomo in quei uersi, mentre inuidia à gli honori di Rinaldo, dicendo: Mentre in questo superbo i lumi gira, Et al suo temerario ardir pon mente. Et tanta fù la sua superbia, che Rinaldo spinto da giusto sdegno, l’uccise meritatamente, e Guelfo parlando à Goffredo, scusando Rinaldo dell’homicidio, dice; Dunque à ragione al tumido Gernando Fiaccò le corna del superbo orgoglio. Menecrate Medico era tanto superbo, che uoleua esser chiamato Gioue da gli ammalati, ne altro premio lor chiedeua. Essendo un gentilhuomo di Ragusa à Venetia da maritare, di casa Babala e domandogli un suo amico se piglierebbe una Cittadina Venetiana, con dote di dieci mila ducati, li ri spose in colera, ch’egli hauea poco ceruello, e che era poco prattico della nobiltà della sua città; l’amico non li rispose altri: ma soggiunse, pigliaresti una gentildonna Venetiana? egli li rispose; accioche non ui affaticate in propormi nuoui maritaggi, ui dico, che se il Re Filoppo volesse darmi una sua figliuola, io ui penserei à pigliarla. Che ui pare, udiste mai la maggior arroganza di questa? Ma non uoglio tacere un altro atto simile à questo. era nella stessa città un gentilhuomo il quale si nomaua Nicolò di Primo. Lasciò costui morendo ad una sua figliuola sessanta mila scudi di dote, e perche discerneua il uero dal falso, hauea determinato, che fosse data per moglie ad un gentil P. 174 tilhuomo Venetiano. Per il qual testamento fu stimato huomo di poco ingegno: percioche stimaua non esserui persona degla di lei nelle altre città Et se con questi nobilissimi Ragigei alcuno ragionasse delle Repubbliche, et domandasse loro, quali sieno più grandi, e nobili, subito dicono, che quella di Ragusa passa ogni altra, et che è uguale alla Romana, La Venetiana dicono, che alquanto se le accosta; ma la Genouese le è molto inferiore. De gli Otiosi, Negligenti, & Sonnacchiosi. Cap. VII. NON è dubbio alcuno, [Otio che da ni apporti.] che colui, il quale desidera di menar uita politica, e ciuile, ò che di fama sia desideroso, e di uiuere secondo la ragione deue fuggire in tutto, e per tutto l’otio, come pestifero ueleno: ueleno à punto, che ammazza l’huomo, ancorche uiuo, come si legge in Seneca, che lo chiama Viui himimnis sepultura; Percioche l’huomo non si essercitando in operationi honorate, né dell’animo, né del corpo si può dir morto al mondo. Rende l’otio senza dubio l’huomo priuo d’ogni uirtù, e lode. Onde il Petrarca disse à ragione. La gola, e’l sonno, e l’otiose piume Hanno del mondo ogni virtù sbandita. Et lo pose in compagnia della gola, e del sonno; percioche queste sono due doti, et eccellenze dell’otio; essendo ogni otioso goloso, e sonnacchioso, e in somma d’ogni incontinenza ricetto; Onde Mercurio Trimegisto, quel grande disse hauendo considerate tutte queste cose, che l’otioso diuiene una bestia imprudentissima, et et d’ogni sceleraggine albergo, con il corpo languente, e debole: Aggiungi, che la fama d’un tale si può dir morta; perchioche chi non si affatica, indarno aspetta di essere per le bocche de gli huomini inalzato fino al Cielo. : Et però Oratio considerando questo, lasciò scritte parole tali. P. 175 Dij nobis laboribus omnia uendunt, Qui foelices aliquando esse uolunti laborare debent, Qui studet optatam cursu contingere metam; Multa tulit, fecitque puer, fudauit,& alfit. Et chi è colui, che per il mezzo dell’otio si facci immortale? Come ben dice Salustio, e Dante. Che seggendo in piume. In fama non fi uien, ne fotto coltre. Certo non si può uedere la maggior infelicità di uno ingegno otioso, ilquale non può sentir quel uerso di Dante: Ratto ratto, che’l tempo non si perda. Ond’io spinta dalle sue parole, uoglio essere breue circa questi otiosi, iquali non uogliono affaticarsi un’ora, se credessero di uiuere eternamente gloriosi. Torquato Tasso volendo mostrare, che l’otio non è la scala da salire à gli honori, fa dire queste parole à Rinaldo da quel saggio uecchio Signor non sotto l’ombra in piaggia molle, Trà fonti, e fior, tra Ninfe, e trà Sirene; De la virtù riposto è il nostro bene. Chi non gela, non suda, e non s’estolle Da le uie del piacer la non peruiene. Hor uorrai tu, lungi da l’alte cime, Giacer quasi trà valli augel sublime? Horsù Voglio venire à gli essempi. In tal uitio famoso il priom sarà Attalo, il quale diede l’imperio ad un altro per non far cosa alcuna, come dice Celio, huomo in uero degno d’ogni lode. ne à lui fù molto dissimile Vacica Seruilio, che tanto li piacque tenere le mani alla cintola, che passò in prouerbio. Come scriue Volate. Vincislao per la sua negligentia fù scacciato dallo Imperio. Plato P. 176 scriue, che Scipio fù sonnolento, e si può ben pensare, che compagnia habbia il sonno, e chi non lo sa, legga questi quatrro uersi dell’Ariosto; In questo albergo il graue sonno giace, L’otio da un canto corpolento, e grasso, Da l’altro la Pigritia in terra siede, Che non può andare, e mal si regge in piede. Tra questa nobile compagnia staua Scipio sicuro, e senza stanchezza veruna, diceua che la guerra uccideua extra tempus, e che il sonno, e la placida quiete conseruaua la uita lunga, e il corspo grasso. Non accade, ch’io parli de Lucani, e il Massiliesi, che haueano più in odio gli essercitij, e l’operationi, che il Diauolo infernale. Ma non uoglio tacere l’otio di Domitiano Imperatore, che lasciando le attioni di consideratione, attendeua con grandi sollicitudine à pigliar mosche, e dopo che erano prese le infilzaua in uno stilletto bene agguzzo. Accade, che uno dimandando un giorno se alcuno era in camera con lo Imperatore, li fù risposto, che non ui era pur una moscha, questo era il pensieri, che si pigliaua del Regno questo sollicito huomo. Mon voglio, che resti dietro Dauid commeno gouernator di Tessalonica, Città Illustre, la qual’essendo assediata dall’essercito Siciliano staua in continuo riposo: i nemici hauendo condotte le machine, e altri istrumenti bellici alle mura, egli era come spettatore. In tutto il tempo di questo assedio non mandò mai soldato alcuno alle mura, ne egli stesso voleua sentir la grauezza delle armature, dicendo che il ferro cinto intorno per una certa sua qualità abbreuiaua la vita. Saliua spesso sopra una muletta, e andaua sollazzando per la Città con gli stiualetti tra punti d’oro, e la ueste allacciata di dietro, lo negligente gouernatore, che haueua più bisogno della balia, che mai rideua con i suoi amici mentre i nemici percoteuano le mura, e cadeuano in pezzi, e diceua sentite il muggire della vecchiarella, e questa era una gran machina, che percoteua la Città. Cosi in poso tempo fù presa Tessalonica per la inuitta uirtù di questo ualoroso gouernatore, come scriue Niceta Acominato da Chon. P. 177 De gli huomini, & usurpato ride gli Stati Cap. VII. Io non credo, che fra tutti gli huomini pessimi del mondo sia il piggiore del Tiranno: non essendo egli da legge alcuna governato, [Tiranno che cosa sia.] come si legge nel libro quarto della Politica al capitolo decimo: anzi si come de gli altri Raggi l’oggetto, et il fine di operare è l’onesto, il giusto, cosi del Tiranno è il proprio l’utile, et il commodo, che li serue, come scriue Aristotile nel quinto della Politica per ragione, et per legge un placet, ciò è la propria volontà, dicendo. Sit pro lege uoluntas, la quale è sempre pessima: percioche procurano con ogni uiolenza di leuare i potenti, e di uccidere le persone saggie, e prudenti. Miseri coloro, che sotto un Tiranno conuitassero, e praticassero per cagione di scienze, o d’altro. fanno questo, accioche in tutto si estingua l’amicitia de’ popoli; e non mancano huomini scelerati, che vanno’ spiando quello, che fanno, et dicono i cittadini, cerca il Principe Tiranno di eccitare discordie tra i più potenti, e i plebei con la nobiltà, e allhora gode, percioche tutto il loro hauere à se tirano. Aggiunge, et pone ogni giorno nuoui tributi per succhiare il sangue à’ popoli infelici, et cosi fece Dionisio, che in cinque anni priuò tutti i sudditi del proprio hauere: e per concluderla il tiranno ha questi tre pensieri, come dice Aristot. di render gli animi de’ cittadini timidi, e vili; il secondo in procurar, che l’un non si fidi dell’altro; il terzo, che non possano per la pouertà operare alcuna cosa di momento, ne tentarla Dio buono, che horrido mostro è al mondo il Tiranno? Già che procura tutte queste cose uerso il suo popolo, volendo che la sua uolontà sia legge, e più che legge. la quale quanto ella sia pessima, ogni giorno si uede con miserabili essempi de popoli: poiche tanti innocenti sono da loro della roba, e della uita priuati, e in somma ciò che si sogna il Tiranno, sei tenuto à metterlo il giorno in esecutione: percioche. Tirannus imperatur ciutati non secundum honestum, sed secundum propriam sententiam, come dice Speusippo, e però ingiusto, auaro, crudele è sempre il Tiranno, riguardando solo à l’utile, proprio, e non à quello de’ sudditi suoi: P. 178 sempre brama uccisioni, perche sempre ha sospetto. Capo del Tiranni uoglio, che sia Alessandro, il quale dissendo regnato in Giudea sette anni fece morire cinquantacinque mila di quelli già vecchi, solamente per hauerlo ripreso delle sue tiranniche crudeltà. Oltre à ciò dimandò ad un suo amico, come farebbe à riconciliarsi col suo popolo, egli rispose con la morte, et egli fece appiccare per la gola su la piazza di Ierusalem ottanta huomini maritati, et i figliuoli, et le mogli fece miseramente morire. Da questo si comprende, che il tiranno non opera con giustizia, con legge, ma solo con un placet, Udite questo, che scriue Plutarco, tutti gli antenati di Antigono, e di Demetrio ammazzauano i figliuoli, i fratelli, e le mogli per timore, che alcuno di loro si impadronisce, uolendo soli regnare. Però i Tiranni sempre auelenano, et uccidono senza ragione alcuna: Il Tiranno. Niceforo oue rimane egli? non hauerà forsi luogo appresso gli altri par suoi? voglio che habbia luogo honorato, e luogo degno di un tanto perfido Tiranno, che non facendo questo son certa, che se li farebbe grandissimo torto, e potrebbe sospettare di non essere tenuto cosi fiero Tiranno, come egli era. Sotto l’Imperio di questo pessimo huomo molti piangeuano alle sepolture de morti chiamandoli con lagrimose parole felici, et fortunati, poi che non erano sotto la Tirannide del crudel Niceforo, altri si impiccarono da se stessi per uscir fuori delle ribalde mani. tutto il loro hauere fu tolto da costui, Commandò poi che i poueri fossero scritti nella militia, et che s’armassero poi contra à suoi compatriotti, et fossero tenuti à pagare al fisco diciotto monete insieme con tutto il suo parentado, per tributo publico. Diede ancora questa afflittione à gli habitatori delle case di rispetto, che da gli orfani, de gli spedali serocomii, delle chiese, de monasteri, facendo porre i censi per ciascun fuoco. comandò anchora, che tutte le cose migliori fossero portate alla corte Imperiale. Fece una altra tirannia, comandando à gouernatori, come se fossero stati ricchissimi, e trouatori de tesori. Oltre à questo ordinò, che tutti coloro, che passauano uenti anni, à quali fossero stati trouati dogli, ouero altri uasi, fossero priuati di tutti i loro denari, costringeua poi i marinari, che habitauano alla marina à lui pareua. Oltre à questo fece, che i marinari famosi Costantinopoli P. 179 dessero quattro misure di moneta ad usura, et che pagassero dodici libre d’oro l’anno, Voglio scriuere particolarmente questo atto fra tanti di auaritia di questo crudel Tiranno. Era in piazza un certo Cerolario, che viueua delle sue fatiche, et non haueua bisogno di cose alcuna, il fece chiamare questo diuoratore dell’hauere altrui, et li disse metti la tua mano sopra la mia testa, et giurami quanti denari hai, ricusaua il misero parendoli cose indegna; nondimeno lo costrinse à giurare, et dirli come haueua canto libre d’oro: subito il pessimo Imperatore fece portarsi quell’oro, dicendo che bisogno hai tu di quest’oro? pigliane diece libre, et uattene contento. Oltre à questo sempre mandaua spie, à ueder come si faceua, et uiueua nelle case, et mandaua secretamente alcuni serui maligni per far danno a’ padroni. Dubitaua nel principio di tutte le cose, che lo erano dette, et dapoi affermaua le false accuse. Ma sono tante, et tali le crudeli, et scelerate Tirannie di Niceforo, che io sarei troppo lunga, se io ne uolessi raccontare la minima parte, et offenderei le orecchie altrui; queste scriue Niceta Acominato. Onde à ragione Torquato Tasso chiama i Tiranni purpurei; perche sono aspersi del sangue degli innocenti. Tito Liuio racconta di Hieronimo Tiranno. Costui disprezzaua, et faceuasi beffe d’ogn’uno. Era inuentore di nuoue crudeltà, et tormenti. Onde era nato uno spauento tra popoli, che molti huomini con la morte volontaria, ò con la fuga schiuauano il pericolo de gli aspri tormenti, non si fidaua di alcuno, che questo è proprio sospetto del Tiranno; Ma fuggiua ogn’uno, come faceua Dionisio, il quale per grandissimo sospetto si faceua tosare grandi, si abbracciaua la barba, et i capelli con scorze di noci per non si lasciare approssimare alcuno. Isaccio Commeno anchor egli fù poco amoreuole Tiranno, et oltre le altre cose da lui fatte malamente uoglio scriuere questa. Hauendo hauuto una uittoria contra Brana, che nella gruerra fù ucciso, essendo giunta l’hora del mangiare fece il Tiranno aprir tutte le porte; perche potesse come uincitore esser ueduto da ogn’uno, et essendo già per dar delle mani nelle uiuande, ordinò, che fosse portato la testa di Brana, uiuanda in uero poco conueneuole, et facendosene scherno sgarbatamente, la fece gettare in terra con le labra, e gli occhi chiusi, et le daua de’ piedi, et alcuno altro per piacere al Tiranno le gettaua delle pietre, poi fece appresentare alla moglie la quale staua dolente rinchiusa nel P. 180 nel palazzo, et domandolle, s’ella conosceua la testa di chi fosse. La ualorosa donna girando gli occhi à quel compassioneuole, et no aspetatto spettacolo, sì rispose, però sono infelicissima, et tacque, ne altro disse, et per la sua tanta uirtù, con la quale sapeua sofferire patientemente le percosse di fortuna, ueniua chiamata honore delle matrone, et ornamento della propria famiglia. Doue rimane Pietro Candiano superbo, et d’animo tirannico? come scriue Pietro Marcello le cui parole sono. Petrus Candianus ducatum in manifestma tirannidem exercebat superbie, & minarum plenus per fas, & nefas omnia in arbitrio agebat, ita ut’ populo formidabilis esset, & tandem fuit truccidatus. Io potrei addurre molti essempi de gli huomini Tiranni; Ma percioche sotto i crudeli gli ho posti, non mi affaticherò intorno à questo molto; solemente io dirò, che Phidone fù Tiranno de gli Agri, phalaride di Ionia, panetio de Leontini, cispello di Corinto, Pisistrato di tene, Periandro di Ambraccia, Archelao, Gelone, et infiniti altri de Lacedemoni, e de Siracusani, i quali tutto hebbero, et à ragione un tristo fine, come racconta Aristoti.nel libro quinto della Politica. Barnaba, come scriue il Giouio, tiranneggiaua stranamente i sudditti suoi; hauendo sette figliuoli maschi cominciò à pensare, come potesse fare ad aggrandire l’Imperio. et però pensò di priuare di uita Galeazzo figliuolo di un suo fratello, il quale era stimato un’huomo d’ingegno addormentato, et contra l’ordinario della giouinezza non si pigliaua alcun piacere. Onde accordatosi co figliuoli, cercaua commodità di mettere in essecutione una cosi scelerata, et ingiusta opera. Ma Dio che talhora non vuol, che i suoi deuoti patiscono, che uno di questi si potea dire Galeazzo; essendosi nella età giouinetta dato alla religione, fece, che alcune spie l’auisarono della malignità de’ parenti tosto, che questo intese, finse di volere andare per sua deuotione à visitare la Chiesa di Santa Maria Vergine la qual è collocata tra monti: come fu in via, gli uscì incontra Marbana suo zio, et Galeazzo con un squadrone d’huomini armati lo prese, et entrando nella città diede al popolo la casa del zio, accioche la spogliasse, et in un punto rouinò il principato, et tante sue ricchezze si annullarono: ne vi fù alcuno, che essendo preso ardisse di soccorrerlo. Pochi giorni da poi lo cacciò in prigione, oue finì la sua vita. Et Francesco Manfredi; P. 181 d; quasi merauigliando, che nella sua vecchiezza hauesse tanto desiderio d’Imperio, dice; Qual ti mosse furor Barnada allhora, Ch’eri nel colmo della tua vecchiezza; Qual d’Imperio amarissima dolcezza De l’honesto sentier ti trasse fuora? Ciò spiacque al mondo, & à Dio spiacque ancora, Che l’opre triste in su’l principio spezza; Però cadesti tu da tanta altezza In cosi basso stato in poso d’hora. De gli Ambitiosi, & Cupidi di gloria. Cap. VIII. Benche l’ambitione sia tra le uitiose passioni: non [Abitione che cosa sia.] dimeno quando ella sia alquanto rimessa, et accompagnata da piaceuolezza, et modestia, si rende laudabile: come insegna Arist. nel. 4. dell’Etica al c. 2. ma quanto ella stia nella sua propria natura, non è forsi la piu cruda, et horrida fiera al mondo di lei; percioche essendo ella un’ardentissimo desiderio d’honore, come si legge nel li. 2. dell’Etica, c.2. spesse volte per volerlo conseguire induce gli huomini à far mille iniquità, et sceleraggini. Laqual cosa osseruando Cicerone à suoi tempi nel desiderio de’magistrati, et delle dignità, disse nel lib.ii.de gli Offic. Facillime ad res inuistas impellitur ut quisque est altissimo animo, et gloriae, cupido, hind enim iustitiae obliuio, et inimicitiae. Et percioche, come dice Speusippo, l’ambitioso diuien prodigo per ottenere i bramati honori: Spernit enim sumptus honoris gratia: Et mancandoli spesso i denari è spinto à farsi uno iniquo, et scelerato tiranno. Aggiungiamo à tutte queste cose, che per lo più l’ambitioso desidera quelle dignità, che à lui non si conuengono, ò in tempo, ò in luogo poco conueniente. Onde si fa odioso appresso ogni uno: et è riputato imprudente, et sfacciato secondo il costume mio me ne vegno à gli essempi de’ quali il primo sarà Caligula; perche so, che egli ne haurà P. 182 sommo contento, vedendosi tenre il Principato sopra gli ambitiosi, si come quegli, che li parerà d’hauer conseguito quel che desideraua, cioè di superare ciascuno, huomo ma non solo gli huomini, ma li Dei, come racconta Plini. In quel tempo usauano i Romani tenere la statue de’ Dei co’ capi posticci, ouer mobili. perche seruissero à diuersi Dei; egli fece leuar le teste, et metterne altre, che haueuano la sua sembianza. Oltre à ciò fece fabricare un tempio, e consecrarlo al suo nome, et porre in questo una statua con la sua imagine naturale, ordinando à Sacerdoti, che in quello amministrassero; et faceuala ciascin giorno uestire come si uestiua egli, faceua anco, che nel suo tempio si sacrificassero pauoni, fagiani, papagalli, et altri uccelli, come si faceua à i Dei: ma udite questa altra ambitiosa inuentione, che farebbe mouer le risa alla bocca della mestitia. Andaua etiando Caligula alcuna uolta nel tempo di Gioue et fermandosi appresso alla sua statua, fingeua di ragionar seco, hora accostando la sua bocca appresso alla sua statua, fingeua di ragionar seco, hora accostando la sua bocca à l’orecchia di Gioue, hora ponendo, la sua orecchia alla bocca di Gioue, come se fauellassero insieme, alcuna volta mostraua, che il longo ragionamento l’hauesse infastidito, et lo minacciaua che lo farebbe portare in Grecia: fingeua poi di placarsi, et di esser contento, che rimanesse iui appresso di se. Dio immortale, potreste uoi udir cosa piu ridicula di questa? Alessandro etiando ambiua tanto gli honori, che si sdegnaua esser chiamato figliuolo di Filippo: ma godeua in sentirsi chiamar figliuolo di Gioue: et, come dice Plutarco, fidandosi molto nell’esser figliuolo di Dio, era molto insolente verso i Barbari: et quando quel Sacerdote nel tempio Di Gioue Hammone volendolo chiamar figliuolino in lingua Greca, et perche era Barbaro, fallando nell’ultima lettera, lo chiamò figliuolo di Gioue, egli ne prese sommo contento. Oltre à ciò voleua dominare tutto il mondo, et hauendo inteso, che ci erano più mondi, si chimaua misero, et infelice. da questo si può comprendere, che gli huomini non sono satiabili; perche se anco hauessero tutto il mondo, vorrebbero poi il Cielo, né anchora à loro parrebbe forsi assai. Pausania fu desideroso di gloria in modo tale, che non sapeua, come operare per farsi immortale, et domandò ad Hermode, come egli farebbe per farsi nominare; egli rispose, che uccidesse un’huomo illustre, et egli udita questa parola corse, et uccise Filippo. O quanto può questo appetito di gloria ne i cuori de gli huomini. Ma che vi pare di colui, che abbruciò P. 183 il Tempio di Diana Efesia? Né voglio lasciar fuori Nerone, come quegli che desideraua gli honori, non solo delle cose grandi: ma delle picciole ancora, come nelle cose del cantare voleua sempre hauere i primi honori, fece leuare tutte le statua della città, facendosi porre la sua sola, accioche si conseruasse la memoria di lui, et mancasse quella di tutti gli altri. Et Lisandro lacedemone spinto dal desiderio di gloria haueua sempre Cherilo poeta, accioche egli celebrasse i suoi fatti, come dice Battista Fulg. Empedocle spinto da gloria, inuidiando un altro, si gettò nel fuoco, per rimanere, ancora egli glorioso. Ma che dirò di Domitiano Imperatore il quale voleua, che in tutti i testamenti, che si faceuano, essere notato con nome di Dio. Che del superiore Africano. che honoraua molto Ennio Poeta, non già per bontà, che in lui fosse, ma solamente accioche celebrasse i suoi fatti, et quelli d’altrui si estinguessero; Torquato Tasso mostra, che Boemondo hauesse un tal desiderio, dicendo. E fondar Boemondo al nuouo regno Suo d’Antiochia, alti principij mira, E legge imporre, & introdur costume. Et arte, e culto di verace Nume. Scorgete uoi l’ambitione di costui? Ma ancor udite la uana gloria di nerone; che si uantaua delle sua crudeltà, hauendo fatto morire infiniti huomini illustri, diceua, che nuino delli Imperatori stati innansi lui haueuano conosciuto quanto essi poteuano, eccetto egli. Et dicendo uno cosi per prouerbio commune dapoi, quando che io farò morto uadi il mondo in ruina, tosto ripose il fiero: Piaccia à Dio, che auanti, che io muoia, questo anuenga. Non uoglio, che Hannone Cartaginese resti fuori di questi uanagloriosi, poiche per quanto uedere si può, fu il più cupido, e desideroso di gloria, che forse al mondo fosse. Li uenne in mente un desiderio di sopra auanzar gli altri ne gli honori, et di essere riuerito, et adorato per Dio. sopra questo pensaua giorno, et notte: onde lasciò molti negotii, che importauano, et si affliggeua, perche non trouaua, modo, ò se lo trouaua; era difficile, et spesso si chiamaua huomo di poco ingegno, et di poco cuore. Di poco ingegno: perche non trouaua il modo facile, di poco cuore; perche non ardiua di mettere in opera il difficile, temendo di palesarsi; occorrendoli in mente l’essempio d’alcuni P. 184 alcuni, che donando denari al sacerdote, si faceuano dall’oracolo chiamar Gioue, et altri figliuoli, et parenti di Bacco. Onde erano poi dalle genti stimati di poco ingegno, et turbati. cercaua adunque di ritrouar uia di essere chiamato Dio, ma non da gli huomini, accioche non cadesse in cuore alle genti, che ò per oro, ò per forza, ò per altra cosa con tal nome lo nominassero. Dopo molti giorni, et mesi ritrouò un nuouo modo senza l’interuenimento di persona con tanta sua allegrezza, et giubilo, che huomo mai gustasse. Il modo era questo, cioè di farsi chiamar Dio da gli uccelli, che andauano uolando per lo suo, et per li altrui paesi: fingendo adunque di dilettarsi d’uccelli, che cantassero fossero atti a parlare se ne fece ritrouar molti, et de migliori, ogni giorno poi chiudendosi in una camera lontano dalle genti, fingendo di dormire, ò di fare altra cosa di consideratione, insegnaua con grandissima patienza à quelli uccelli, che dicessero Hamone è Dio, et molte uolte si occupaua tanto in questo, che lasciaua di mangiare i giorni intieri, per non perdere tempo. ò quanti n’uccideua spinto da l’ira, ò lor sterpaua la lingua parendoli, che ò tardi, ò malamente pronuntiassero il suo nome. Finalmente dopo molte uigilie, et fatiche impararono con grandissimo suo contento. sicuro di ottenere il fine tanto da lui desiderato. aperse adunque tutto lieto i luoghi, oue erano rinchiusi, accioche usciti che fossero uolando per la città, et per altri luoghi dicessero. Hamone è Dio, ma sprigionati che furno gli auenturati augelli, non cominciorno à parlare, ma volando in questa parte, et in quella à godere la cara libertà. Se restasse maleconico, et afflitto Hamone non accade, ch’io lo conti (pensatelo voi) vedendosi priuo di quello, che credeua al sicuro di ottenere. Tutti gli uccelli, che dopo questa cosa li vennero in mano, crudelmente uccideua; pestandoli il Becco, et il capo co sassi, vendicandosi in parte della ingiuria da loro riceuuta. P. 185 Delli Vanagloriosi, & Vantatori. Cap. IX. E La Vanagloria uno immoderato desiderio di manifestar ad ogn’uno le proprie operationi ben spesso falsamente narrate con la propria bocca, ouero scritti. [Vanagloria che cosa.] Ma di palesarle in modo, che per minime, che sieno paino grandi, et lodeuoli. Però sono sempre spiegate con grandissima copia di parole, con certi modi dire esclamatorii, et con gesti di tali, che pare che ui uogliano porre inanti fatti merauigliosi non mai per l’adietro accaduti, anchor che isprezzeuoli ouer, tritrouati. Dissi ritrouati, percioche per lo più sono attribuiti, et falsi, et però Speusippo cosi la descriue. Est obstentatio affectio, quae sibi uendicat ea bona, quae minime adsunt. Biasimò questo diffetto Arist. nel lib. 4. dell’Ethica. non essendo cosa da huomo prudente il lodar se medesimo. sono questi per il più bugiardi, et odiosi alle genti. Onde Cicerone in Ver. dice, Omnis arrogantia odiosa, tum illa ingenii, atque; eloquentiae multo molestissima. Ma non sol partorisce odio, ma disprezzo il uantatore, et però si legge nel lib. I. de gli officii, Deforme Est de se ipso predicare falsa praesertim, & cum irrisione audentium imitari militem gloriosum. Di costoro, iquali con false lodi si inalzano, io credo che si possa dire con Oratio. Parturient montes, & nascetur ridiculus mus. Et che veramente sieno huomini di poco valore, credere si può, costoro, che magnificano le cose loro. et accioche si possa vantare di essere stato il primo fra i vantatori Catone maggiore, li si darà il primo luogo, che come dice Plutarco spesso spesso si vantaua, et oltre mille altri vanti, che à se daua, diceua, che il Senato ne i tempi pericolosi della republica riuolgeua gli occhi in lui, come fanno i passaggieri al tempo della borasca verso il nochiero. et che in alcun conto Catone non era obligato al popolo Romano, ma che il popolo Romano era tenuto à Catone. Et Cicerone vedendo, che l’esserciccio delle armi era honoratissimo, egli che armi non maneggiaua, P. 186 volle deprimere la gloria militare, et alzar le lettere suora lei uolendo mostrare, ch’egli acquistaua maggior fama, disse Cedant ò Ciues, cedant arma togae. Et Domitiano quando fù fatto Imperatore si uantò in Senato, come egli hauea dato à suo padre, et à suo fratello l’Imperio, laqual cosa era falsissima; cosi fanno gli huomini, che non curano l’honor de’Padri, come Domitiano, che diceua che à lui haueua dato l’Imp. costoro se stessi inalzando, si vogliono mostrare amici anzi compagni de gli Dei, et si danno ad intendere, che gli altri non veggano i suoi diffetti. Achille era un gran vantatore, come si legge nelle Metamorphosi d’Ouidio, che mentre chiede à Cigno il suo nome si vanta onde l’Anguillara dice. Non ti sdegnar, che ti sia honore eterno Che solo il grand’Achille habbia potuto Donando al corpo tuo perpetuo uerno. Far l’ombra ignuda tua passare à Pluto. To sol potrai uantarti entro l’inferno Ch’al primo scontro mio non sei caduto Doue farai stupir mille altri forti, Che son la giù, ch’al primo scontro ho morti. Ma questo vantarsi, ò gloriarsi è tanto vostro proprio ò fratelli cari, che io non posso alzar carta d’un libro, che io non troui qualche uno di costoro, la qual cosa è molto biasimata. Che vi pare di Guidon seluaggio, ilquale essendo domandato da Marfisa il suo nome, cominciò con grandezza di parole à far più grandi l’opere sue di quello, che erano, come dice l’Ariost. nel canto. 20. L’altro comincia, poi che tocca à lui, Con più proemio à darle si se conto, Dicendo, io credo, che ciascun di vui Habbia de la mia stirpe il nome in pronto, Che non pur Francia, Spagna, e i vicin sui, Ma l’India, l’Etiopia, e il freddo ponto, Han chiara cognition ci Chiaramonte, Onde uscì il cauallie,r chuvccise Almonte. P. 187 Et và seguitando ancora una stanza, e mezza, vantandosi, scoprendo, e magnificando l’opere sue. E di Ferraù, che dice l’Ariosto? che si gloriaua di essere di maggior valor d’Orlando. Le cui parole sono: Il uantator Spagnuol disse già molte Fiate, e molte ho cosi Orlando astretto, Che facilmente l’armi gli haurei tolre, Quante indosso n’hauea, non che l’elmetto, E s’io no’l feci, occorrono à le volte Pensier, che prima non s’haueano in petto, Non hebbi già tal uoglia, hor l’haggio, e spero, Che mi potrà succeder di leggiero. Et in mille luoghi sopra il Furioso si potran leggere le parole di questi uantatori. et nell’Eneide non si legge spesso d’Enea? che si gloriaua hora delle opere, hora del lignagnio, et come fù approdato a i lidi Tirtii, parlando con sua madre si vantò, dicendo à lei, che richiedeua il suo nome. Sum pius Aeneas raptos ex hoste penates, Classe veho mecum fama super ethera notus, Italiam quaero patriam, & genus ob Ioue fumo. Omero nell’Odissea nel libro nono, mostra che Ulisse era uno di questi uanagloriosetti, mentre risponde al Re Alcinoo, che chiedeua il nome, et l’esser suo. I versi d’Omero traportati in volgar lingua da Girolamo Bacelli tali sono: Io sono Ulisse figlio di Laerte, Che tra tutti i mortali il primo honore D’essere astuto porto, e d’alto ingegno, Tal che la gloria mia giunge à le stelle. Et Ouidio non loda l’opera sua, et per lei non si promette eterna uita? dicendo nel lib. 15. P. 188 Iamque opus exegi, quod nec Iouis ira, nec ignes, Nec poterit ferrum, nec edax abolere uetustas. Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius Ius habet: incerti spatium mihi finiat aeui: Parte tamen meliore mei super alta perennis Astra ferar, nomen erit indelebile nostrum. Che vi pare, che ancor che fosse nobile, et ingegnoso Poeta: non dimeno priuo di questa vanagloria non era. Et il Petrarca nella seconda parte de i suoi Sonettii si fa gloriare per bocca d’Amore nella canzone che incomincia. Quel antico mio dolce empio signore. Con queste parole: Si l’hauea sotto l’ali mie condutto, Ch’à donne, & caualier piacea il suo dire: Et si alto salire Il feci, che tra caldi ingegni ferue Il suo nome, e de’ suoi detti conserue, Si fanno con diletto in alcun loco. E questo gloriarsi tanto proprio de gli huomini, che io non uoglio più stendermi in raccontarne. Ma Herodiano Principe d’Arcadia non sopporta, che io la lasci à dietro, et onde pur’è forza, ch’io lo accetti nel numero de’ uantatori, il qual uoleua la palma di nobiltà, come dice il Trissino di lui ragionando con tai parole; Il qual di nobiltà uolea la palma, E dicea, che gli antichi suoi maggior Nacquero in Grecia, auanti che la Luna. Gran uantatore, et ambitioso fù Agamenone, come mostra Homero nel lib. 2. dell’iliade con tai oarole. P. 189 Se ipse induit speldidum aes, Glorians quod omnibus prestabat heroibus. De gli huomini crudeli ingiusti, & mi cidiali. Cap. X. [De gli huomini crudeli.] SONO chiamati da ogn’uno gli huomini con questo horribile aggiunto, ò epiteto de fieri, quasi che dalle fiere hauessero trouato questo modo di operare; cosa in vero falsa, come ben lasciò scritto Aristotile nel libro secondo delle grandi morali al capitolo settimo; dicendo; Rursum, ut supra mentionem fecimus de feritatis uitio, non est ipsum in fera spectare, sed in homine, feritatis si quidem nomen adeptum est id uitium ob singularem improbitatem. Sed cur in fera nihil? nempe, quod improbum in fera principium non sit. Est siquidem ratio principium. Quis uerò improbior, flatitiosiorque fuerit, incertumque, Leone, an Dionysius, an Phalaris, an Clearchus, vel horum quispiam in signis cuiusdam immanitatis. Certum autem est malum in his principium illustria facinora coniectasse, at in fera nullum prorsum initium. Non si conuiene adunque a lle fiere la crudeltà; percioche non è in quelle alcuna maluagità, essendo esse priue di ragione, nella quale la maluagità risiede. Et se alle fiere non conuiene, non è adunque cauato questo epiteto da loro, ancorche noi, l’huomo macchiato di crudeltà, chiamiamo una cruda, et horribil fiera. Non è altro crudeltà, che uno insatieuole desiderio di offendere altrui. Ma quando alle facultà si stende, più tosto si ha da chiamare una tirannica auaritia, et però gli antichi chiamorono la crudeltà con questo aggiunto: Cruentam, cioè sanginosa. Onde Cicerone dolendosi delle persecutioni disse: Ii quorum crudelitas nostro sanguine non potest expleri. Et in uero un acerbo, et atroce huomo, ancorche vegga correre i fiumi di sangue, non si sente satio, anzi più s’inaspra, et fino contra la morte incrudelisce, et però Cicerone disse; Is suam insatiabilem crudelitatem exercuit non solum in uiso, sed etiam in mortuo. Ma veniamo à gli essempi, et udire parole P. 190 veramente degne di un animo crudelissimo, lequali furono dette, come scriue Suetonio, et Cornelio Tacito da Aulo Vitellio. Caualcando questo scelerato Imperatore verso Roma, et passando pel luogo, doue i suoi capitani haueuano hauuta una vittoria contra i soldati di Ottone, trouò i campi pieni d’huomini morti, i quali ancora non erano stati seppelliti, et alcuni sentendo noia dal fettore, che da quei corpi usciua, Vitellio lor rispondeua, dicendo, che non era il più soaue odore di quello del nemico morto, e molto più del cittadino; parole inhumane, et empie. Costui mai non rimaneua di usare grandissime crudeltà, et cercaua di ugguagliare Nerone: egli fece uccidere molti à torto, dandoli false accuse, et il simile faceua à quelli, i quali erano stati suoi carissimi amici: et udite essendo ammalato un suo amico, et egli andandolo à uisitare li porse il ueleno di sua mano nell’acqua fredda, che colui hauea dimandata per bere. una altra uolta questo Clemente Imperatore fece uccidere duo fratelli; perche lo pregauano, che perdonasse la morte al Padre: io non credo, che le furie infernali sieno tanto crudeli; perche à i preghi di Orfeo piangeuano, come dice Ouidio, che pregaua per la moglie con queste parole. Tunc primum lacrimis uictarum carmine fama est, Eumenidum maduisse genas. Da questo si può comprendere, che più pietà si ritroua nell’inferno, che in questi crudeli. Appresso costui voglio ponere Andronico Comeno, ilquale cercaua giorno, et notte, come potesse ritroua re noue maniere di crudeltà, et credeua di rimaner morto quel giorno, che non hauesse fatto morire qualche dotto, et eccellente huomo, ò almeno fatto cauar gli occhi, ò con una faccia diabolica non l’hauesse spauentato: et era molto simile a un Pedante, che tratto tratto batte i fanciulli co’l flagello. Onde auueniua, che le persone, che erano tutto il suo Imperio, uiueuano meste, et ne dormiuano mai un sonno cheto. Ma spesso si risuegliauano spauentate, pensando che Andronico fosse lor sopra per ucciderli quando era in una casa marito, et moglie faceua morire il maschio, et la mogliere faceua mettere in prigione, et ad alcuna altra cauar gli occhi. Oltre à questo faceua, che patissero fame, sete, et battiture. Allhora i Padri poco tpprezzauano i figliuoli, et figliuoli poco i Padri; percio che P. 191 l’iniquo Andronico hora uccideua i Padri, hora i figliuoli. Se erano cinque persone in una casa, le due si nimicauano con le tre. molti fuggiuano à uele, et à remi lo sdegno di questo crudele, et scelerato, come il fuoco di Sodoma. Costui faceua segar gli huomini per mezzo, et altri abbrucciaua, et faceua altre crudeltà. Questo racconta Nicera Acominato dicendo, che era peggio di un lupo, bestiale, crudo, inessorabile, et fiero. Ma che dirò io di Antonio Conte di Monferato? il quale fece abbrucciare un suo ragazzo inuolto in solfo, perche non l’hauea destato all’hora solita, come dice Battista Ful. ò che impietà,ò che rabbia non dirò di fiera. Timone Ateniese accarezzaua oltre modo un fanciullo, il quale haueua ad essere gouernator de gli Ateniesi; percioche giudicaua, che’egli hauesse ad essere crudele, et aspro. crudelissimo fù Asdrubale inuentor di mille sorti di tormenti, et di morti, ò che inuentiue scelerate, nimiche à Dio, et à l’humana generatione. Alberto Imperatore mentre si apparecchiaua de andar contra Franresi, fù da suo nepote ucciso, ne hebbe rispetto alla parentella, ne ad alcuna altra cosa. Come narra Batista Ful. Paolo Oroseo questo scriue questo di Filippo nel primo libro delle Historie. Igituo Philippus.ubi exclusum se ab ingressu Greciae perstructis Termopylis videt; paratum in hostes bellum: vertit in socios: nam ciuitates, quarum paulo ante dux fuerat: sibi gratulates, acse accipietes paretes hostiliter inuadit, crudeliter diripit omnique societatis conscientia penitus abolita congiuges liberos sub corona uedidit: templaque uniuersa subuertit, spogliauitque: nec tamen inquam per annos. xxv. quali iratus dieis victus est. Post hec in Cappadociam transiit: ibique bellum pari perfidia gessit: captos per dolum finitimos reges interfecit. Ma Licaone oue resta? Il quale hauendo fatto pace con gli Albanesi henne da loro per hostaggio un nobilissimo giouine; passato il termine vedendo gli Albanesi, che Licaone non li mandaua il giouine il mandarono à domandar per ambasciatori, sdegnato Licaone inuitò gli ambasciatori à mangiar seco, et uccise il giouine ostaggio, et fattone far varie viuande il diede lor à mangiare: Lisata giouine di Arcadia chiamato Gioue si accorse mangiando, che quel conuito era fatto di membra humane; onde gittò furioso la mensa à terra, et adunati molti amici combattè con Licaone, et il vinse. egli fuggì ne boschi: onde fingono i Poeti, che Gioue il cangiasse in lupo per P. 192 per mostrare, che gli huomini crudeli sono molto simili à questo animale. essendo ogn’hora sitibondi di sangue. onde di lui parlando dice l’Anguillara. Si fe d’un’huomo un Lupo empio, e rapace Seruando l’uso de l’antica forma, Che l’human sangue più che mai li piace, Se suoi vecchi desir seguendo l’orma. Si legge delle guerre Greche scritte da Senofonte, le quali continuauano l’Historia di Tucidide la sceleratissima crudeltà usata da gli Argiui, Beoti, Ateniesi, et Corinthi. Costoro erano stati corrotti con denari da Agesilao, et erano stati cagione di molte guerre. però alcuni huomini di Corintho, i quali, l’oro del Principe Agesilao non haueua potuto corrompore, desiauano la pace, il qual desiderio peruenuto alle orecchie de gli Argiui, de Beoti, degli Ateniesi, et de Corinthi, temendo, che se non dstruggessero quella pace, che la lor città si riducesse alla deuotione de Lacedemoni, dissegnarono di ammazzarli e benche non fusse costume uccidere alcuno di giorno festiuo; nondimeno elessero una festa solenne à far macello de gli innocenti, et poneno mano alle spade, ne uccissero alle mense, ne i cerchi, et ne theatri, mentre ragionauano con gli amici molto furono estinti innanzi à gli altari, et ne tempi, e fu tale la, crudeltà, et il disprezzo de gli Dei, che furono alcuni huomini, che uendendo si triste operationi, senza hauer riceuuto ferite, cascarono morti. Io stò in dubbio se io ci debba mettere Nerone, le crudeltà del quale seno tante note, che non ci è alcuno per ignorante, che sia, che non sappia, che Nerone fù crudelissimo. Io uò lasciar tutte le altre, et solamente vo dire, come uccidesse Seneca famoso, et Lucano Poeta. A Seneca, perche era stato suo maestro, volle fare questo piacere, che si eleggesse quale morte più li piaceua; il misero Seneca pensando, che tutte le morti sono pessime, essendo la morte ultimum terribilium, si marriua: pure alla fine disse, che li fosse tagliara una uena, et fosse posto in un bagno. Udite che scelerataggine, gli fece tagliare la vena, et lo fece mettere in un bagno auelenato. Si può sentire meglio: fra queste opere nefandissime si compiacque di vedere fuochi, et facendo accenderlo ne gli edificii di Roma, ninno P. 193 ardiua di ammorzarlo per paura di Nerone: egli montaua sopra un alata torre, per dilettar la vista di sì horribile, et spauentoso spettacolo, del quale ne prendeua sommo piacere, et cantaua quei uersi di Omero, che conteneuano l’incendio di Troia. E tanto fù il distruggimento, che fece in Roma il fuoco acceso da questo diauolo, che di quattordici grandissime regioni, le quali erano in Roma, solo quattro rimasero libere dallo’ncendio, et furono arse (ah mise rabil veduta) le case, i tempii, le spoglie delle hauute vittorie, et ricchezze infinite: Tutto questo scriue Suetonio, Eusebio, Eutropio. Paolo orosio, Isidoro, et Cornelio Tacito. Ma doue lascio Caligula Imperatore crudelissimo? che fece delle sue crudeltà marauigliare gli scruttori. Condannaua à morte gli huomini à torto, con tormenti non mai più diti; alcuni faceua mettere viui fra le fiere, che teneua per cagion delle feste, et alcuni altri faceua sbranare à suoi carnefici, et voleua, che fossero presenti i cari padri, et tutti gli altri parenti; poscia inuitaua loro à mangiar seco, et faceuali ragionar di cose liete, et piaceuoli. Tutto lo suo ingegno poneua in pensar, come potesse trouar nuoue maniere di tormenti. Onde era tanta la paura, che molti si uccideuano prima, che fosse data la sentenza si distruggeua; perche tutto il popolo Romano non hauea un solo collo per poterlo tagliare in un sol colpo, et teneua per isfortunati i suoi tempi, et si rammaricaua della loro infelicità; perche non v’erano pestilenza, terremoti, diluuii fame. indendii, et altre simili disauenture. Hor che uipare di costui, il quale haueua animo si pietoso, et amoreuole uerso i suoi Cittadini? Né voglio lasciare Alessandro Fereo, il quale era un mostro di crudeltà nell’età sua. Costui non contento di dare à gli huomini le solite morti, feceua sotterrare gli huomoni uiui, perche diceua, che moriuano troppo presto, altri faceua portare in cuoi di cinghiali, et d’orsi, et poi li faceua sbrabare à i cani da caccia, per darsi piacere. Si può pensare peggio? certo nò: Un girono essendo ragunati insieme gli huomini della città Melibea, et Scotusa, come amici all’huomo scelerato egli mandò i suoi sergenti, et li fece tutti uccidere non guardando à grandi ne à piccoli. Questo afferma Plutarco. Crudo, et senza ingegno fù Tiberio Imperatore come se fosse stato un fancuillino; per che egli era stato tolto un frutto del suo giardino, fece cercar colui, che tolto l’hauea, et lo fece uccidere per dispiacere, del pomo tolto ma questo era nulla, per leuissime cagione condannò à morte i più Illustri P. 194 Cittadini Romani, et confiscò loro tutti i beni. Per opera di Roberto Re di Sicilia fu dato ad Henrico, (disegnato Imperator da Papa Clemente) il veleno nella Eucaristia, et nel sangue di Giesu Christo, et cosi finì la sua uita, come scriue Egnatio. Si può sentir peggio? io mi meraviglio, come il cielo non fulminasse questi scelerati. Orcane Re de’ Turchi figliuolo di Celapino diede se medesimo in poter del zio, confidandosi nella sua fede. Il perfido huomo lo spogliò del regno, et della vita. Vettor Pontefice, dopo un’anno, che fù assunto alla supresa autorità del Ponteficato, morì non senza sospitione di Enrico, che mentre sacrificaua, li hauesse porto il veleno nel calice, come racconta il Volaterano, Marsullo scriue, che Bilioto Astrologo morì per fonghi aspersi di veleno à simiglianza di Claudio.onde dice. Dum cauet Astrologus perituris sidera nautis, Dum boletis sibi non cauet ipse perit. A Diocletiano non giouò il rifiutar l’Imperio, che cosi priuato, li fù dato da i suoi clienti il veleno: et il medesimo fù fatto à Lodouico Balbo, mentre imperaua Crasso suo fratello. O quante sorti di veneni usano questi scelerati: auelenano, con finghi, co’l Sacramento, et in mille altri modi. Come cong li specchi, cone le staffe, coguanti, con gli odori, et finalmente come dice Gilberto anco congli sguardi. Ma che diremo noi di Settimo Seuero, il quale pieno di una rabbiosa crudeltà corse con un furioso cauallo sopra il corpo morto di Albino? O che mostri, usciti fuori delle più tenebrose cauerne, che l’hanni a l’Ircania, Non voglio già lasciar l’Arciuescouo Rugieri, il quale fece morire di fame il Conte Ugolino, ma voglio lasciar l’istoria, et mettere i versi del nostro Dante, il quale fa cosi dire al Conte Ugolino nel canto 55. dell’Inferno. Che per l’effetto, se’ suoi mal pensieri, Fidandomi di lui, io fossi preso, E poscia morto dir non è mestiere. E più sotto dice, per non essere troppo lunga, la qual cosa non mi piace. Già era io desto, e l’ora s’apprestaua, Che’l cibo ne doueua essere addotto E pe’l suo sogno ciascun dubitaua, P. 195 Et io sento chiauar l’uscio di sotto, A l’horribile torre, ond’io guardai Nel viso à i miei figliuol senza far motto, Io non piangeua, sì dentro impetrai; Piangeuano elli, & Anselmuccio mio Disse. che guardi sì padre, che hai? Però non lagrimai, ne rispos’io Tutto quel giorno, ne la notte appresso. Infin che l’altro Sol nel mondo uscio: Come un poco di raggio si fù messo Nel doloroso carcere, & io scorsi Per quattro visi il mio aspetto istesso, Ambe le mani per dolor mi morsi, E quei pensando, ch’io’l fessi per voglia Di manicar, di subito leuorsi, E disser, padre, assai ci sia men foglia Se tu mangi di noi, tu ne vestisti Queste misere carni, e tu le spoglia. Quietaimi allhor, per non farli più tristi Quel dì, e l’altro stemo tutti muti; Ahi dura terra; perche non t’apristi? Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gettò disteso à i piedi, Dicendo, padre mio, che non m’aiuti? Quiui morì, e come tu mi uedi Viddi io cascar li tre ad uno ad uno, Fra il quinto, dì, e’l sesto, ond’io mi diedi Già cieco à biancolar foura ciascuno, E tre dì li chiamai, poi che fur morto, Poscia più, che’l dolor potè il digiuno. E più sotto Esclamando Dante, mosso à misericordia di tanta Impietà dice. O Pisa, vituperio delle genti, Che se’l Conte Ugolin hauea tal uoce, D’hauer tra dito te delle castella, Non douei tu i figliuoli porre à tal croce, P. 196 Et il crudelissimo huomo lasciò morire il misero Conte con quattri figliuolini innocenti. Io non uoglio lasciar Baciano, il quale fece uccidere Alessandra sua moglie fidelissima, et castissima; perche era uenuta alla fede di Christo, per le sanie parole del Beato Gregorio. Ne Mezzentio, che fece cridelmente decapitare Faustina sua moglie per la stessa cagione. Attila, che per la sua crudeltà, fu chiamato, flagello di Dio. come scriue Paolo Orosio, fu huomo auidissimo d’Imperio, et sitibondo oltre modo di sangue humano, Aquileia conferro, e fuoco ruinò , disfece, et rubò molte illustri Cittadi, assediò Firenze, né potendola per forza hauere, si voltò à gli inganni, et con molte false parsuasioni indisse i Cittadini à riceuerlo nella Città, et gli sotto specie di honore fece camera all’altra, faceua lor crudelmente uccidere, e gittare in una gora deriuata Dall’Arno. Inteso il popolo la fiera, et spietata uccisione, et vedendo l’acque della Gora sanguigne, tumultuò; onde Attila mandò i soldati per la terra, et fece che uccidessero tutti grandi, piccioli, huomini, et donne; né alcuno si saluò, se non quelli che fuggirono. E ben mostraua nel feroce, e terribile aspetto la crudeltà et impietà dell’animo scelerato: come dice il Tasso in quei versi al Canto decimosettimo. Che con gli occhi, di drago, par che guati, E la faccia di cane, & à vederlo, Dirai che ringhi, e udir credi i latrati. Et Phalari, ilquale fu Re di Agrigento, per la sua grandissima crudeltà proponeua premio non di poca stima à chi hauesse trouato nuouo tormento contra gli huomini. Era Perillo in quei tempi famosissimo artefice, et di grande ingegno. costui di sottolissime piastre formò un Toro di bronzo, nelqual voleua, che entro lui si mettesse, chi hauesse ad essere ucciso, et se li accendesse intorno un fuoco grande; onde quando per souerchio ardore l’huomo gridasse, uscisse una horribil uoce, che paresse muggito di Toro, Per tale opera Phalari li rendè degno premio; percioche uolle, che fosse il primo, che prouasse, se il tormento era conuenientemente grande, et fù cosa giusta, che l’inuentore di tata crudeltà, quella medesima patisse: et benissimo espresse questo Ouidio: P. 197 Non est lex equior ulla:quam necis artificem fraude perire sua. Et Propertio dice di Perillo. Et genera in tauro soeue Perille tuo. Silla essere crudo, et spietato non cedeua ad alcuno, et venendo un giorno à Preneste, et quiui i giudicii priuato, puniua i Cittadini ad uno ad uno; ma quasi, ch’egli non hauesse tempo di ucciderli, l’un dietro all’altro fece ragunarli tutti in piazza, et comandò, che fossero tagliati à pezzi dodici mila huomini. Et solamente donò la vita à colui, che in casa l’alloggiaua: Ma egli contentandosi di morire con gli altri Cittadini, domandò di esser leuato di vita; et egli lo fece uccidere. Oltre questo fece uccidere sei mila nemici nel tempio di Bellona. Furono ammanzati per lieui cagioni assaissimi huomini di gran conto. essendoli domandato da un certo Metello, quali huomini voleua lasciar viui; rispose Silla, che ancora non si era ben risolto, quali voleua saluare. Subito metello soggiunse, dacci ad intendere almeno, quali deuono essere puniti, senza dimore la crudele bestia proscrisse ottanta, persona senza communicare il suo pensieri con alcun Senatore, et hauendo ciò tutti per male, postoui unogiorno in mezo, ve ne aggiunse altri dugento, et venti. La terza volta ne aggiunse altri tanti, et ragionando egli in publico sopra di questa cosa, disse, che proscriuea tutti coloro, di cui si ricordaua, et un’altra volta haurebbe proscritto quelli, che allora non gli ueniuano à mente. Era pena la morte, se alcuno per humanità perdonaua la morta à coloro, che erano proscritti: à colui, che quelli ammazzaua, daua duo talenti, ancorche il seruo hauesse ammazzato il padrone, ò il figliuolo il padre. Ma quel parue ingiustissimo cosa, priuò d’ogni homore et i figliuoli, et i nepoti de i proscritti. Nè solamente in Roma, ma in tutte le città d’Italia si faceuano le proscittioni, tal che nè le habitationi paterne, nè le case delli amici, nè i tempii de i Dei erano sicuri da gli homicidii. I mariti erano ammazzati in seno delle misere mogli, i figliuoli in braccio alle madri. Furono morti molti per ira, molti per inimicitia: ma molti più per denari; perche gli huomini fra tanti vitii, che hanno in se stessi, nell’auaritia quasi auanzauano ogni altro. ma notate questa crudeltà. Vi fu un certo huomo dato all’otio, il quale non si credendo da compassione di quelli infeici, et quiui si mise à leggere le proscrittioni, P. 198 fra i quali trouò se medesimo, et andando un poco innanzi fù morto da persecutori. Se io volessi scriuere le crudeli attioni di questo pessimo huomo son certa, che mi mancherebbe il tempo, et forsi la carta, et l’inchiostro; ma basti questo poco, appresso al molto, che io tralascio. Dionigi Siracusano Signore di Sicilia, fù crudele, aspro, ingiusto; onde i sudditi suoi viueuano in miseria grandissima, altro di lui dir non voglio; perche sono troppo lunghe le crudeltà, et sceleraggini; ma ueniamo ad Azzolino, da Romano, castello di Triuigi; benche Musato Padouano lo finga in una sua Tragedia figliuolo del Diauolo; Costui crudelmente, signoreggiò Padoua, Vicenza, Verona, Brescia, et per la sua rabbiosa voglia di continua uccisione fece uccidere molti huomini, et alcuni altri mandò in essilio; ma dopo che i Padouani si furono ribellati, rinchiuse nel prato di padoua dodici mila, et più huomini, et tutti li fece ardere, et hauendo preso sospetto d’un suo cancelliere, et hauendo determinato farlo morire, li domandò se sapeua, chi erano rinchiusi nel palancato, rispondendo il misero Cancelliere, che li hauea notati tutti, ho determinato, disse Azzolino, di volere presentare le anime di costoro al Diauolo per molti beneficii, che io ho riceuuto da lui: però hauea determinato che tu andassi all’Inferno co’l’quaderno insieme con loro, et da sua parte gliele appresentassi, et cosi lo fece ardere con gli altri, Ma questo, che di lui ho scritto, è un giuoco appresso le altre sceleraggini, et le altre crudeltà. L’Ariosto tiene, che costui habbia auanzato tutti i crudeli, dicendo di lui questo. Che pietosi appo lui stati saranno, Silla, Mario, Neron, Gaio, & Antonio. Creonte fu crudelissimo infino verso i corpi morti, come dice Statio nella sua Tebaide, la quale tradotta in volgare lingua da Erasmo Valuasone, cosi dice di lui parlando. Vuole il crudele, ch’à le pruine, e al Sole Marciscan le reliquie de la terra, Er ch’errin d’ogni stanza escluse, e sole L’ombre, i cui busti alcun marmo non serra, Fatta la legge in scritto, & in parole, A circondar và l’occupata terra. P. 199 Et Medoro nel Furioso dell’Ariosto così dice à Zerbino, di lui Et se pur pascer vuoi fere, & augelli, Ch’inte il furor sia del Teban Creonte. Et Mario il giouaue, figliuolo di Mario il vecchio, come scriue Plutarco, fù oltre à modo crudelissimo, fece tagliare à pezzi i più nobili cittadini di Roma. Teodosio Imperatore fece una horrenda, et nefanda crudeltà in Tessalinica, facendo uccidere sette mila poueri, et innocenti cittadini senza alcun ordine di giustitia, et questo solamente mosso da passione Mezentio fu uno de’ Prencipi crudelissimi di Toscana, biasimato di nuoua, et inusitata crudeltà contra gli huomini, legaua i corpi viui con quelli de’morti sanguinosi, et uccideua i miseri sudditi con questa maniera di tornenti, oltre ad altre maniere però dice lui ragionando Virgilio nel libro ottauo. Quid memorem infandas cedes, quid facta tiranni Effera? dii capiti ipsus, generique reseruent. Componens manibusque manus, atque pribus ora Romenti genus, & faniae, taboque fluentes, Complexu in misero longa sic morte necabat. I quali versi traslati in volgare tali sono: dal Caro. A che di lui contarle sceleranze, A che la ferita, Dio le riserui Per suo castigo, & de’seguaci suoi, Questo crudele infino i corpi morti Mescolaua co i viui(o di tormento) Che giunte mani à mani, e bocca à bocca, In così miserando abbracciamento, Gli faceua di putredine, e di lezzo, Viui di lunga morte al fin morire. O quante maniere di tormenti trouano quegli scelerati petti, la morte stessa non è tanto horribile, quanto la fanno parere questi pessimi atroci huomini; però cosi dice il Petrarca nel cap. 2. della Morte. Silla, Mario, Neron, Gaio, e Mezentio, P. 240 Fianchi, stomachi, e febri ardenti fanno Parer la morte amare più che assentio. Diomede Re di Tracia (udite crudeltà) pasceua i caualli di corpi humani; però Ouidio nel lib. 9. fa cosi dire di lui ad Ercole, mentre era diuorato dal ueleno di quella camicia infettata dal sangue dell’Idra. Quid?cum tracis equos humano sanguine pingues, Plenaque corpiribus laceris presepia vidi? Visaque deieci?dominum, ipsosque peremi? Che vulgarizzati da Fabio Maretti tali sono. Vid’io pur d’human sangue i corsieri grassi In Tracia, e pieni i lor presepi spesso Di corpi in pessi, e sei di vita casti, Ciò visto quelli, & il padrone istesso. Ma doue lascio Busiride crudelissimo Re de gli Egittii, il quale sacrificaua tutti i forestieri à Gioue, che finalmente fu ucciso da Ercole, il quale dice nel lib. 9. Di Ouidio: Ergo ego faedantem peregrino templa cruore, Busirim domui? Ne giusto è che rimanga fuori, di questa pessima compagnia, Domitiano, ilquale, come racconta il Tarcagnota, fece morire una gran quantità di Senatori, et molte altre persone di alto stato con molte pene. et ne fece anchor’magiare à cani. ma lasciamo costui, ancor che sia soggetto tale, che molta materia dia ragionarne. et ritrouiamo Bassiano Imperatore, il quale non cede à nuino altro ne vitii, et nelle crudeltà. Celebrauansi in Roma i giuochi Circendi, et alcuni Romani haueuano motteggiato un Carrattiero molto caro à Bassiauo, il quale sdegnoso, et furibondo fece venire l’essercito armato, che tagliò à pezzi, il popoli, spettatore de giuochi, in guisa, tale, che in Roma, non fù mai ueduto il più spauenteuol macello. Questo iniquo Imperatore spesso minacciaua il Senato, et il popolo, dicendo che un giorno si sarebbe fatto P. 241 fatto conoscere per un nuono Silla, ilquale sommamente, per le sue crudeltà lodaua, essendo questo bestiale huomo in Alessandria, gli Alessandrini il prouerbiauano; perche haueua pigliata la matrigna per moglie, et hauea ucciso Geta suo fratello; egli intendendo questo ardendo di nuouo sdegno, et crudele più che mai fosse, finse di volere fare una bella Phalange in honore di Alessandro. Onde fece la più bella, et scelta gente, raccore insieme fuori della Città, et poi cingendola col suo essercito la fece (o miserabil veduta) crudelmente uccidere. Scriue Spartiziano, ch’egli commise à suoi soldati, che ciascuno di loro uccidesse il suo hoste nella citta: ma non voglio, piu stendermi in narrare le crudeltà di questo sanguinoso lestrigione. essendosi Macrino, che chiamandomi ad alta voce mi prega, ch’io nol lasci nella penna, ricordandomi che non rimane dietro ad alcuno nell’essere crudele, et sanguinolente. Costui fù simile à Mezentio nelle sue crudeltà, per leggierissime cagioni fece mettere in croce molti suoi soldati, et di fame moriuano. Fece morire due soldati nel seguente modo. fece aprire duoi Torri, et vi fece chuidere dentro i soldati con la testa fuori; accioche si potessero ragionare, et lor faceua dar bere latte con sele di bue. Onde vissero miseramente alcuni giorni. Ma doue rimane Quinto Flaminio? Tito Liuio dice di lui tali parole. Essendo stato introdotto un nobile Gallo nel padiglioni di Quinto flaminio, et hauendo cominciato à ragionare per via d’interpetri, Quindi domandò ad un fanciullo, che sfacciato era, accennò di si. egli prese una spada, et lo ferì su la testa, et poi lo passò da un fianco all’altro. considerate per vostra fè, che huomo iniquo, et empio egli era ad uccidere uno inocente à torto, ilquale dimandaua sicura stanza per se. Dice Valerio Antiate, che essendo questo acerbo, et atroce huomo in Piacenza fece venire una famosa meretrice à se hauendo fatto apprestare un gran conuito, quasi uollesse honorarla, gloriandosi con essa lei de’ suoi fatti egregi, et più delle sue crudeltà. et le raccontaua come aspramente hauesse fatto esaminare i rei, et quanti ne teneua in prigione per farli decapitare, et tormentare. et ella disse, che non haueua veduto in sua vita uccidere alcuno con la manaia, la qual cosa molto desideraua: subit Quinto fece trarre di prigione un condannato, et lo fece decapitare in sua presenza, Onde Tito P. 102 Tito Liuio chiama questo atto atroce, et crudele; perche la mensa in cui era il vino, il quale in honore de gli Dei, si gustaua fu da una humana uittima macchiata. Dio buono, si può sentir peggio? certo nò. Crudelissimi sono i Francesi, come racconta il Giouio, et molti altri Historici. et udite quello, che racconta Girolamo Riscelli di cotali huomini essendo egli con esso loro nella presa di Brescia. Io, dice, in qualunque casa mi fermaua per mangiare, ò per bere altro non uedeua ne di giorno, ne di notte, che infelici gentilhuomini spogliati nudi, legati battuti, et appesi co i piedi sopra il sopra, alcuni con sbadagli in bocca, ò puntellata la lingua con un legno, ò con un pezzo di coltello sopra la lingua, et sopra il palato, et con altre nuoue guise di tormenti: onde m’era venuta la uita à noia, et desideraua morire. alle donne non mancauano, mille maniere di tormenti acerbissimi: onde non era ad alcuna persona perdonato, ne à vecchio, ne à giouine, ne à donna, ne à fancuillo, ne à luoghi sacri: pero potete conoscere la crudeltà loro molro maggiore di quella de barbari: ma lasciamo costoro. Scriue Plutarco, che Filippo teneua una finta amicitia col Re Arato: ma poi scoprendo la sua natura lo fece auelenare da Taurione Capitano, et morto Arato operò con alcune beuande in modo, che leuò l’intelletto al figliuolo d’Arato. Onde essendo in misero impazzato faceua cose horribile. Ma udite questa crudeltà, et horribile sacrificio, che cosi lo chiama Plutarco, gli ambasciatori di Tarquinio haueano tirati à far uno tradimento molto giouinetti, il tradimento era di tal fatta, che ammazzassero tutti i Consoli, et togliessero di notte tempo il Re Tarquinio nella Città. tutti i giouani dosposti à far l’uccisione de Consoli, facerono uno horribil giuramento in questo modo. Scanarono un’huomo, toccarono le sue viscere, et gustarono del suo sangue. et poi stauano aspettando il tempo opportuno di uccidere tutti i Consoli: ma la cosa non andò fatta à i pouerelli; perche eglino furno traditi, et da’ Consoli morti. Ne sia bene che rimanga à dietro Federico Imperatore, il quale scaramuzziando co’ Romani, quanti faceua prigione, tanti faceua patire la testa in croce, ò con un ferro affocato faceua loro fare una croce nella nella fronte. Doue resta Arisio crudilissimo? il quale hauendo prigione Balduino, come una fiera arrabbiata gli fece tagliare le gambe, et le braccia. et poi gittarlo dall’alta cima di un monte in una profondissima valle, come scriue l’Acominato. dice il medesimo Autore, che non cedeua P. 103 punto à costui Giustiniano Imperatore, il quale fece molti con in humana crudeltà morire, facendone molti legare ne sacchi, et gettare in mare, ad alcuni cauar gli occhi, molti decapitare; et fece molte altre opere di pietà, et di amore simili à queste. Paolo Giouio racconta la natura amoreuole di Cesare Borgia, detto il Valentino, con tai parole. Gli Orsini furono quasi tutti crudelmente morti da lui. i Signori Gaetani, iquali possedeuano la terra di Sermonetta in campagna di Roma Iacopo, Nicolo, et Bernardino furono in diuersi modi morti da lui, à cui ne restarono tutte le rocche, et le terr. i Signori di Camerino Giulio, Cesare, Venantio, Anniballe et Pirro furono spogliati del principato, et strangolati. oltre à questo fece dar molte ferite ad uu giouine di casa Aragona, Principe di Bisello, et figliuolo d’Alfonso, et quello ch’è peggio, et che mi vergogno à dire, era marito di sua sorella Lucretia, ma venendo, che per quelle ferite non era morto, lo fece nella camera, et nel letto stesso della sorella ammazzare: auelenò molti Cardinali, laquale cosa egli et suo Padre Alessandro spesso faceua, uccide Cerbellione nobile Cittadino; solo perche costodiua l’honore di una donna di casa Borgia. et tante altre ne fece di questa natura, che si può à ragione con Aristotile dire Homo malus milies plura mala faciet, quam mala bestia. Crudelissimo fu Marco Antonio, il quale, dopo che haueua fatto uccidere Cicerone per satiar la sua rabbiosa crudeltà, fece porre sopra la mensa la testa, et la mano di lui. Di Temistocle non dico altro, fu di si galante natura, che suo padre lo priuò dell’heredità, et sua madre per non si vedere un figliuolo tale s’impiccò. Hor passiamo à dire quanto Cambise fosse. Cambise domandò un giorno ad un suo fauorito, et caro amico chiamato Presaspe, in che riputatione fosse appresso i Persiani, esso rispose, che in suprema riputatione era, et che saria stato in maggiore, se non hauesse tallhora mostrato di bere con troppo auidità il vino: si sdegnò Cambise, ma dissimulando, disse, che li voleua far vedere, che doppo che beuuto haueua, era sano di mente; percioche voleua con una saetta colpire à punto nel cuore del suo figliuolo, et subito fece menarsi il fanciullo, et disse, se io non lo ferirò giustamente nel cuore, io sarò con ragiooe riputato ebro. Detto che queste parolhenne, si fece portare molto da bere, et beuue copiosamente: trasse poi, come in un berzaglio, al fanciullo nel petto, essendo presente il padre del misero fanciullo, et poi lo fece aprire, et mostrare P. 204 come egli giustamente nel cuore percosso l’haueua. Ogni uno può pensare quanto fosse il dolore, che il misero padre sentì veggendo il caro, et innocente figliuolo senza cagione essere ucciso: nondimeno mostraua lieta, et serena faccia, stringendo le lagrime, et i sospiri nel tormentato petto. Pochi giorni dopo questa atroce crudeltà, fece sotterrare viui col capo in giù molto nobili Persiani: oltre à questo fece scorticare un giudice, et della sua pelle, volle che si coprisse il seggio, oue hauea giudicato, et nell’istesso seggio fece sedere il figliuolo del giudice morto. In questo capo non credo che faccia bisogno di far comparatione tra le donne crudeli, et gli huomini: percioche di numero, et di qualità i maschi passano et eccedono senza comparatione le donne, le quali di natura sono uniuersalmente mansuete, et pietose, come tutti gli huomini confessano. P. 204 De gli huomini Fraudolenti, Traditori, Perfidi, & Spergiuri. Cap. XI. ANCORCHE alcuni facciano non poca differenza tra fraudolente, ingannatore, et perfido, nondimeno io ho posti tutti questi nomi sotto un medesimo capo, come nomi, che non uariano la natura della cosa, ma più, ò meno dimostrano, ouero nelle circonstanze sono tra loro diuersi, credo però, che il nome ingannatore sia communissimo ad ogni sorte d’insidia fatta in qualunque modo. La fraude è fatta con l’adulatione, et fintione, o di bontà, o di amicitia: il perfido allo inganno, aggiunge la fede simulata, et finta; lo spergiuro vi aggiunge i giuramenti falsi, et i testimonii de gli Dei da lui inuocati, atti tutti vitiosi, et maluagi; percioche peggio non si può dire, che con un piaceuole volto, et sotto une finta, et simulata pietà, ingannare altrui, ouer sotto la fede data, che dourebbe essere inuiolabile, ouero con giuramenti chiamandi li Dei per testimonio farti credere il falso di quello, che ti uien detto. O quanto è meglio essere sforzato à dare il tuo, che darlo con inganno, et fraude; onde Cicerone ciò conoscendo, disse. Aut ui, aut fraude fit ingiutia, fraus quasi uulpeculæ, uis Leonis uidetur, utrum P. 205 que altisimum ad homine, sed fraud odio digna maior. O quanti sono stati uccisi sotto une simulata, et fraudolente pace et quanti sotto pretesto di amicitia, ò di una finta bontà sono priui, ò delle facultà, ò dell’honore, ò della vita; descrisse l’Ariosto la fraude nel Canto 14.dicendo. [Hauea] piaceuol uiso, habito honesto, Vn humil uolger d’occhi, un andar graue Vn parlar si benigno, e si modesto, Che parea Gabriel, che dicesse Aue: Era brutta, e deforme in tutto il resto, Ma nascondea queste fattezze praue, Con lungo habito, e largo, e sotto quello Attossicato hauea sempre il coltello. Et Dante in questo modo hauendola ueduta nello Inferno. Et quella sozza imagine di froda Se’n venne, & arriuò la testa, e’l busto; Ma’n su la riua non trasse la coda. La Faccia sua era faccia d’huom giusto, Tanto benigna hauea di fuor la pelle; Et d’un serpente l’uno, e l’altro fusto. Due branche hauea pilose, infin l’aselle, Lo dosso il petto, & ambedue le coste Dipinte hauea di nodi, e di rotelle. Con più color sommesse, e sopra poste, Non ferma’in drappo Tartari, ne Turchi Ne fur tai tele per Aragne imposte. Ma basti fin quì di hauer narrato quello, che tiene in se, et fuori di se la fraude, et veniamo à gli essempi, il primo sarà Tolomeo. il quale tradì Pompeo, che hauea fatti grandissimi beneficii al padre di lui: il traditore senza hauer riguardo alle gratie riceuute, lo fece uccidere à tradimento in questo modo. Essendo Pompeo uinto in Pharsalia da Cesare, ne sapendo tra gli amici regni oue ricorrere douesse, confidatosi ne’ beneficii fatti al padre P. 206 di Tolomeo, si in drizzò uerso Egitto, et subito li mandò un suo messo à fargli intendere, come era uenuto à ritrouarlo: egli come questo intese si consilgiò co suoi consiglieri, uno de’quali era Achilla Egittio, l’altro Teodoro da Chio, et tutti insieme conchiusero d’ammazzar sotto uelame d’amicitia Pompeo. Andarono adunque molti à ritrouarlo, un de’quali fu Settimio, l’altro Achilla, et Saluio; Settimio, tosto che lo vide con lusinghe lo chiamò Imperatore. Achilla lo inuitò à montare su la scasa, et egli ui montò: ma come fu uicino al lido Settimio lo feri mortalmente, dopo costui lo ferì Saluio, et Achilla: et così il misero Pompeo Magno finì la vita per l’inganno del traditore Tolomeo; onde il Petrarca dice. Il traditor di Egitto, parlando di lui. Ma che ui pare di Bruto? ilquale era instituito secondo herede da Cesare nel suo testamento, incui hauea gran fiducia; et essendo uenuto il giorno di andare in Senato Giulio Cesare non ui uoleua andare, parte spinto dalle parole de gli indouini, parte del sogno di Calfurnia sua moglie, come Plutarco racconta; ma il traditore bruto sapendo quelo, che voleua fare, lo persuase ad andarui, et pigliandolo per mano lo menò fuori di casa, et in Senato; come fu posto à sedere, parte de’compagni di Bruto si fermarono dietro il seggio di lui, et parte li stauano all’incontro, Tullio diede il segno di cominciare, ferillo Cassio, che fu il primo, dopo lui Bruto li diede une ferita nella gola, dopò Bruto Cassio, et gli altri congiurati, cosi à tradimento uccisero il buon Giulio Cesare. O che fiere scelerate, già che uccideuano, chi lor portaua amore. ma che diremo noi del tradimento fatto da Lorenzo de’Medici al Duca Alessandro de’Medici? che tanto si confidaua in lui, et li portaua tanto amore, che se fosse accaduto, che egli fosse andato fuoru di Firenze in suo luogo non haurebbe lasciato altri, che Lorenzo; et Lorenzo per acquistar si questa fede appresso del Duca, che li pareua, non curaua di uenire in odio à gli amici, à parenti, et per fino alla madre stessa: non curaua di essere tenuto portatore di nouelle, ingannatore de gli amici, et un uero, e continuo spione del Duca contra tutto il mondo; et tutto questo faceua per tradirlo; et spesso diceua al Duca, che quanto l’haueua seco, facesse conto di non l’hauere inquanto al uenire alle mani per difenderlo; perche la nature non li hauea dato cuore da armi, et che cercaua ben di farsi immortale; ma per uia delle compositioni: et che haueua composto una bella Comedia; ma che P. 207 componea la più bella Tragedia, che forse sia stata ueduta da gli scrittori già molti anni, et cosi andaua il traditore facendosi amicissimo al Duca. A i quattro di Gennaro andò Lorenzo à leuare il Duca, et menollo à casa sua, laquale era molto uicina à quella del Duca, et egli entrato in una camera si pose sopra un letto; Lorenzo si partì, et andò nella stanza di sotto, et trouò uno sgherro chiamato Scoronconcolo, et lo menò alla camera, oue l’incauto Duca giaceua, et intrato andò al letto, et li disse; Signor, dormite voi? et subito li tirò una stoccata nella schiena; il misero si gettò fuorì del letto gridando. Ah Lorenzo, io non aspettaua questo da te, et il traditore rispondendo, disse; Anzi troppo l’hauete aspettato; perche staua molto à uenire, et in poco tempo, con l’aiuto di Scoronconcolo uccise colui, che lo amaua, come se medesimo. et chi sara colui, che si fidi di huomo, poiche tutti sono tanto ingannatori, perfidi, et simulati amici? Onde ben dice il Tasso, che non è fede in huomo, e dice il vero ueniamo ad un’altro essempio di un’altro traditore; essendo andato Camillo per assediar la Citta di Falerio, la quale Cittade era molto munita di tutte le cose necessarie alla guerra Camillo considerando la città essere forte, et fornita di tutte le cose li parue difficile da perdere. Però non la faceua battere: ma faceua ogni giorno essercitare i soldati. accioche stando in otio non di uentassero timidi, et vili: dentro i Falerii stimauano poco l’assedio, et pochi faceuano le guardie alle mura, et tutti andauano disarmati per la città. Et come esser suole usanza de Greci, teneuano un maestro salariato dal commune, volendo che i figliuoli si alleuassero, et s’ammaestrassero nelle buone scienze, il maestro di scuola pensò di fare un tradimento a’Falerii col mezzo de lor fanciulli, et cosi cominciolli à menare à spasso intorno alle mura, et tal volta fuori, et quando li haueua essercitati, li rimenaua dentro: Finalmente hauendoli tutti con esso lui, li menò alle guardie de’Romani, et si uolle presentar con essi à Camillo, et facendolesi innanti melancolico, et pieno di grauità, disse, come erà il maestro di quei fanciulli, et che per lo mezzo loro hauea disegnato per acquistarsi la gratia di lui, di darli la citta di Falerio nelle mani. Parue à Camillo quell’atto molto vituperoso, et fece stracciare tutti i panni, che haueua intorno al traditore, et legarli le mani di dietro, et dare in mano a’fanciulli alcune sferze, accioche battendo il traditor lor maestro, il conducesserono nella citta. che ui pare? questo fu egli un P. 208 tratto da un vero traditore, ò nò? mi souuiene ancora di Sinon Greco, ilquale mostrando di fuggire da’Greci, da quali haueua riceute [sic] molte ingiurie, come egli fingeua diede ad intendere a Troiani con finte parole, che i Greci haueuano edificato quel cauallo, et con sacratolo à Minerua, et l’haueano fatto tanto alto, accioche i Troiani lo guastassero, et non lo potessero mettere intier in Troia. perche i Fati voleuano, che se lo guastauano, Troia hauesse à cadere ma se fosse intiero condotto dento la terra i Greci hauessero ad essere vinti da Troiani. Era traditore, et spergiuro, perche giuraua, et chiamaua in terstimonio li Die, come dice Virgilio nel libro secondo dell’Eneida in questo modo. Sustulit exutas uinclis ad sydera palmas Vos æterni ignes, & non uiolabile vestrum Testor numen (ait) uos are ensesque nefandi Quos fugi, uitteque Deum quas hostia gessi, Et altroue parlando di lui à Didone dice; Accipe nunc Danaum insidias, & crimine ab uno Disce omnes Volendo mostrare, che tutti i Greci sono fraudolenti, et ingannatori. Gano di Maganza oue rimane egli? ilquale fu traditor di Carlo, et de’suoi Paladini, fu tanto in questo mestier valente che l’Ariosto il chiama padre de’tradimenti, dicendo. Tutto seguì, ciò che hauea ordito Gano, Ch’era d’insidie, e tradimenti il padre. Infedelissimo fù Bireno, che haueua riceuti tanti beni da Olimpia, et in guiderdone la lasciò su il nudo scoglio, come dice l’Ariosto, che volendo narrare la sua infedeltà, dice quasi merauigliandosi. Io uò dire, e far di merauiglia Strinher le labra, & inarcar le ciglia. p. 209 Di mille tradimenti, che racconta il Giouio, racconterò solamente quello, che fecero i capitani de’Suizzeri al Duca di Milano, et è questo. Tumultuauano li Suizzeri fingendo una uera occasione, che il dì destinato al pagamento non si numerauano i denari: il Duca di Milano corse al tumulto, con parole benignissime, che induceuano non poca compassione; poi donò à loro tutti li suoi argentii; ma i Capitani infedeli, temendo di non mettere in essecutione il tradimento disegnato, operarono, che l’essercito Francese si accostasse à Nouarra, per torre al Duca, et à gli altri, la via di fuggirsi verso Milano: onde hauendo fatto il Duca, uscire le squadre, i Capitani Suizzeri diceuano, che senza licenza de i lor Signori, non voleuano uenire alle mani co parenti, et mescolandosi con l’essercito nemico, come se fosse stato un solo essercito, finsero di volere andare alle lor case; il Duca non potè, nè con preghi, nè con lagrime, nè con infinite promesse, piegare, la loro perfidia. Si raccomandò, à loro, che almeno lo menassero in luogo sicuro: ma perche erano d’accordo co i Capitani Francesi di partirsi, et non menarlo seco, negarono di concerderli la dimanda: ma consentirono, che mescolato fra loro in habito di fante uenisse, laqual cosa fu accettata da lui per ultima necessità: ma questo non fù sufficiente, alla sua salute: perche caminando per mezzo, l’essercito Francese, fù insegnato da i Suizzeri, à coloro, che haueuano la cura, di prenderlo; cosi fù subitamente tenuto prigione. Spettacolo sì miserabile, che commosse le lagrime infino à i nemici. Questo, non fù egli un gran tradimento? Cleomene, hauendo affidati g*i Argiui li assaltò di notte, et parte ne ammazzò, et parte fece prigioni. Calicute uccise sotto colore di amicitia, Dione Siracusano. Annibale il vecchio, chiamato figliuolo di Asdrubale, inuitato da Cornelia, Asira, sotto pegno, di pace, fù ucciso. Francesco,et Lodouico Gonzaga, amazzorno il fratello Ugolino, inuitandolo sotto buona fede, et ammareuolezza, à disnar con loro. Cesare ancor egli fu traditore, perche in tempo di tregue guerregiò co i Germani, et fece tagliare à pezzi trecento mila persone. Et Alessandro Magno tradì una terra, con la quale hauea fatto una conventione, percioche subito che l’hebbe nelle mani tagliò à pezzi quasi tutti gli habitatori. Onde si può ben dire co’l Tasso. P. 210 O Cielo, o Dei, perche soffrir questi empi. Che vi pare della fraude di Hemanuele contra Venetiani? Il.quale sotto pretesto d’amicitia, e di pace, occupò molti luoghi, e prese molte naui, che sotto buona fede, se ne stauano sicure, come dice Pietro Marcello. Ille autem ut callido ingenio à dolo non discedebat. Et Sedechia, Medico Ebreo, pessimo traditore, diede il veleno à Carlo Caluo Imperator de Galli, ancorche da lui non hauesse riceuuto altro che cortesia, et cosi se ne morì il misero Imperatore, per lo’nganno del perfido huomo. Racconta Tito Liuio nel lib.2. della quinta Deca il tradimento, che voleua far Perseo Re di Macedonia, ad alcuni Romani. era un huomo nominato Rammio di Brandusio, ilquale allogiaua gli ambasciatori Romani, i Capitani, et altre persone di alto affare. Questo sapendo Perseo prese, amicitia, et famigliarità con Rammio, et facendoli gran doni, et promesse, li disse, che alloggiando gli ambasciatori, et i commissarii Romani nel suo albergo, et egli desiderando la morte di tutti loro procurasse di dare loro il veleno; et sapendo egli essere molta difficultà, et pericolo in hauerlo, soggiunse. io sò certo ch’è cosa, molto malageuole potere hauere veleno senza saputa di molti: però io ne daro lor di una quantità, il quale non si conosce à segno alcuno; che sia veleno. Rammio dubitando se negasse di non farne prima l’esperienza, li promise di fare quanto gli comandaua. et partendo dal Re andò à retrouare Gaio Ualerio, Legato, et narrogli il tutto, et partendo con Valerio venne à Roma, et introdotto nel Senato, riuelò à tutti i Senatori il tradimento, che voleua fare Perseo; onde fù dichiarato nimico del popolo, Romano. Scriue lo stesso autore un’altro tradimento, di questo galant’huomo. Odiando Perseo, il Re Eumene, et sapendo che era andato verso Delo per far sacrificio ad Appolline, il traditore pensò di ucciderlo mentre passaua i monti, i quali dauano à pena via ad una persona sola, tanto stretto era il passaggio. però si nascose Perseo, con molti altri huomini da bene dietro una certa altezza di un monte, et quando giunse Eumene, co’suoi subito pigliarono sassi grandissimi, et gettandoli percosse il Re, et uno capo dell’Etolia nomato Pantaleone, et gettorono tanti sassi, che il Re era uicino à lasciarui la vita, se molti suoi amici sprezzando gli auersi nimici P. 211 non l’hauessero portato in luogo sicuro, Enea doue resta, non uogliamo forsi noi ch’egli habbia luogo fra traditori? vogliamo certamente; poiche nel tradire, fù si valente huomo, ilquale senza alcuno amore uerso il Re Priamo, o verso la Patria l’uno, et l’altra inganno ancorche Virgilio lo chiami il pietoso Enea, et lo facci oltre à modo amatore di Troia, laquale cosa è tutta falsità et inuentione del poeta, senza laquale non poteua essere perfetto poeta, et è cosi proprio del Poeta, la falsità, come la verità è del l’historico, et però udite quello che dice Aristot. nella Poetica. Historicus res gestas exponit, Poeta ut geripotuerent. Ma poi che è proprio dell’Historico il dire la verità. diremo quello, che racconta di lui il Tarcagnota, nelle storie del mondo. Enea voleua, che Priamo facesse pace, co’Greci, ma il Re, et Anfimaco voleuano ò che si vincesse, ò che si perdesse la vita, et conoscendo che Enea, Antenore, et Polidamante desiderauano la pace, et temendo di alcuno inganno, diede il carico al figliuolo Anfimaco, di farli morire. Questo essendo uenuto alle orecchie di Enea, et de gli altri due compagni si consigliarono insieme di tradire Priamo, et la Patria: Onde mandarono ad Agamenone Polidamante à prometterli, la Città. accettarono i Greci la cortese proferta promettendo à congiurati et a loro partegiani quella sicurtà, che sapeuano chiedere. furono giurati i patti dall’una, et dall’altra parte solennemente. et essendo data una notte ad Enea, et ad Antenore in gouerno la guardia di una porta, anzi della città, apersero à Greci quella, nella quale era scolpita la effigie, di un cauallo. entrati nella terra diede Pirro per salute de traditori Enea, et Antenore une guardia armata, et poi misse il tutto à ferro, et à fuoco, uccidendo il vecchio Priamo. questa fù la vera pietà, et la fedeltà di Enea verso la Patria, il Re, et i Dei penati. Scriue Plutarco, che dopo che hebbe Calippo, commesso molte ingiustitie, et Sceleraggini fù ucciso, rimasero in oscura prigione, la Sorella, et la moglie, di Dione, che hauea à tradimento, fatto uccidere. La Moglie del detto Dione, haueua in prigione partorito un bambino: Onde fece con molta humanità, et amoreuolezza lor cauò di prigione, et lor raccolse et caramente le aiutò: da questo tradimento potrete conoscere gli altri de gli huomini, iquali benche mostrino nello aspetto una carità, et misericordia dell’altrui miserie, che par uerace, è falsa P. 212 et simulata, et coprono sotto un dolce volto, et sotto melate parole le traditrici, et infide voglie, le quali stanno affisse ne lor maluagi petti. Finse Icete di nolerle mandare nel Peloponneso: aetcioche me nassero uita più felice, et più sicura, ordinò, che fosse apparecchiata una Naue, et commise à i suoi, iquali si haueuano à partire con le Donne, che quando fossero à mezzo il uiaggio le uccidessero insieme con l’innocente bambino, et poi gettassero, i corpi in mare. cosi fù fatto, benche alcuni dicano, che non furono uccise, ma viue affogate nel mare. Ma che dirò io di Ammone Medico Hebreo, ilquale diede una medicina auelenata, à Baiazete? Che di Maldonato, di Maccio? et di. Con saluo Rio? et d’altri Capitani? i quali voleuano ammazzare, con tradimento Francesco Maria, come scriue Paulo Giouio. Narra Plutarco il gran tradimento, che Calippo à Dione fece fingendo di essere suo amico affettionatissimo, al fine assediandolo in casa l’ammazzò, come una bestia: ma io per fuggire la lunghezza, non racconto la cosa come fece nelle circonstanze. Si legge in Tito Liuio, che Tarquinio portaua odio mortalissimo à Turno, et desiderando ucciderlo, et non lo potendo fare scopertamente pensò di falsamente incolparlo. corruppe con denari un seruo di Turno, accioche lasciasse portare à nascondere nello alloggiamento del padrone una gran quantita di spade, la qual cosa fù fatta in tempo di notte. Tarquinio la mattina innanzi giorno tutto trauagliato fece ragunare tutti i capi principali de Latini, dicendo che li era stato riuelato, come Turno machinaua la morte à se, et a’ principali del popolo per usurpare la Signoria de Latini, et si haueua fatto portare nell’alloggiamento molte spade, et se non lo credete, noi lo potremo vedere, cio detto pregaua, ogn’uno, che andasse alle stanze di Turno. andarono con gli animi disposti à credere. nondimeno non si ritrouando le spade non li haurebbono dato fede, giunti alla casa di Turno, et essendo dal sonno desto non si potè difendere, essi pigliarono i serui, et gettarono l’armi fuori dalle finestre; accioche ciascuno potesse uedere, come Turno haueua preparate l’armi per ammazzare i principali de Latini cosi credendo i Latini, che Turno à loro hauesse voluto dare la morte, però fù preso, et gettato al capo dell’acqua ferentina, et postoli adosso un graticcio caricandolo di sassi lo sommersero, et cosi innocente finì per la iniquità di Tarquinio la vita. Fù P. 213 etiandio un gran traditore Donato Raffignano Castellano Milanese, il quale essendo stato corotto dalle promesse del Triultio, lasciò passare i nemici per la fortezza, nella terra: Onde furono tagliato à pezzi tutti i Soldati, fu fatto prigione Ottauiano fratello naturale *t! Sanseuerino, et cosi tradì per doni la propria Patria, onde ben disse Filippo Macedone, conoscendo la immoderata auaritia de gli houmini, che non ci era fortezza, ne castello cosi forte, che facilmente non si potesse espugnare accostandoli, in uece di Batteria et istrumenti bellici, un Asino solo carico d’oro. o come bene conosceua la natura de gli huomini. Ne fia che rimagna sommerso nel fiume d’Obliuione Tomaso Schiauo da Liuorno, nel quale mentre Mahometto batteua Negroponte, erano tutte le speranze de Cittadini, et di alcuni pochi Gentilhuomini Venetiani risposte. Costui haueua una buona, et forte compagnia di fanti Italiani, de quali la notte molti fuggiuano, et andauano nel campo de Turchi et esso Tomaso, fu trouato di notte tempo, alle mura à ragionare co nimini, et Lucca da Cortulia suo Nipote, calossi dalle mura, et andò allo’mperatore de’Turchi, con letterre del Zio, sapendo questo i Cittadini cominciarono à dire, che la lor patria sarebbe da Tomaso tradita, come egli questo intese mise tutta la sua squadre in arme, et anchor esso armato con molta furia andò in piazza uccidendo qualunque incontraua. Ma il Balio Paulo Erizzo huomo di somma prudenza et di grande mansuetudine, et bontà con bel modo placò l’ira della fiera bestia, et prendendolo per la mano l’inuittò seco à disinare: ma come fù giunto in pallazzo uscirono alcuni Cittadini, come haueuano ordine di alcune camere, et con molte pugnalate uccisero il pessimo traditore, questo racconta Marco Guazzo nel Compendio delle guerre de Signori Venitiani co’Turchi, et racconta etiandio che morto Tomaso fù dato l’honore del suo luogo ad uno Fiorino di Nardone, il quale era pieno di infideltà, et di voglie traditrici, le quali stauano celate sotto un falso manto di bontà. costui dopo pochi giorni saltò giù dalle mura, et andò à ritrouare il gran Turco, et le disse, che ponesse l’artelaria grossa contra la terra alla Porta del Burchio, cosi detta, la qual parte era vecchia, et caduta, che senza fatica piglierebbe la Città. cosi fece il Turco, et prese Negroponte, et furno uccisi crudelmente tutti i miseri Cittadini, iquali non haueuano potuto guardarsi da gli huomini traditori; P. 214 perche se uno fù infedele, et empio. l'altro fù peggo. Pessimo traditore fù Mitridate: percioche hauendo messo ordine con Datame di ritrouarsi in certo luogo da lui assegnato per ragionare. Prima in una fossa ascose il ferro, et poi andò al luogo, oue Datame era venuto, molto insieme di uarie cose ragionorno, alla fine Datame prese licenza da Mitridate, et si parti. Mitridate essendo giunto al buco in cui haueua nascosto il ferro, fingendo di essersi scordato alcune cose importanti, lo fece richi amare, egli subito venne, et esso gli disse, che haueua trouato un buonissimo luoco da potere accampare gli esserciti, et à lui lo mostrò col dito, Datame guardando fù dal buon Mitridate ucciso con diuerse ferite. questo racconta Emilio Probo nella vita di Datame. De gli Ostinati, & Pertinaci. Cap. XII. [Ostinatione che cosa sia.] NON è l’ostinatione altro, che una ferma perseueranza nella medesima opinione, ancorche falsa, et irragioneuole, et però dice Cicerone nel 4. Acad. Plerique errare malunt, eamque sententiam, quam adamauerunt pugnacissimè defendere, quam sine pertinacia, quod constantissimè dicatur, exquirere. Segno sicuramente di mente poco sana; percioche, che cosa si può pensare più stolta, che hauere le cose incerte per certe, le false per vere, et le non conosciute per conosciute, et notissime? et questi sono à punto i lodeuoli effetti dell’ostinatione. Ma che dirò io di Giustiniano Imperatore? al quale essendo tolto l’Imperio, et da poi essendoli detto, che facilmente lo ricupererebbe, montò in naue, et essendo scorso sopra Necropola, hebbe una tempesta maritima, fiera, et pericolosa, onde Maiace, famigliare di Giustiniano, disse. Ecco signore, che noi siamo vicini alla morte, fa qualche voto à Dio, per la salute tua, et questo, sia il tuo voto, che se tu ricuperi l’Imperio, non farai, vendetta, di alcun tuo nimico. Rispose allhora Giustiniano con gran furore. Se io perdono ad alcuno di loro, che Dio, mi faccia hora, hora ffogare. Tanto era astinato nel voler far vendetta, che ancor che fosse stato sicuro di sommergersi, P. 215 più tosto voleua con la sua ostinata opinione annegarsi, che saluarsi, et perdonare ad uno solo de suoi nemici. De gli hnomini [sic] ingrati, & discortesi. Cap. XIII. [Ingratitudine che cosa sia.] EL’ingratitudine una obliuione, ò dimenticanza spesso simulata di non render gratie, ò altra cosa per lo beneficio riceuuto, et però Aristo. nel lib. 9. dell’Ethica al cap. 9. lasciò scritto, che è cosa propria dell’ingrato il riceuere il beneficio, ma non già il renderlo. Ingratus est, qui suscipere appetit, & non bene facere. Cosa inhumana, fiera, et cruda: come ben disse Cicerone pro Planco. O quanti ne sono, che hanno riceuuti non solamente aiuti con le facultà altrui: ma con la vita, et con li honori, et venendo occasione non uogliono rendere alcun fauore à chi loro ha beneficiati. et spesso negano di hauer riceuuto alcun beneficio, fingono di non hauerlo hauuto, ò se lo scordano. Però Plauto parlando de’suoi Cittadini, disse. Ita sunt isti nostri Ciues, Si quid benefacias, Læuior pluma gratia est, Si quid peccatum est, plumbeas iras gerunt. Parlando pur de gli huomini, et non delle donne. come apertamente si vede, come lor proprio vitio, il quale è pur cagione di infiniti mali, come dice il Trissino nella sua Italia liberata. E l’empia ingratitudine, ch’è sola Causa, e radice d’infiniti mali. Et questa sentenza si confermerà con gli essempi. Ingratissimi furono gli Ateniesi, come scrue il Sabelico, i quali diedero à l’inocente Socrate il veleno. Ingratissimi furono i Siracusani verso Dione, ilquale liberò lor la patria, et essi in premio di questo beneficio P. 216 lo bandirono, come scriue lo stesso Autore, et dopo lo chiamarono, et lo fecero morire. questa non fu ella una grandissima ingratitudine? I Thebani non furono ingrati verso Epaminonda, et Pelopida? gli Ateniesi non furno sconoscenti verso Solone? che à loro diede le leggi, et fu cagione egli solo, che la patria restasse libera dalla Tirannide di Pisistrato, et dopo lo bandirono, come dice Ualerio Massimo. Gli Ateniesi, scriue il medesimo Autore, messero in carcere Milciade vincitor de’Persi, et non vollero, che dopo morte fosse sepellito, se prima non haueuano in prigione Cimone suo figliuolo. Ma che diremo di Temistocle? che fu tanto afflitto da gli stessi Ateniesi? I Romani non furono ingratissimi à cacciare Camillo in essilio? che haueua fatto tanto, e tanto bene per loro, come racconta il medesimo. Caligula era di cosi peruersa natura, che odiaua à morte chi li voleua bene. Ma che dirò io de’Spartani? iquali lapidarono molte uolte Licurgo. il quale haueua loro dato tante leggi, et hebbe tanto amore verso la patria, et essi alla per fine gli cauarno gli occhi, et lo cacciorno della Città. O che sconoscenti, ò che ingrati; Mi souuiene di Scipione Africano, che liberò si può dir Roma, uinse Cartagine: ma al’ultimo gl’ingrati Romani lo bandirono; ond’egli spinto da giusto sdegno fu sforzato à dire: Ingrata patria non habebis ossa mea. Ingrato fù Giustiniano Imperatore verso Bellisario, che era stato così giudicioso capitano, lo priuò d’ogni suo hauere. Ingratissimo, et sconoscente quanto imaginar si può, fu Filippo di Arabia contra Giordano, che era stato uerso lui si amoreuole Imperatore, et udite. Essendo morto à Gordiano Misetio Prefetto, et Capitano suo, elesse Filippo in luogo di Misetio, ilquale era pouero et di stirpe dishonorata, et vile: Tosto che l’ingrato si vide asseso à tanto grado; subito cominciò à pensare, come potesse rubar l’Imperio à Gordiano. Fece prima nascere nell’essercito mancamento di vettouaglia, et non lasciaua correre le paghe nel suo tempo à soldati, i quali si sdegnauano, et egli diceua, che tutto procedeua da poca cura, et prouedimento dello Imperatore, et tanto fece, che eguale à Giordano nell’Imperio diuenne; come si gli vide uguale, cominciò à disprezzarlo apertamente, et ordinaua og cosa, come se stato fosse solo Imperatore: il misero Gordiano vedendo che non potea cosa alcuna nell’Imperio, pregò Filippo, che almeno loo hauesse in luogo di Cesare, il che non ottenendo, chiese di essere P. 217 suo Prefetto, ne questo impetrò, all’ultimo pregò di potere essere uno de suoi Capitani, questo li concesse. Ma come pensò, che Gordiano era amato, lo fece uccidere miseramente. ò che ingrato, non meritaua egli, che il Cielo lo fulminasse, ò che la terra viuo nelle sue interne parti l’accogliesse? Ma che diremo noi della ingratitudine di Teseo? al quale la cortese Arianna insegnò il modo di uscire fuori dell’intricate strade del cieco Laberinto, et egli in premio di tanta cortesia l’abbandonò, et lasciò sola su il diserto lido, come dice Ouidio nel lib. ottauo parlando dell’ingrato Teseo. Utque ope uirginea nullus iterata priorum, Ianua difficilis filo est inuenta relicto: Protinus Aegydes rapta Minoide Diam. Vela dedit: comitemque suam credelis in illo Littore destitnuit. I quali versi fatti volgari dal Maretti tali sono. Ma poi, che per verginea aita data Trouò la porta, e la difficil via Mai da nissun fino à quel dì trouata, Lasciando il filo, subito s’inuia Theseo, e rapita à Min la filgia amata, Diè le vele uer l’Isola di Dia, Doue il crudel nel lido à la campagna Abbandonò la fida sua compagna. Ingrato fù Enea verso la cortese Didone, che tanto amoreuolmente l’hauea riceuuto nelle proprie case, et egli la lasciò sconsolata, et aflitta non curando ne le lagrime sue, ne i suoi preghi, et scordatosi affatto della miseria, nella quale era quanto Didone l’accolse, come egli stesso disse alla presenza sua. O sola infandos Troiæ miserata labores, Quæ nos relliquias Danaùm, terræque, marisque; Vrbe, domo socias grates, persoluere dignas Non opis est nostræ Dido. nec quicquid ubique est Gentis Dardaniæ, magnumquæ sparsa per orbem. P. 218 Et uno badito, un vagabondo non pur si astenne di mostrare la sua ingrata natura alla cortese Elisa, laquale rimprouerandogli la sua ingratitudine disse. Nec tibi diua parens, generis nec Dardanus auctor Perfide, sed duris genuit te cautibus horrens. Caucasus; Hircanæque admorunt ubera tigres. De gli huomini incostanti, & volubili. Cap. XIIII. [Inconstanza, Segno di poca mente.] SEgno certissimo è l’incostanza di una mente poco saggia, et auueduta; percioche s’ella conoscesse la uerità del soggetto, intorno al quale ella s’impiega, senza dubbio non andrebbe ella vagando intorno à diuerse cose, non diter minandosi di appigliarsi ad alcuna di loro, et se pure ad alcuna si accosta, per lo piu alla peggiore dà di piglio; essendo ella sorella carissima dell’ignoranza; et però con grandissima prudenza disse Cicerone, che niuna cosa è più degna di biasmo dell’incostanza, mobilità, et leggierezza di animo, che ancho leggierezza chiamò, nome denotante una spetie di pazzia. Incostante, et oltre à modo volubile fù Caligula Imperatore, alquale hora piaceua la compagnia, hora la fuggiua, come ueleno. Faceua alle volte le cose con tanta prestezza, che pareua il più accorto huomo del mondo. Altre uolte con tanta lentezza, et trascuraggine, che mostraua di essere tutto il contratio. à molti, i quali haueano commessi grandissimi misfatti, non daua castigo alcuno. Et molti altri faceua amazzare senza colpa alcuna. Hoggi lodaua una cosa, domane chi ne diceua bene uoleua tagliare à pezzi, et finalmente era tanta l’incostanza, et il mutamento di costui, che non sapeuano i sudditi, ne che fare, ne che dire, et era il medesimo ne’ vestimenti, et in tutti gli altri fatti suoi. Sergio Galba fù anchor egli instabile, et senza fermezza. Faceua tutte le sue cose una contraria all’altra, hora si mostraua aspro, hora mansueto, et piaceuole, hora condannaua le genti senza cagione alla P. 219 morte. Hora quei che la meritauano, lasciaua assolti. Questo vitio in ogni persona è brutto, et biasmeuole: ma in un Principe non si può imaginar preggio. Et Amone fu incostantissimo percioche hora era preso d’amore, hora da odio, come dice il Petrarca di lui parlando. Vedi quel che in un tempo ama, e difama. Et Aladino Tiranno, per l’imagine tolta come Torquato Tasso, era tanto pieno di rabbia che niente più mostra in questi uersi contra i Christiani. Tutto in lor d’odio infellonissi; ed arse D’ira, e di rabbia immoderata, e immensa. Ogni rispetto oblia: vuol vendicarse (Segua che puote) esfogar l’alma accensa. Morrà (dicea) non andra l’ira à vuoto Ne la strage commune il ladro ignoto. Udite, che instabilità, et incostanza solamente per quella honesta bellezza di Soffronia, che à pena si può dire, che veduta hauesse. A l’honesta baldanza, à l’improuiso Folgorar di bellezze altere, e sante; Quasi confuso il Re, quasi conquiso: Frenò lo sdegno, e placò il fier sembiante. S’egli era d’alma, ò se costei di viso Seuera manco diueniane amante; Rodomonte era instabile, et volubile come foglia: perche hauea fisso nella mente di odiar tutte le donne, et à pena vede Isabella, che subito si muta di proponimento, come dice l’Ariosto di lui nel Canto. 28. Tosto, che il Saracin vide la bella Donna apparir, mise il pensiero à fondo, C’hauea di biasmar sempre, e d’odiar quella P. 220 Schiera gentil, che pur adorna il mondo: E ben li par dignissima Isabella In cui locar debbia il suo amor secondo, E spegner totalmente il primo in modo, Che da l’asse si trahe chiodo con chiodo. Onde considerando l’Ariosto la maschile in costanza esclamo dicendo. O de gli huomini inferma, e in stabil mente, Come sian presti à variar disegno: Tutti i pensier mutiamo facilmente, Più quei, che nascon d’amoroso sdegno, Io viddi dianzi il Saracin sì ardente Contra le donne, e passat tanto il segno, Che non che spegner l’odio, ma pensai, Che non douesse intepedirlo mai. Et de Greci molti sono instabili, udite quello, che ne dice Iamblico nel lib. de misteriis. Græci namque natura rerum nouarum studiosi suntac precipites usquæquaque feruntur instar nauis saburra carentis nullam habbentes stabilitatem, neque conseruant, quod ab alijs aceperunt, sed & citò dimitut, & omnia propter instabilitatem, nouæque inuentionis elocutionem transformare solent. Et che diremo noi di quei buoni campioni, che à pena haueuano ueduto Armida, che si lasciauano raggirar à i lor vani appetiti: onde dice il Tasso, che. Goffreddo spesso hor di uergogna, hor d’ira Al vaneggiar de Caualier s’accende. Ma che si dirà di Vincilao già uecchio instabile come mostra il medesimo Poeta. Vincilao, che graue, e saggio inante Canuto pargoleggia. e vecchio amante. Io non credo che fosse punto dissimile da quelle Girandole, da p. 221 ogni poco uente si mouono. Inconstante fù Barbone, di cui scriue Paolo Giouio, questo sempre era sospeso tra diuerse speranza l’animo suo era precipitoso, et da nissuna ragione confirmato, ne stabile in nessuna cosa. Si legge nella vita, di Cicerone, descritta da Plutarco questo di Metello, mostrando la instabilità di Lucio, Metello fù huomo di molta leggierezza, et incostanza. egli abbandonò il magistrato del suo tribunale, et andò à trouar Pompeo in Soria, poi si tolse da lui, et ritornò à Roma, più leggiero, et uolubile, che mai fosse. De gli huomini maligni, & che ageuolmente odiano altrui. Cap. XV. [Odio, che cosa sia.] AFFERMANO tutti gli ottimi scrittori l’Odio essere una inuecchiata, et raffredata ira, la quale difficilmente si può cancellare: ma dicono che solamente la morte di far questo è un ottimo, et eccellente rimedio, et però si dice odio, tenace, lungo, et mortale; et è più biasimeuole dell’ira; percioche ella è un subito, et repentino moto dell’anima irragioneuole. Ma l’odio è un cattiuo effetto et passione della ragione; quelli tengono il primo luogo fra questi tali, che non lasciano l’odio ne per preghiere, ne per utile, ne per lunghezza di tempo si mitigano, la quali tre cose sogliono mitigare, et annullare questa passione, come lasciò scritto Cicerone dicendo. Odium uel precibus mitigari potest, uel utilitate deponi, uel uetustate sedari. Ma lasciamo di ragionare della natura di questo pessimo vitio, et veniamo à gli essempi. Annibale portaua cosi graue odio à Romani, che giurò di esser loro sempre crudel nemico. grande fù l’odio, che hauea Cambise Re di Persia contro il fratello, et spinto da questa passione lo fece uccidere. Ma grandissimo fù quello, che hebbero i Genouesi contra Pisani; percioche hauendo i Genouesi pigliate due Galee di Pisani, impiccarono i Padroni, et venderono tutti gli altri per una cipolla l’uno, come dice Battista Ful. Al tempo di Scipione Africano essendo morto il padre a duo fratelli, fra loro si odiauano tanto, che P. 222 non si poteuano vedere, et si indussero à combattere insieme, et il più pertinace fù ucciso. Et Catalina Vedendo che bisognaua prolungar le nozze di Aurelia un giorno solo per cagion di un suo figliuolo, li prese tanto odio, che lo fece auelenare. questo narra Battista Ful. mi souiene di Amilcare, il quale essendo venuto in Roma; percioche il popolo Romano inuitato l’hauea, et vedendo quattro figliuoli, disse questi fanciulli sarebbono buoni per alcuni miei Leoncini. Vi pare, che l’odio in costui fosse grandissimo? De gli huomini ladri, assassini, corsali, & rapaci. Cap. XVI. [Furto che cosa sia.] E IL ladrocinio un possesso della roba altrui senza il consentimento del proprio padrone nascosamente inuolata. Ma quando con uiolenza si toglie, aspettando gli huomini alle strade assasinamento si chiama. Et ultimamente se per mare alcuno se ne sta rubbando, Corsale do ogn’uno vien chiamato: il furto quanto sia da ognuno biasmato, et vituperato non accade, che io lo racconti: percioche è cosa inhumana il volere possedere l’altrui senza alcuna fatica, et quel che è peggio, con la morte di colui, à cui è stato rubato. Ne Licurgo quel gran ligislatore instituì il furto à giouinetti; perche godessero l’altrui hauere. Ma bene accioche si essercitassero et si facessero uigilanti, agguzzando l’igegno nel rubare, et nel conseruar la cosa rubata. Onde non solamente si faceua accorto il ladro; ma anchora colui, à cui era la roba inuolata; et cosi pochi furti si faceuano, et tanto più che era tanto la pena grande posta da Licurgo, et la vergogna di essere scoperto, che più tosto i ladri voleuano morire, che essere conosciuti per tali, come intrauenne ad un fanciullo, che rubò un Volpacino. Ma passati gli anni quattordici non poteuano più in modo alcuno rubare. fù inuentore del furto, secondo che scriue Cicerone nel lib. de natura Deorum, il qual beffaua ogni giorno li Dei, dicendo che lo lasciauano pur uiuo, anchor che rubasse ogni giorno. fù etiandio P. 223 grande Caio Verre. non minor di lui Flacco Censore, come narra Tito Liuio, ilquale tolse un tetto di marmo à Giunone Licinia, per coprir la sua casa. fù etiandio ladro Arsace Re de Persi, il quale nella giouentù apertamente rubaua, et finalmente fu fatto Re de ladri. Ladro fù Dionisio di cose sacre, et similmente Nerone. Che diremo noi de gli Argiui che nasceuano ladri? onde nacque un prouerbio. Argiui fures. Che di Ghino di Tacco, ilquale rubò con un suo Zio un Castello alla republica Sanese detto Radicofani in maremma, costui essercitaua molto il ladrocinio, come dice il Bocca. di lui ragionando in questo modo. Ghino di Tacco per la sua fierezza, et per le sue rubarie huomo assai famoso era, essendo cacciato da Sanesi, et dimorando in Radicofani à ciascuno che per le circostanti vie passaua, rubar faceua à suoi masnadieri. Et pochi sono, iquali non sappino quanto gran ladro, et rubator famoso fù Cacco, figliuolo di Vulcano, costui fù il primo ladrone d’Italia, habitaua sotto il colle Auentino di Roma. Ma Ercole dopo lunghe prede fatte (perche anchor egli douea essere cosi ualente ladro quanto ogni altro) uenne di Spagna in Italia, et seco guidaua le vacche tolte al Re Girione, et prese alloggiamento poco lontano da Cacco. Ma Cacco, che era sempre auido di nuoua preda gl’inuolò quattro vacche, et tirolle per la coda nell’antro suo: accioche per lo segno delle pedate non si potesse imaginar oue fossero. Ercole dolente della perdita, cercolle et ricercolle, et mai non potè ritrouare inditio, ò segno dalle pedate, et finalmente si partiua hauendo perduta la speranza di ritrouarle; allhora sentì il muggito, et subito si accorse, oue erano, et leuando il sasso, che copriua la spelonca di Cacco, saltouui dentro, et l’uccise, onde Virgilio nell’Eneide cosi dice di lui. Cacus auentine scelus atque infamia siluæ Et Dante lo uide nello inferno. Onde dice nel can. 25. Lo mio maestro disse quegli è Caco Che sotto il sasso di colle Auentino Di sangue fece molte uolte laco Onde cessar le sue opre biece Sotto la mazza d’Ercole, che forse Gli ne die cento, e non sentì le diece. P. 224 Vanni Fucci, come dice l’istesso Dante era ladro, et ladro di cose sacre, come egli se stesso dice nel canto. 24. Vita bestial mi piacque, e non humana Si come à Mul, ch’io fui: son vanni Fucci Bestia, e Pistoia mi fu degna tana. E piu sotto dice parlando pur di se medesimo il ladrone. Io non posso negar quel, che tu chiedi In giù son messo tanto; perche fui Ladro à la Sagrestia de belli arredi, Et gran ladro, et capo de ladri assassini era colui, che teneua Isabella nella Spelonca, come dice l’Ariosto, ilquale con i compagni fù da Orlando ucciso, le cui parole sono. De la spelonca una gran mensa siede Grossa duo palmi, e spatiosa in quadro Che sopra un mal polito, e grosso piede Cape con tutta, la famiglia il ladro Questa mensa gettò Orlando fra loro, et parte ne stroppiò, parte ne uccise affatto; di quelli che restorno viui, udite quel che Orlando ne fece. Poi li strascina fuor dela spelonca Doue facea grand’ombra un uecchio sorbo: Orlando con la spada i rami tronca; Et quelli attacca per viuanda al Corbo Anco Brunello era un cosi bello ladroncelli, quanto alcun altro che al mondo fosse, come dice l’istesso Ariosto che parlando di Erontino, che rubò al Re Circasso dice: Inanzi Albracca gliela hauea Brunello Tolto di sotto quel medesmo giorno Ch’ad Angelica anchor tolse l’anello P. 225 Al Conte Orlando Belissarda e’l corno E la spada à Marfisa &c. E però meritamente. Il manegoldo in luogo occulto, & ermo Pasto di Corui, e d’auoltoi lasciollo. Ufente con tutto lo suo stuolo era ladro. Però di lui, e de suoi compagni dice Virgilio. Armati terram exercent, semperq, recentes Conuectare iuuat predas, e viuere capto Lequali parole recate in lingua uolgare da Annibal Caro, risuonano cosi. Arar con l’armi indosso, e tutti insieme Viuer di cacciagioni, & di rapine Io non so per qual cagione ci sieno tanti di questi huomini da bene, i quali non uogliono far niuno essercitio: ma vogliono uiuere della roba altrui, ne mai si castigano anchor che dinanzi à gli occhi si vedano impiccare alcuno, perche un’altro ladro in quel medesimo tempo inuola i denari à chiunque è lui vicino. Ma che diremo noi di quei buoni compagni di Ulisse, i quali stimando, che nell’oltre chiuso, che Eolo hauea dato ad Ulisse, fosse argento, sciolsero l’oltre, e ne uscirono i venti, i quali lor diedero quel, che meritaua la loro auidità. Ancho il Sannazaro mostra, che Lacinio era un valente ladrone in quei versi, che fa dire à Serano. Tacer vorei, ma il gran dolor m’inanima Ch’io tel pur dica: sai tu quel Lacinio ‘Ohime ch’a nominarlo il cor si esanima Quel che la notte veglia, e’l gallicinio Gliè il primo sonno, e tutti Cacco il chiamano Però che viue sol di latronio E piu sotto fa dire ad Opico, volendo mostrare che quasi tutti gli huomini sono ladri, questi versi. P. 226 O quanti intorno à queste selue numeri Pastori in vista buon, che tutti furano Rastri, zappe, sampogne, aratri, e uomeri Et Torquato Tasso udite quello, che dice di Albiazar. Le terze guida Albiazar, ch’è fiero Homicida, Ladron, non Caualiero, Et come afferma Plutarco ladri erano i soldati di Bruto, che se quel giorno, che attaccò la battaglia con Marc’Antonio, non erano occupati ne’latrocinii degli alloggiamenti, haueua una felicissima uittoria. Ma tanta è ne gli huomini l’auidità de l’hauere altrui, che non lascia mai finire una opera bene, et non gioua, che ogni giorno si vegga nelle piazze principali qualche uno di questi uccelli grifagni, che habbi incautamente dato del capo ne lacci, ne che sieno posti per nerui à mouere le ali alle galee, percio che non curano honore, et non si ricordano di quello aureo detto di quel Poeta: L’honore è dì più pregio, che la uita. Et di questa sorte ue ne sono molti; onde ogni giorno si odono latrocinii, à chi vien rubato il mobil di casa, à chi le mercatantie à chi una cosa, à chi un’altra, fino à Calandrino quei buoni compagni inuolarono il porco; horsù lasciamo costoro; ancorche se io volessi, ne farei un libro intiero; perche sono fuor di modo in quantità i ladri, et si può dire. O quanti Cacchi al mondo hoggi si trouano. Un gran ladrone fù Altobello, di cui frà Leandro Alberti Bolognese dice tali parole. Altobello per potere seguire le sue crudeltà cominciò con molti altri huomini scelerati à rubare, et ad uccidere i viandanti, in modo tale, che non poteua passare persona alcuna per quei contorni, che non sentisse ò nella vita, ò nella roba, ò nell’una, et nell’altra le sue pessime operationi: ma de suoi assassinamenti, et ruberie alla fine ne hebbe quel che meritò. Ceculo P. 227 figliuolo di Volcano oue rimane? forsi ch’egli non è quanto ogni altro degno di questo luogo. dice l’istesso autore che sopra citato habbiamo. Che hauendo ragunato una gran quantità d’huomeni maluagi consumaua la sua vita in ladronecci, et assassinamenti costui hauendo rubato assai edificò Preneste fra monti; accionche fosse luogo atto à rubare: et habitò in questo luoco contiuando. Però essercitando sempre le sue honorate attioni. Nata Trogo che cinquanta figliuoli di Lucani si ribellarno à Padri, et diuenuti inuolatori dello hauere altrui, saccheggiauano tutti i luochi vicini: onde non fù alcuna parte, che dalle lor ruberie, et assassinamenti intatta rimanesse. misero in ispauento i popoli vicini, in guisa che furono costretti à domandar socorso à Dionisi Tiranno di Sicilia, il quale contra tanti ladroni mandò settecento soldati, i quali fur uccisi con inganno da que’galent’huomini senza potere impugnare spada. allegri della fraude, che haueuano fatto, ritornarono à rubare, et assassinare, et à mostrarsi formidabili à i popoli vicini, costoro fabricarono Brutia, ouero Calabria. Bruti chiamauano i Lucani i serui fuggitiui ladroni et ribelli. dice il detto Fra Leandro che il vocabolo assassino è deriuato da alcuni popoli, che si dimandauano Assassini, i quali dierono principio ad uccidere, et à spogliar gli huomini nelle strade: però coloro, che togliono per violenza l’altrui hauere et ammazzano si domandano assassini; benche non sieno de quei popoli et cosi gli assassini, come i Brutii uoleuano uiuere delle sostanze altrui senza fatica, ne curauano ò temeuano Dio, ò giustitia, ò honore. Certo che fu un famoso ladrone Alessio Comneno per quello, che può vedersi nella vita di lui descritta dall’Acominato. Costui mandò Costantino Francopolo con sei galee nel mare Eusino, sotto apparenza di volere sapere di una naue, laquale nauigando da Phaside à Costantinopoli s’era spezzata: ma il vero era questo, domandaua accioche rubbasse tutte le merci, che erano sopra le naui, che pigliauano terra in Amiso. Costantino Franconpolo per dare pienamente effetto allo comandamento dell’imperatore non lasciaua partir naue alcuna, che affatto di tutte le mercantie spogliata non fosse. et ne spogliaua molte di quelle che andauano à Costantinopoli uendendo molti mercatanti, et molti gittandone in mare, et alcuni lasciaua fuggire, ma nudi quei pochi, che fuggiti erano, andorno allo Imperatore Alessio piangendo, et lamentandosi; P. 228 ma egli con volto pieno di minaccie li scacciò dalla sua presenza: essendo egli il vero ladro, et assassino. sono questi ladri come dice quel buon scrittore inter rapinas quotidianas inopes. Sempre sono auidi di noua preda. Ma che siamo noi forsi tanto riuolti à raccontare, le ruberie d’Alessio, che non si ricorderemo di ciò che dice il Caporali, volendo mostrare, che perfetti inuolatori sono molto i Siciliani, nel viaggio, ch’egli fa nell andare in Parnaso. Gaieta, e Baia costeggiando uarco, E di Pozzuol le calde, e fetide acque, Per fin, che in grembo à le Sirene sbarco, Dico la, doue il furbo uiuer nacque. Che con tanta creanza, e gentilezza D’un mio tabarro molto si comacque. Gente à rubar fin da la cuna auezza, Che mentre su le forche un se n’appicca. Vn altro rubba al Boia la cauezza. Mostra Senofonte nelle guerre Greche, che continuano l’Historia di Tucidide, che Alessandro, poi che fù creato Zago, ouer principe, fù molto fastidioso à i Tessali, insoportabile à i Thebani, et Ateniesi. diuenne corsale ingiustissimo, et ladrone per terra, et per mare. Diomede essendo accusato ad Alessandro per corsale mostrò con queste parole che il Re Macedonio era più gran ladro di lui. Se io che vado rabbando con un sol nauiglio sono accusato Pirata et tu che fai il medesimo con grande armata sei chiamato Imperatore se fosti solo et senza quella gran compagnia saresti chiamato ladro. et ancor io se i popoli mi seruissero, sarei chiamato Imperatore, dunque non siamo differenti ma la iniquità della mia fortuna, et la necessità delle cose mi fanno Pirata te il Fasto intolerabile, et la grande auaritia rendono ammacchiato del medesimo vitio; ma se la mia fortuna si mostrasse per l’auenire verso me piu benigna, io diuenterei migliore: ma tu quanto più fortunato sei tanto peggiore diuenti. Lucano nomina Sesto Pompeo, per Corsale, dicendo. P. 229 Sextus erat magno proles digna parente, Qui mox scylleis exul grassatus in undis; Polluit equoreos Siculus Pirata triumphos: Cleomenide scorse il mare vintidue anni, al tempo di Tolomeo. Clipancia al tempo di Ciro fù famoso ladro maritimo. Milia al tempo di Dioniosio Siracusano, che essendo condotto alla morte, confessò, che haueua fatto morire più di cinquanta mila huomini, à’quali haueua anco tolto la roba. Cleomene al tempo di Alessandro Magno fu gran corsale, et Alcanore al tempo di Giulio Cesare non cedeua à nessun corsale nell’essere un valente ladrone, et cosi molti altri, che per breuità tralascio; ma forza è, che di nuouo io mi ritragga à riua; percioche ci è un ladro terrestre, che non vuol ch’io ponga fine à questo capitolo senza il suo nome, et questo è Giouanni Lago, ilquale era capitano della guardia del palazzo dell’Imperatore di Costantinopoli, nominato Alessio Comneno. Costui era il più bel ladrone di quanti sieno mai stati, et deliberò di mettere insieme molti denari per se, et per li suoi con quello ufficio onde nel tempo di notte sprigionaua tutti i più eccellenti ladri, che fossero in prigione, et li mandaua à rubare per le case, et tutto il furto, che faceuano, lo facea portare à casa sua, et à loro porgeua una mercede, come à lui piaceua, nel uederlo ne suo ufficio, pareua il più liberale, et giusto ministro, che al mondo fosse; onde questo manto di lealtà celaua un’animo ladrone, et scelerato; ma udite quello, che dice l’Anguillara nelle Metamorfosi d’Ouidio parlando di qnesti [sic] ladri, che sono lupi sotto sembianza di pecore. Và il ricco peregrino al suo viaggio, Ecco un ladro il saluta, il bacia, e ride, E fingendo amistà, patria, e linguaggio, L’inuita seco à cena, e poi l’uccide, Il cittadin più cortese, che saggio Alberga con amor persone infide, Che scannan poi per rubarlo nel letto Quel che con tanto amor lor diè ricetto. Vede il genero graue hauere il seno De la moglier, che sarà tosto madre P. 230 E dando al ricco suocero il veleno, Toglie alla fida moglie il caro padre: Un’altro, la cui figlia il uentre ha pieno, Con le sue mani insidiose. e ladre. Dando al genero ricco occulta morte Fa piangere à la figlia il suo consorte. De gli houmini uili, paurosi, & di poco animo. Cap. XVII. [Paura che cosa sia.] LA paura, è come dice Speusippo; Coucussio animi in expectatione mali. Ouero è un sospetto di un male eminente, come si legge nel li. 3. dell'Etica, il quale con la sua fredda presenza agghiaccia il sangue fino nelle più interne part del cuore, et però i Latini le aggiungono spesso epiteto di freddo, dicendo: Gelidus timor: percioche rende gli huomini freddi, essangui, tremanti, et pallidi, et l’Ariosto mostrò tutti questi effetti del timore, et prima dell’agghiacciare, nel Canto 30. mentre combatteua Mandricardo con Ruggieri, dicendo. L’aspra percossa agghiacciò il cor nel petto, Per dubbio di Ruggieri a i circonstanti. Il altro luogo, come rende l’huomo essangue, et tremante, dicendo. Tremò nel cuore, e si smarì nel viso. Nel Canto ultimo lo mostrò accompagnato dalla pallidezza in questo modo. Donne, e donzelle con pallida faccia, Timide à guisa di colombe stanno. E grandissimo difetto il timore; percioche colui, che teme la morte poco stima, et pregia la buona fama, ò l’honore; et però si legge nell’Etica, che il timore spinge, et l’huomo à commettere cose vergognose. Timidus enim magis mortem fugit, quam dedecus. Et quel che è peggio, tanto alle uolte può questo timorre, che il timido non fa alcuna resistenza à colui, che li uuol leua la uita: laqual cosa osseruò Aristotile nel secondo dell’Etica, dicedo [sic]; P. 231 Cuncta fugit, & nulli resistit: Così fece Gradasso dopo la morte del Re Agramante, come scriue l’Ariosto in quei versi; A l’arriuar del Caualier d’Anglante Presago del suo mal parue conquiso; Per scherno suo partito alcun non prese Quando il colpo mortal sopra gli scese. Fù adunque il timore cagione, ch’egli non fece alcuna resistenza ad Orlando, ancorche i poeti fingano, che i Fati molte uolte sieno di ciò cagione, sic enim fata uolunt, dicono essi, ma appresso di me sono leggierissime scuse. ma veniamo à gli essempi: racconta Orosio, che Eracliano gouernatore in Africa era timido, et di animo di coniglio; perche essendo venuto à Battaglia con Honorio, et hauendo menato seco uno grandissimo essercito, credea di spauentare il mondo col numero di tanti soldati: ma come vide l’essercito di Honorio tanto si empi di paura, che pallido, tremante, et quasi agghiacciato nel cuore fuggì al mare senza aspettar, che’l nemico più si auicinasse, et fuggi in Africa ma non pote fuggir la morte, perche fù ucciso per la sua timidità. Marco Antonio, come scriue Plutarco, hauendo attaccata la Battaglia con Bruto, si nascose in una certa palude per timore, et ui stette fino à tanto, che intese, che i suoi soldati erano vincitori: ma haurebbe fatto meglio à nascondersi sotto il letto, luogo più sicuro. L’Imperator Honorio anchor egli fu timido, et di poco animo. Cesare Augusto fuggì per timore da i suoi alloggiamenti sotto la bandiera di Antonio, mentre erano nelli campi Filippici. Nerone anchor egli era di vile, et timido animo; perche quando si vide abbandonato dalle guardie, voleua pigliare il veleno: ma per timor della morte non sapeua come fare, all’ultimo pigliò due pugnali, et hor con l’uno, et hor con l’altro si accennaua di amazzare, ma era la viltà cosi grande, che non si arischiaua di farlo, et perche haueua due compagni fedeli, pregaua hor questo, hor quello, che li facesse la strada, ma quando uno de’suoi sentirono gli strepiti de caualli, che mandaua il Senato per pigliarlo, l’uccise. Turno figliuolo di Dauno fù timido, et di poco cuore, come mostra Virgilio nel lib. 12. che quando vide, che contra Enea più non poteua, supplicando li domandò la vita con queste parole. P. 232 Ille humilis suplexque oculos, dextramque precanté Protendens, equidem merui, nec deprecor inquit: Vtere sorte tue. miseri te si qua parentis Tangere cura potest, oro; fuit & iibi talis Anchises genitor; Dauni miserere senectæ; Et me, seu corpus spoliatum lumine mauis, Redde meis. uicisti, & uictum tendere palmas Ausonij uidere, tua est Lauinia coniux. Ulterius ne tende odijs. I quali versi tradotti in volgare da Annibale Caro tali sono: Gli occhi, & la destra, Alzando in atto humilmente admesso, E supplicante, io (disse) ho meritato Questa fortuna, e tu segui la tua, Che ne uita, ne venia ti dimando: Ma se pietà de’padri il cor ti tange, (Ch’ancor tu padre hauesti, & padre sei) Del mio vecchio parente hor ti souengna; Et se morto mi vuoi; morto ch’io sia, Rendi il mio corpo a’miei: tu vincitore, Et io son vinto, e già li Ausonij tutti Mi ti veggono à i piè, che supplicando, Mercè ti chieggio, & gia Lauinia è tua. A che più contra un morto, odio, e tenzone? Par che non cerchi la vita, et pur la dimanda il timido. Doue rimane Hettore? che sprezzando i preghi del Padre, e della madre fatti accioche non andasse contra Achille, vi volle andare: ma come vide il ferro nemico, preso dal freddo del timore fuggì, come dice Homero nel lib. xxi. dell'Iliade in cotal modo. • hic etiam ipsum propè venit Achilles; Similis Marti galeato bellatori Vibrans Peliam astam in dexstro humero Grauem circum auté es splendebat simile splendori P. 233 Vel ignis ardentis, vel solis ascendentis. Hectora pstqua cognouit cepit timor, neque tolerauit Illic manere: retroauté portas liquit: iuit auté timés. Cpsi fuggi il brauazzo: non era cosa nuoua; perche altre volte fece il simile, et ancho più vergognose fughe usò Ormondo, ancorche facesse l’animoso, io non credo che valesse un bagatino, et lo mostrò quando voleua à tradimento uccidere Goffredo, come mostra il Tasso perche essendo ferito mortalmente da Goffredo, fu assalito da subita paura, et non fece difesa alcuna; onde cosi dice ragionando di lui. Mortalmente piagollo, e qual fellone Non fere, non fa schermo, non s’aretra; Ma, come innanzi à gli occhi habbia il Gorgone, (E fu cotanto audace) gorgela, e impetra. Et il vil Martano vedendo il Signor di Seleuca, che uccise Ombruno, hebbe tanto timore, che non sapeua, che fare; però di lui dice l’Ariosto nel Canto 17. Veduto ciò Martano, hebbe paura, Che parimente à se non auueuisse [sic]: E ritornando ne la sua natura, A pensar cominciò, come fuggisse, Grifon, che gli era appresso, e n’hauea cura, Lo spinse, pur, poi che assai fece, e disse Contra un gentil guerrier, che s’era mosso, Come si spinge il cane al lpuo [sic] adosso. E ne i quattro ultimi versi della stanza, che segue: Quiui oue erano i principi presenti, E tanta gente nobile, e gagliarda, Fuggì l’incontro il timido Martano, E torse il freno, e’l capo à destra mano. Pur la colpa potea darsi al cauallo, Chi di scusarlo hauesse tolto il peso, P. 234 Ma con la spada poi fe sì gran fallo; Che non l’hauria Demostene difeso. Di carta armato par, non di metallo, Si teme d’ogni colpo essere offeso, Fuggesi al sine, e gli ordini disturba, Ridendo intorno a lui tutta la turba. Afferma Plutarco, che Cicerone era timidissimo dicendo. Era Cicerone non solamente pauroso fra l’armi, ma anchora quando andaua ad orare non potea fare, che non tremasse tutto; et quando hebbe à difendere Milone, vedendo Pompeo con molti armati, à cui il Senato hauea dato il carico di difendere la Città, temendo di qualche seditione, tremaua, come fosse stato di mezzo verno alla neue, et à fatica poteua trarre la uoce della gola. Scriue l’Acominato, che i soldati di Manuelo Camize erano paurosi, et vili, perche temendo, che i nemici co quali non anchor combatteuano, li seguitassero, si misero à fuggire verso gli alloggiamenti, come hauessero hauuto dietro uno essercito armato. timido oltre ogni credenza fù Alessio Comneno; perche essendo intrauenute alcune cosette di poco momento stette chiuso tre giorni in palazzo sempre tremando. Aristofane, et Lucano ridono di un certo nomato Pluto intorno alquale volando una mosca tremante et sbigottito si celaua in diuersi luoghi: ma per tutto vedendone il miserello viueua disperato, non trouando luoco sicuro in cui potesse fuggire si feroce Animale. si legge nelle Historie di Appiano Alessandrino, che Ptolomeo, come intese, che Catone veniua uerso lui per priuarlo dell’Isola di Cipri, per grande paura che hebbe, raccolse ogni suo tesoro, et si gettò in mare, desiderando morire ricco se non coraggioso. Scriuono alcuni Historici, che Claudio Imperatore fù timido, et pauroso oltre ogni fede, percioche hauendo trouato una spada nel tempio, subito diuene pallido, et freddo, come li fosse vennta [sic] una gran febre quartana, poi fece ragunare il Senato, et con molte lagrime, et lamenti si rammaricò della sua suentura, dicendo che non trouaua alcun luoco sicuro, et però non sapea doue celarsi, et poi se ne stette chiuso in case molti giorni non lasciandosi vedere à persona veruna. Trogo dice questo di Xerse. Era Xerse l’ultimo ad entrare in battaglia, et il primo à fuggire, timido et pauroso ne pericoli, gonfio et superbo, oue non era pericolo. ma p. 235 come andò in Grecia, et vide le nemiche spade, tremando di paura fece un dishonorato ritorno. Scacciarono i Lacedemoni da i lor confini Archiloco poeta; perche essendo più d’ogni altro colmo di continuo timore scrisse, che meglio era gittar la scudo, che morire, contra il comandamentode Lacedemoni, che ordinaua ò che venissero salui con lo scudo, ò soura lo scudo. Se alcuno dice à questi timidi, i quali fuggono ogni cosa, che ponga spauento, Tu ne cede malis sed contra audentior ito. Subito, et senza alcun timore rispondendo alla grossolana dicono. Rumores fuge; perche è cosa assai più sicura, io non voglio raccontare di tanti, et tanti, che portano la spada alla cintola, per parer Catabrighe, et brauazzi, che uenendo à parole sono fuggiti: onde le pouere spade si consumano solamente per la ruggine. Non voglio, che resti nella obliuione sommersa la felice memoria di un conte Milanese chiamato Alberto Chiaro, il quale per nobiltà di stirpe, et per le opere honorate de suoi antecessori di gran riputatione era, ma era tanto timido, che quasi oscurò per questo mancamento tutto quel lume, che glu aui acquistarono à tal famiglia. costui venne un giorno à discordia per alcune ciance con un Caualiere nobilissimo et essendo molto importuno, et linguacciuto spinse il Caualiere à tanta ira, che mise mano alla spada. Alberto ueduto questo tremando malediceua frase le parole, che rano cagioni di tal discordia. il Caualiere gridaua poni mano alla spada, se non ti uccido: onde al fine la trasse, ma quando fù per affrontarsi col nemico, hebbe tanto timore, che il ferro li cadde di mano, et fuggi. il caualiere li si mise à correr dietro, ma da molti gentilhuomini fù ritenuto. come fù la seguente mattina andò alla casa di Alberto, et lo sfidò à combattere seco, se non che andarebbe ad ucciderlo in casa, il timido, et vile col cuore di Ghiaccio piangendo si raccomandaua alle moglie, et la pregaua, che cercasse luoco sicuro per lio: accioche il Caualiere irato non l’uccidesse. la moglie, che sapeua maneggiar l’armi quanto alcun’huomo, vergognandosi di un tanto vituperio diede molte pugna al pauroso marito, et si mise à vestirsi l’armi sue, intanto il nimico di fuori Bestemmiando, et gridando lo disprezzaua, et diceua, che si vergognaua essere uenuto all’armi con si timido coniglio. in quesio la valorosa moglie d’Alberto hauendosi uestite le sue armi, et i suoi vestimenti assomigliaua al marito; perche era cosi grande e grossa di corpo, quanto esso, solo il volto l’accusaua, non hauendo P. 236 barba, come Alberto ma à questo l’accorta Donna trouò rimedio riuolgendosi un tabarro intorno al collo, et al viso. il colore non la faceua conscere per Donna, perche era brunaccia, et simile al marito, armata che fù, saltò fuori della porta arditamente con la spada in mano. il Caualiere credendoli Alberto subito mise mano alle armi, et cominciarono à combattere et combatteron bene un buon paio d’hore senza alcuna defferenza: onde il Caualiere, che al fine di qualche strano incontro temeua, disse, remettiamo le offese, perche non credeua, che tu fossi Caualiere si prode, come sei. la donna accettò la proferta, et facondoli cenno col capo, entrò in casa. cosi saluò chiaro, et illustre l’honore della famiglia, et del marito. Donna veramente degna di lungha Historia, et non di queste quattro parole strucciate. De gli bestemmiatori, & sprezzatori di Dio. Cap. XVIII. CHE più graue errore può essere commesso dall’huomo, che dir parole, con le quali egli cerchi, se possibil fosse, di offendere la diuina prouidenza? certo niuno, se noi non diciamo quello essere maggiore, come veramente credo che sia, chi lo disprezza, e bessa, come cosa imagiria, ò che punto non operi in questo mondo in feriore; percioche è cosa credibile, che coloro, che con parole cercano di vituperare ò la potenza, ò la naturu [sic] diuina, credano, che ella non si ritroui; ma col orom che lo sprezzano, ò non lo admettono, ò se l’admettono, otioso, et impotente lo reputano. scelerati, et iniqui sono. dalle Donne sono lontane le bestemmie, et il disprezzo di Dio, et de’Santi, come quelle, che sono religiosissime, et deuotissime: cosa che non ha bisogno di proua; ma il buon maschio, poco timoroso della diuina giustitia, et della sua potenza prorompe spesso, in bestiemmie horrende, et inique, ingegnandosi imbestialito; di ritrouarne alcuna non più detta, et colui vien fra gli huomini riputato gentilhuomo, et huomo, di conto, che meglio bestemmia; però veniua trattato per un’huomo di poco conto un gentilhuomo, di P. 237 Bologna sauio, e discreto, ilquale essendo andato alla corte di un Principe, et pratticando con gli altri cortigiani, quando bisognaua, che affermasse alcuna cosa con giuramento, diceua al corpo della gallina, per la qual cosa da gli altri corte veniua reputato un buffone, et un’huomo assai leggiero, et bisognò alla fine, che ancor egli cominciasse à trouar Christo, et i Santi, per non essere tenuto un’huomo da niente. Selucio, come narra Battista Ful. disprezzaua ogni culto diuino: onde mandò à spogliar il tempio in Gierusalem, ne conosceua altro Dio, che se stesso. Cambise amazzò il sacro Bue, credendo di far violenza à Dio. Giuliano Imperatore disprezzò tanto la diuina bontà, che essendo ferito si empì una mano di sangue, et gittollo verso il Cielo, dicendo, satiati, et deponi la ira. Nicolò falso Eremita, et molti altri compagni suoi erano grandissimi bestemmiatori et cosi Niceforo Imperatore, et questo scelerato voleua, che i primi della militia si seruissero de Vescoui, come de serui, et cosi de gli altri Sacerdoti di minor dignità, et delle loro entrate con ogni autorità; biasimaua quelli, che faceuano i calici d’oro, et d’argento, et perche erano sacri non uoleuano adoprarli nelle cose profane; ma egli non haueua questo rispetto. Da questo si può comprendere, che non giouano ammonitioni à questi bestemmiatori, et sprezzatori di Dio. l'Ariosto pone Rodomonte per uno di questi tali, dicendo. Doue nel caso disperato, e rio, Altrì fan voto, egli bestemmia Dio. Et quando è sotto Parigi, ancor dice. Ne uien sprezzando il Ciel, non che quel muro. E nelle sue Satire, parlando di questi tali huomini giucatori. Bestemmian Christo gli huomini ribaldi, Peggio di quei che lo chiauaro in Croce. Et ancor il Tasso pone Argante per uno sprezzatore di Dio, dicendo. P. 238 D’ogni Dio sprezzatore, e che ripone Ne la spada sua legge, e sua ragione. Si racconta ancora di un certo gentilhuomo buon compagno; ma gran bestemmiatore, ilquale si dilettaua del giuoco, et quando perdeua un soldo ritrouaua tutti i Santi, et le Sante del Paradiso; essendo costui ripreso, li rispondeua’ Calia buen ombre de Dios, quien bien reniega, bien creye; cioè, Taci buon huomo di Dio, che chi ben bestemmia, ben crede. Non uoglio che resti à dietro questo altro essempio, essendo di un’huomo scelerato, et bestemmiatore. Fu nella città di Mantoua uno di natione Sardo, chiamato Fuluio de Raspi, huomo assai commodo de beni della fortuna: ma ricchissimo più di ogni altro vitii, et fra gli altri era cosi valente bestemmiatore, che non cedeua al più iniquo huomo, che natura prodotto hauesse. Costui non si degnaua di vituperar con la sordida bocca un sol santo alla volta, ma tutti in un sol punto voleua con empie, et dishoneste parole biasimare: dopo un certo tempo fù accusato al Duca, et preso, et condannato in prigione sei anni. Liberato ch’egli fu di prigione s’imaginò di ritrouare un nouo modo di bestemmiare, ponendo un nome à ciascun bottone, che hauea nel giubbone di Dio, de’Santi, et della Vergine, et quando li veniua qualche leggierissima occasione, diceua ridendo, non uoglio già bestemmiare, sia maledetto il primo bottone, ò il secondo, et come più li pareua; Stupiuano le genti, che l’udiuano, come hauesse lasciato in tutto quel brutto vitio. Giocaua benissimo al pallone, et per questa, eccellenza era meno odiato dal Duca, di quello, che sarebbe stato; seguitò con questo modo di bestemmia alquanti mesi, nè mai per gran cosa, che contraria accaduta li fosse, diceua altro, che de’bottoni; Il Duca, che era sagace, et accorto Principe, pareua impossibile, che sotto questa coperta, egli non bestemmiasse: et però fece à se chiamare, li promise sotto la sua persona di non offenderlo in modo alcuno, et egli li dichiarò la verità; restò il Duca molto merauigliato della pessima natura di costuim et riprendendolo li disse; che lasciasse questo modo, se non lo farebbe morire. Fuluio tolto licenza si partì, et vigilando la notte, pensaua fra se medesimo, come potesse ritrouar nuouo modo di bestemmia; ma il diauolo, che non manca di aiutar i suoi seguaci, li mise nell’animo di ritrouar una picciola carta, nella quale fosse stampato tutto il Paradiso, et P. 239 porla in un buco della strada, oue si giucaua al pallone bene occultata, in guisa, che non fosse possibile, che fosse veduta, et cosi fece. Venuta occasione di giucare, quando li pareua tempo di sfogar la sua bestialità, percotea fortemente col bracciale sopra il buco, oue nascosto haueua la carta. Staua il Duca spesso à vedere giucare, et osseruando questo molte uolte, et specialmente in certe occurenze, lo fece chiamare, e dopo molte parole; percioche lo scelerato temeua, li confessò la uerità; il Duca tenutolo in prigione certi mesi, et fattoli tagliare una orecchia, lo lasciò libero, percioche cosi li hauea promesso con questa conditione, che giucasse, et se piu trouaua nuouo modo subito fosse squartato viuo, et abbrusciato. Se ne stette il galanthuomo molti mesi fingendo di essere amalato senza comparere in luogo, oue fossero persone, parendoli impossibile seruar la promessa, al fine imaginossi un bellissimo modo, che non l’hauria trouato il Diauolo, che voleua parere di laudare, et sotto questo bestemmiare. Adunque cominciò à giucare et quando era nel feruor della colera non diceua altro, se non, sia benedetto il primo dì d’Agosto, con tante risa delle genti, che nulla più, considerando, che era un de’più allegri giorni dell’anno. Seguitò con questo modo tre, ò quattro anni senza dare sospitione ad alcuno di bestemmiare. Finalmente la giustitia di Dio, che non lascia andare impuniti questi empi, et ribaldi huomini, fece che da un suo carissimo amico fu scoperto al Duca, come che Fuluio lodando bestemmiaua; à pena li diede fede il Duca, pur fattolo prendere, et dattoli varii tormenti, confessò che lodaua il primo dì d’Agosto; percioche in tal giorno nacque Giuda, che tradì Christo. il Duca udito questo ordinò, che fosse squartato, et abbrusciato questo horribile mostro dell’Inferno. Ma che diremo noi di quello scelerato Alamano? dopo la presa di Strigonia. ilquale diede col ferro ne gli occhi all’effigie del Redentore del mondo, non diueua egli essere un grande sprezzatore di Dio? Onde contra lui esclamando Sertorio Casoni dice. Ah perfido, che fai? qual cieco affetto Ti guida à un tanto, e sì nefando errore? Qual Megera crudel, qual empia Alletto, Qual peruerso furore, Cosi gli occhi t’adombra che non miri, P. 240 Che contra il sommo tuo fattor t’adiri? O vil Barbara mano; Crudel ministra di pensier profano, O pensier mostruoso infame, e rio; Per allegrezza incrudelire in Dio? Et piu sotto dice; E se de i lumi priui L’effigie di quel Dio, per cui tu uiui, Degno è, che la tua vita o gn’hor si stia Ne la sua pazza cecità natia, Leone Imperatore fu crudelissimo, et sprezzatore di Dio. costui abbrucciò tutte le imagini de Santi, ch’erano in Oriente, et mandò à dire al Papa, ch’ei facesse il simile in Roma; ma il Papa in se stupefatto molto si merauigliò di un’huomo tanto scelerato, et empio. Ne voglio che resti sotto silentio Giorgio Franispergo, del quale dice il Giouio nel lib. 24. queste parole. Giorgio Franispergo per la sua rabbia, et bestialità minacciaua con la lingua ebbra il sommo Pontefice un capestro d’oro, che sempre per far questo portaua in seno, et à Cardinale uno di seta vermiglia, perche li voleua tutti ad uno ad uno impiccare con le sue mani: ma per diuina volontà cadde appopletico: onde rimase priuo del moto di tutte le membra, racconta il medesimo, che l’essercito di Borbone quando entrò in Roma, tagliò à pezzi una infinità d’huomini poco atti alla guerra, iquali gittate l’armi domandauano la vita, ne vi fu alcuno, che si potesse saluare; percioche nelle chiese, nelle sagrestie dinanzi à gli altari uanno i miseri Cittadini tagliati à pezzi, et pur di far questo nel tempo passato Totila Goto, et Genserico Vandalo huomeni crudelissimi venuti dalle ultime barbarie s’astennero, et hebbero riuerenza à sacrati tempi. ma questi mostri di nouella crudeltà, senza alcuno timore tutti gli altari haueuano machinati di sangue humano. Mostra l’istesso Giouio la poca riuerenza, che haueuano uerso le sacre statue, et chiese i Tedeschi. dicendo attendeuano à rubare et à tracannare, et riuoltarono il lor bestial furore contra i sacri tempi con le imagini, che rappresentauano P. 241 Christo, et i Santi suoi fedeli, et le Sante con molto disprezzo, faceuansi besse de Papi, et delle sacrosante leggi di Dio. Che vi pare di questi huomini da bene? Ma doue resta Costantino maggior Impadi Costantinopoli, di cui, la natura non si ricordaua hauer prodotto giamai il piggiore: egli era bugiardo, crudele, ignorante, bestiale, ingannatore, et misteale: ma era più di tutte queste cose grande, et ostinato sprezzator di Dio. dice di lui questo l’Acominato. Egli alcuna riuerenza non portaua ne à Christo, ne à Santi. fece questo Sacrilego leuar da tutte le chiese le Croci, ne volle, che si celebrassero i diuini uffici, fece gran danno à Uescoui, à monachi, et a’prelati suoi sudditi. spegnendo in ogni luogo il nome, et l’intercessione della Vergine Maria, et de Santi, come cose inutili, et indegne da essere scritte; fece gittar via le reliquie de’Santi, come cose odiose. et se intendeua, che alcuno riuerisse od hauesse riuerito, od inuocato la Madre di Christo, od alcuno de Santi lo condannaua à morte con molti tormenti. ò lo mondaua in lontano essilio. Tolse le relinquie di Santa Eufemia, che d’ogni intorno spirauano gratissimo odore di Santità, et le gittò in mare, lequali per diuino miracolo furono prese nell’Isola di Lemno. questo peruerso, et perfido huomo atterrò i monasteri delle vergini velate, et i monasteri de monaci. fece poi, che le monache, et i monaci si riducessero in un gran prato, et raccolti che furono, ordinò, che vestissero una veste bianca, et si congiungessero in matrimonio minacciando à colui, od à colei che ubbidito non hauesse, asprissimi tormenti. Che potrebbe dire l’innumerabili stracciamenti, che furono fatti allhora à coloro, che non vollero ubbidire al sacrilego Imperatore? certo niuno, perche pochi, o nessuno fece conto del comandamento imperiale. Fù etiandio Leone Imperatire Sacrilego, et peruerso huomo; perche sforzaua i Christiani à rinegar la fede di Christo, abbandonare, i quali erano trouati honorare Christo, ò la Vergine, od alcun de’Santi. molti hebbero la corona del martirio. faceua gli huomini mal grado loro Patriarchi. Conoscete dalle parole di Paolo Orosio la poca riuerenza, che haueua verso i Feneri Crasso. Crassus inexplebilis cupiditatis: audita in Hierosolymis templisopulentia: quam Pompeius intactam reliquerat: in Palestinam diuertit: Hierosolymam adit: templú inuadit; opes diripit. Ma non ui pare cosa ragioneuole, che io faccia qualche P. 242 mentione di coloro, lequali anchorche adoprassero i bugiardi Dei, non lasciauano però, di sprezzarli, de’quali sprezzatori l’un fù Crasso. Narra Tito Liuio, che un gran Sacrilego fù Quinto Fuluio Flaco nel secondo libro della quinta deca. Costui haueua due figliuoli, che militauano nell’Illiria, onde gli venne nouella, che lu’no era morto, e l’altro da pericolosa infermitade oppresso. Ond’egli vinto dal dolore di ciò s’impiccò, et ogn’uno diceua, che questo gli era auenuto; perche haueua spogliato il tempio di Giunone Licinia, et haueua sprezzato la sua Deità. Racconta il medesimo Autore, che Claudio Censore fù priuato del lume de gli occhi, e tutti coloro, ch’erano da dodici famiglie de Potitii morirono, et questo accaddè, perche Claudio Censore, et i Potitii haueuano dato la cura dell’altare, e de’sacrificii di Ercole à serui, che prima da loro medesimi era essercitato. Calipo oue rimane? ilquale come dice Plutarco fù affatto affatto irreuerente verso gli Dei, perche essendo egli dalle Donne di Dione spauentato; percioche haueuano inteso, che il pessimo huomo ordiua un gran tradimento contra la vita del misero Dione, egli andò à ritrouarle piangendo, et negò loro la verità con giuramenti offerendosi à dar loro ogni fede. le Donne dissero, che voleuano, ch’egli facesse un giuramento, ilquale si faceua in questo modo. Colui, che voleua giurare andaua nel tempio di Cerere, e di Proserpina, et faceua alcuni sacrificii, e dopo si vestiua la porpora della Dea, e pigliaua in mano una facella accesa, e giuraua. Il che Calippo compiutamente fece per confirmare il dubbioso animo delle nobili Donne; ma poi schernì gli Dei in modo tale, che fece ogni un merauigliare; percioche aspettò il giorno della Dea Proserpina nel cui nome giurato haueua, et fece allhora l’homicidio di Dione, con tradimento, sprezzando la festiuità della Dea, et se in altro tempo era Capitano scannaua miseramente sopra gli altari il Sacerdote de i sacrificii d’essa. Sprezzator di Dio fù Dionigi Tiranno di Siracusa, che spogliò il tempo di Proserpina, e dopo hauendo buona nauigatione con parole losenggieuoli diceua quanta boanccia danno i Dei à chi lor toglie gli ornamenti. Haueua Nerone ornata la staua di Gioue con un drappo d’oro, et egli gliele tolse dicendo, che era inutile ad ogni stagione; perche diuerno, ella era troppo fredda e di state troppo graue. poi commise un’altra sceleraggine non minore di questa. Formauano gli antichi le statue di Apollo di età giouinile, et quelle di Esculapio P. 243 semili, et barbate. il buon Dionigi leuò la barba ad Esculapio, la quale era d’oro, dicendo, che non era cosa diceuole, che essendo il Padre senza barba il figliuolo si facesse barbutto, et tutto questo faceua ridendo delle sourane potenze. Mezentio fu crudo tiranno, esprezzatore de Dei, come dice Virgilio nell’Eneide. Priamo init bellum Tirennis asper ab oris Contemptor Deum Mezentius agminaque armat. Et Giouan Giorgio Trissino. Scriue come Arnolso era un pessimo bestemmiatore dicendo di lui cosi. Bestemmiatore scelerato, e ladro, E quasi infamia del paese Goto. Sprezzator grande di Dio era Capaneo, come dice Statio nella sue Thebaide mentre combatteua con quel serpente, che poi uccise, lequali parole traportato in ottaua rima dal Valuasone tali sono. O’ se animal natio di queste selue, O’ se pur sei sotto tal forma un Dio, Et ò fosti pur Dio, ch’io farei fede, Se tanto puo alcun Dio, quant’hor si crede. E parlando Ouidio di uno bestemmiatore, il quale era in fauo di fineo dice, Et que ibi semianimis verba execreantia lingua Edidit, & medios animare spireuit in ignes. Erisitone fù sacrilego, et sprezzator de Dei come mostra Ouidio nel lib. 8. che mentre taglia la sacra Quercia dice. Non dilecta Deæ solum sed ipsa licebit. Sit Dea tanget frondente cacumine terram. Et perche uno gli haueua ritenuta la scure, accioche non commettesse P. 244 cosi scelerato eccesso egli lo uccise, et ritornò à percuotere la Quercia, dalla quale usci una voce, che diceua. Nympha sub hoc ego sum Cereri gratissima ligno Quæ tibi factorum pænas instare tuorum Vaticinor moriens. Ne perciò lo scelerato ritenne la destra, ma seguì di pessima opera incominciata. Persequitur scelus illesuum. Io credo che fosse etiandio un grande huomo da bene iasone, capo de Tessali; perche essendo venuto le feste chiamate Pythie, fece intendere alle Città, che alleuassero buoi, pecore, capre, et porci per cagione del sacrifitio, e benche fosse stato comandato poco numero di Animali à ciascuna Città, nondimeno i buoi non erano meno di mille, et l’altro bestiame passaua il numero di diecimila, voleua il galante huomo fingere di fare le feste in honor d’Appollo, et per se ritenere i doni. i danari del tempio furono da lui tolti. onde l’huomo pessimo volendo forsi beffare Dio, domandò all’Oracolo, che gli bisognaua fare; se hauesse preso i denari di Dio, li fù risposto, che tal pensiero toccaua allo stesso Dio: ma poco dopo per le opere sue inique fù ucciso. tutto questo scriue Senofonte nelle guerre di Grecia, che continuano la storia di Tucidide. P. 245 De gli huomini Incantatori, Magi, & Indouini. Cap. XIX Che i primi inuentori dell'arte Magica, et delle tacite inuocationi de' Demoni, ò con la sordida bocca espresse, sieno stati gli huomini, è cosa appresso ad ogn'uno notissima, ne già si ritroua (leggansi tutte le storie) che le Donne simili arti inuentassero: ma furno etiandio pochissime, che dopo, che furno da' maschi ritrouate à quelle attendessero. Fù inuentor dell'arte Magica Zoroastro, come si legge in tutti gli ottimi Istorici, la qual cosa hauendo notato il Petrarca ottimo Istorico disse. - e doue Zoroastro Che fu dell'arte Magica inuentore. Et l'Ariosto parlando del ritrouatore dell'Arte Maga. Ne quanta esperienza d'arte Maga, Fece mai l'inuentor suo Zoroastro. Scriue Giustino nel principio del suo Epitome, che Zoroastro fù Re de' Battriani nella Persia, et inuentor dell'arte Magica: arte, come racconta Plinio nel libro trentesimo, apportatrice d'ogni maniera d'inganno: et però maluagia, et pessima. Scrisse primo fra gli altri, come si legge nel detto Plinio Hostane. Cercorono vari paesi per impararla Pitagora, Democrito, Empedocle, et Platone; ma Democrito illustrandola, diuenne apo le genti di chiaro nome. L'augumentò etiandio Simon Mago nella Città di Roma, la quale li eresse una statua in segno di honore; et tanto fù stimato da quelle sciocche genti per le sue merauigliose operationi, che fu detto di lui. Hec est virtus Dei, quae vocatur magna. Operò cose merauigliose Apollonio Tianeo, come racconta Filostrato nella vita del detto. et nel lib. 3. dice che Apollonio vide nell'India due vasi, ouero amphore, una seruata per P. 246 generar le pioggie, l'altra per eccitar, et generar i venti; Onde se accadea, che l'India hauesse bisogno di humore per troppo secco dell'aere, apriuano la bocca à quella destinata alle pioggie, et subito salite le nubi pioueuano: et quando le pioggie troppo copiose erano, la chiudeuano. Similmente se il Sole col suo ardore troppo riscaldaua i corpi, aperto il secondo vaso, et uscendo i venti raffredauano lo aere dell'India. Fù tanto il valore di Apollonia nell'arte Magica, che il maluagio Herode lo comaprò à Christo, et Alessandro Imperator de'Romani riueriua la sua effigie: fù desideroso d'imparar questa arte Nerone, non tralasciando veruna spesa, nè fatica, facendo venire à se Tiridate Re di Armenia, che condusse seco molti essercitati in questa scelerata professione. Aron Greco, come scriue Niceta Acominato, diede opera all'arte Magica, ilquale essendo preso per dargli il castigo, che meritaua, fu portato in giudicio un simulacro di Gallana, nella quale era la imagine di un'huomo, che haueua ambidui li piedi ne' ceppi, et trapassato il petto con un chiodo. Fù ancora ritrouato studiare la clauicula di Salamone, et leggendo faceua venir Diauoli in gran compagnia; comandaua loro quello, che li piaceua. Furono cauati gli occhi à Sclero Setho; perche era uno scelerato mago, et fece queste. Amaua costui una castissima donzella; ma non era da lei riamato; l'empio strigone fece mille incantesmi in un pomo persico, et poi lo fece portare alla fanciulla: essa non sapendo chi gliel mandasse, se lo pose in seno, subito cominciò à correre, et à smaniare pazza affatto cosi oprano in danno altrui questi pessimi huomini. Ma che dirò io di Michele Sidicite? Che non con alcuni incantesmi toglieua, che non si poteuano vedere le cose, che pur si poteuano vedere le cose, che pur si poteuano vedere: haueua tanta amicitia co' Diauoli, che nulla più si può hauere nel mondo con amico carissimo. Essendo una volta in un palazzo, passaua una nauicella piena di olle, et di altre cose di terra, come piatti, et scudelle, et hauendo dimandato à certi gentilhuomini, che intorno li erano, quanto voleuano darli, se faceua, che quegli huomini lasciassero di remigare, et spezzassero tutti que'vasi, li risposero, tutto quello, che sapeva chiedere: allhora si leuarono i marinari, et co' remi ruppero tutta la lor mercatantia, nè si fermarono, che il tutto fu ridotto in poluere: dopo i miseri marinari si tirorono per le barbe et li ruppero, perche pareua loro, che serpenti in numerabili andassero serpendo sopra i vasi; ma come furono rotti, P. 247 sparirono. Questo è uno incanto sollazzeuole ne faceua con l'aiuto del suo Diauolo di altra guisa che dauano grandissimo danno alle persone: però li fur cauati gli occhi però dopo comepose un libro pieno di mille sceleraggini. Niceforo ancora si diede à questa opera diabolica, facendo fare mille cose non giuste: oltre le altre cose, che faceua, fece legare ad un palo di ferro un bue per le corna, et mentre che muggiando si raggiraua, lo fece uccidere, et poi macinar la sua pelle sotto la mola al contrarlo, per valersene ne gli incantesmi tutte queste cose racconta Niceta. Mi sovviene di Michel Scotto, che fu cosi gran Mago, che senza preparatione di cosa alcuna, conuitaua molte persone à mangiar seco, et quando era l'hora del desinare constringeua i demoni, de' quali era tutto suo, à condurli cibi di diuerse parti onde di lui ragionando, dice Dante: Quell'altro, che ne'fianchi è cosi poeo, Michele Scotto fu, che veramente, De le magiche frodi seppe il gioco. Ismeno, per quello che dico Torquato Tasso, era un gran mago udite i versi. Mentre il tiranno si apparecchia à l'armi, Soletto Ismeno un dì se li appresenta, Ismen, che trar di sotto à i chiusi marmi Può corpo estinto, e far, che spiri, e senta. Ismen, ch'al suon di mormoranti carmi Fin ne la reggia sua Pluton spauenta; E i suoi demon ne gli empi uffici impiega, Pur come serui, e li discioglie, e lega. Et più sotto volendo mostrare la peruersa natura di quegli maghi, che non hanno fede in Dio vero, nè anco in Macone interamente, dice nel canto secondo. Questi Macone adora, e fu Christiano, Ma i primi riti anco lasciar non puote, Anzi souente in uso empio, e profano, Confonde le due leggi à se mal note. Et piu sotto mostrando come sono empi, e scelerati, dopo che P. 248 Ismeno fece rapire ad Aladino nella Chiesa de' Christiani il sacro simulacro, dice. E portollo à quel Tempio, oue souente S'irrita il Ciel co'l folle culto, e rio, Nel profan loco, e su la sacra imago, Susurrò poi le sue bestemmie il mago. Merlino fù si gran mago, et incantatore, che predicea fin' dopo morte le cose, che haueuano à venire, essendo con l'anima, et co'l corpo nella sepoltura, come dice l'Ariosto. E la condusse à quella sepoltura, Che chiudea di Merlin l'anima, e l'ossa. Et poco innanzi dice ragionando di lui, Che le passate, e le future cose, A chi li domandò sempre rispose. Atlante era grandissimo Mago, Negromante, et Incantatore; benche non preuedesse, che Bradamante lo douesse prendere, et farlo fare, come fece, cio è disfare il suo proprio palazzo, come si legge nel quarto Canto. Di su la solia Atlante un sasso tolle, Di caratteri, e strani segni sculto, Sotto vasi vi son, che chiaman' olle, Che fuman sempre, e dentro han foco occulto. Hauete udito quante cose fanno questi huomini peruersi per ingannar le genti, danno l'anima, et il corpo al Diauolo per potersi seruire di lui ne i loro piaceri etiandio Malagigi era Negromante per quel che dice l'Ariosto. Malagigi, che fa d'ogni malia, Quanto che sappia alcun mago eccellente. Et Procopio per quanto mostra il Trismo era eccellentissimo P. 249 in queste arti dicendo nel primo lib. della sua Italia liberata, Procopio era uno Astrogolo eccellente, Cui per gratia del Cielo eran palesi L'incogniti viaggi de le stelle. E le sagaci note de gli angelli. Onde sapea predir di tempo in tempo Tutte le cose, che douean venire. Numera Hidraotte fra magi Torquato Tasso dicendo nel 4. libro. Reggea Damasco, e le citta vicine Hidraotte famoso, e nobil mago, Che fin da i suoi primi anni à l'indouine. Arti si diede, e ne fù ogn'hor piu vago: Ma che giouar se non potè del fine Di quella incerta guerra asser presago. Ne aspetto di stelle eranti, e fisse, Ne risposta d'inferno il ver predisse. Che valente stregone era costui non predicendo la verità di alcuna cosa. Ne à costui cede Alfeo, che come dice l'Ariosto era pien d'Astologia, et etiando mago. Medico mago, e pien d'Astrologia, Ma poco à questa volta li souenne. Anzi egli disse in tutto la bugia, Predetto egli s'hauea, che d'anni pieno, Douea morire à la sua moglie in seno. E più sotto. E pur li ha messo il cauto Saracino La punta de la spada ne la gola. Anco Ombrone era buono incantantore strigone Sacerdote, et Capitano andò costui in fauor di Turno nella guerra contra Enea Come dice Virg. nel lib. 7. dell'Eneide. P. 250 Quin, e Marrubia venit de gente Sacerdos Fronde super Galeam, et felici comptus oliua, Archippi regis missu, fortissimus Umbro Vipreo generi, et grauiter spirantibus hydris Spargere qui sonnos cantuquae; manuquae; solebat, Mulcebatquae; iras, et morsus arte levabat. Sed non Dardaniae medicari cuspidis ictum. Eualuit. Giacobo Sanazaro introduce nella sua Arcadia à parlar Serrano de certi maghi, ò stregoni, poiche li fù inuolato da loro parte del gregge, dicendo. Del furto si vantò, poi c'hebbe hauutolo, Che sputando tre volte fù inuisibile A gli occhi nostri, ond'io saggio reputolo. Che se'l vedea di, certo era, impossibille Uscir viuo da can irati, e calidi, Oue non val, che l'huomo richiami, ò sibile. Herbe, e pietre mostrose, e succhi palidi, Ossa di morti, e di sepolchri poluere, Magici versi assai possenti, e validi portaua in dosso, che'l facean risoluere In vento, in acqua, in picciol rubo, ò felice, Tanto si può con arte il mondo inuolnere. Narra Giovanni Botero, che gli huomini di Biarmia, et i Laponi viuono d'un medesimo modo, et che questi popoli attendono alla Magia, et co'loro incantesmi offuscano l'aere, eccitano tempeste, rendono gli huomini immobili, vendono il vento à nocchieri, et si servono de Demoni à prezzo; dicono cose auenute in lontani paesi. Dio buono, quanta inuidia devono portare à costoro certi stregoni delle nostre parti, che non vagliono un Bagattino. Tiresia Thebano fù indouino, come dice Ouidio ragionando di lui nel libro 3. delle Metamor. Ille per Aonias fama celeberrimus urbes Irrepraehensa dabat populo responsa petenti: P. 251 Euripilo fù etiandio Augure nel campo de'Greci Calcante ancor egli fù in douino, come dice Virgilio nel lib. 2. Hic Ithacus vatem magno Calchanta tumultu Protrahit in medios. Racconta il Tarcagnota, che Giuliano, dopo che hebbe comprato Imperio Romano, et che non haueua sodisfatto i soldati di quanto à loro promesso haueua, rimase da quelli abbandonato, et in un medesimo tempo si haueua acquistato l'odio del popolo. Egli perciò non molto contento staua fiso, et riuolto a mille maghiche pazzie. Si reputaua un valenthuomo, et credeua col lor potere amicarsi i soldati, spegnere l'ira, et l'odio, che il popolo contra lui concetto hauea, et raffrenare l'armi nimiche da diuerse parti del mondo, che sopra li veniuano. Mentre in questa buona speranza staua li sopravennero i soldati mandati dal senato, i quali con molte ferite l'uccisero. Da questo si può conoscere, se nell'arti diaboliche nelle quali egli credeua di essere si perito era un bel ciuetone si legge nel lib. 3. delle Relationi uniuersali di Giovanni Botero, che sono nel Brasil molti huomini malefici, et ciurmatori. Costoro hanno il lor pontefice, beuono un certo succo di una herba, che i Brasili chiamano Petima di smisurata calidità: subito che hanno beuuto questo succo cadano tramortiti, torciono la bocca, et cacciano fuori la lingua, si riuoltano in terra con tremore di tutta la persona, parlano tra denti, et danno segni tali, che mostrano chiaramente che sono veri ministri del Diavolo. Finito che hanno que' movimenti, si lauano con acque, et si stimano santificati dicono, che i lor maggiori deono ritornare in una naue al Brasil, et rimetterli in liberta, et che all'hora i portughesi saranno consumati: et se alcuno ne resterà si conuertirà in porco, ò in pesce, od in altri animali vili. Costoro haueuano un Papa, il quale si hauea con le sue incantagioni acquistata tanta autorita, che le genti sepelliuano seco viui i figliuoli per seguitarlo. Scrive l'Acominato che Costanzo Imperatore di Costantinopoli fù grande inuocatore di Dimoni, et a loro faceua sacrifitii deuotamente essendo quelli a lui suoi grandissimi, et honoratissimi non solamente Numi, ma ancho amici, perche ragionauano familiarmente insieme. Ma doue rimane Xerse, ilquale era tanto amico de gli incantatori, che andando alla P. 252 guerra ne menaua fino settecento con esso seco; accio che andassero preuedendo se doueua vincere, ò perdere. et i pessimi maghi sepelliuano viui noue fanciulli, et noue fanciulle per sapere alcune lor pazzie. Ma Xerse non fù però mago; perche mai per grande studio, che facesse non potè imparar l'arte tanto da lui amata, non hauendo troppo buono ingegno. Doue rimane Grifolino d'Arezzo? Costui fù negromante, et diceua al figliuolo del Vescouo di Siena, che lo voleua con l'arte sua far volare, come Icaro; il figliuolo del Vescouo, che materiale, et di grossa pasta era, credeua alle parole dell'ingannatore negromante, et non consideraua. che se saputo hauesse far volare, che prima egli forsi in suo danno hauria volato; onde cauò molti denari dalle mani al sempliciotto, ne mai veniua il giorno, che quasi nouello Icaro spiegasse per l'aria le penne intanto Grifolino fù accusato al Vescouo per nogrmante, et non potendo saluarsi con le sue incantagioni fu abbruciato. Raconta l'Acominato nella vita di Costantino di alcuni maghi dicendo. Alcuni Persiani de' Maurofori grandi incantatori essendo ingannati dal Diauolo venderono i lor beni, poi nudi montarono sopra la mura della Città, et pensando di volare al Cielo apriuano le braccia, et si lasciauano andare; Onde giunti a terra rimaneuano i pessimi stregoni infranti, tra quali morirno sedeci de principali. Etiandio Melampo fù grande indouino. Et Amphiarao, come scriue Statio nella sua Thebaide. Come mostra Lucano Aronte era Augure della Citta di Lucca, non meno famoso di quanti altri prima di lui haueuano fatto professione di questa arte. Asdente Parmegiano calzolaio huomo grosso, et idiota si diede all'arte dell'indouinare et però Dante lo pone nell'inferno et dice. -io vidi Asdente C'hauer ateso al cuoio, et a lo spago Hora vorrebbe, ma tardi si pente, Leone Imperatore, come scriue Niceta Acominato, infino dalla sua prima fanciullezza godeua, et si dilettaua oltra moda delle incouationi de Dimoni, et attese in tutta la sua vita à Magiche incantationi, facendo sanguinosi sacrifitii, et mille altre scelerate cose per far incantesmi. Doue lascio io Philodemo incantatore famoso come dimostra il Trisino di lui ragionando? P. 253 Prima si chiuse in un secreto loco, E poscia fece in cerchio su'l terreno E v'entrò dentro co'l libretto in mano; Poi messavi una pentola nel mezzo, Con certe ossa di morto, e certi segni Di sangue humano, e di Civette, e Gusi, E mentre che leggea sopra il quaderno, L'apparve un spiritel lungo una spanna Su l'orlo de la pentola à federe, Poi crebbe in forma spaventosa, e fiera. Horsu no che questi bastino; Percioche infiniti sono stati gli Stregoni, i Negromanti, et coloro, che hanno dato fede ad ogni sorte de augurii, come si può leggere in tutte l'historie, et in particolare attesero à tutte queste arti i Persiani; ma più i superstitiosi Greci, et ancor più de Greci i Romani, i quali non mangiauano una cipolla, ò non beueuano, se non domandauano prima il consiglio all'Oracolo, ò se non poneuan mente al volo de gli uccelli, ò al lor garrire, credo, che à nostri tempi nella Magia, et Negromantia sia un grande huomo il Passi; per cioche dottissimamente ne suoi scritti ne ragiona. [Lode del Passi.] P. 254 De gli huomini bugiardi, & mendaci. Cap. XX. Poco mi affaticarò intorno a' bugia et a' mendaci; percioche costoro per lo più sono nella compagnia de perfidi, di gli sperguiri, de fraudolenti, et degli ingrati, iquali tutti sono veri alberghi delle bugie, dirò solamente, che il valore far credere ad altrui una falsità per una verità sia cosa da huomo scelerato, iniquo, et poco buono, per se enim men dacium pravum, et vituperatione dignum, et mentientes vituperio afficiendi sunt. Cosi insegna Aristotile nel 4. dell'Ethica al cap. 7. et perche la bugia è detta da alcuno solamente per diletto, ouero per desiderio di guadagno, ò di gloria, come nel medesimo luogo si legge, tanto il bugiardo, et mendace sarà stimato più cattivo, quanto iil fina sarà ad altrui più dannoso veniamo à gli essempi, et non di una persona sola: ma di infinite insieme. Africa tutta è bugiarda, et vana, et però l'Ariosto, ragionando di Rodomonte, che più tosto che dire una verità sarebbe morto, dice. Et nel mancar di fede Tutta à lui la bugiarda Africa cede. I mercanti quasi mai, non dicono una parola vera. De i sartori non accade dire, perche. Mercurio diede à loro à beuere tutto il vaso pieno di bugie. I marinari poi sono, come dice il Boccaccio tutti bugiardi. Argrilupo, come narra il Trissino nella sua Italia liberata, era un gran bugiardo. Simulator, bugiardo, e fraudolente Persecutor del padre, et de Fratelli. Dice Giuuenale volendo mostrare, che tutti i Greci sono P. 255 bugiardi, est esortando che non si debba prestar fede alle storie loro. Et quidquid Grecia mendax Audet in Historia. Et Catone nel libro II. delle origini dice, che i Liguri sono falaci con tai parole cio Ligures sunt falaces, et ancho Virgilio nell'Enedie conferma dicendo Vane liguri gli Alessandrini, come affermano molti scrittori, non cedono ad alcuno nell'essere perfetti bugiardi. Raconta Paolo Giovio nell'undecimo libro di Vertio soldato svizzero della fattion francese, che era un perfetto bugiardo, et falso, perche essendo egli con coloro, che combatteuano in fauore di Masimiliano sforza fuggì, mentre si guerreggiaua fuori dell'ordinanza, et andò ad olegio, et questa mortal bugia, cioè che i Svizzeri erano stati rotti, Massimiliano preso, et per loro perduta la giornata, in questo hauendo passato il Tesino Altosasso huomo bellicoso in fauore di Masimiliano udendo la falaci, et bugiarde parole, di Verito li diede fede et pensando che vano fosse ogni aiuto, restò in quel luogo, ma dopo alquanti giorni essendo accusato Altosasso di tardità, et di pigritia egli presentandosi à Massimiliano si difese con l'indico di Vertio, il quale perfidamente li hauea recata la falsa nouella onde secondo l'usanza de gli antichi il buon bugiardo fu squartato. Che diremo noi di quei buoni bugiardi di Galli, il quali hauendo riceuuto molto oro da Toscani; accioche andassero à guerreggiar con loro contra Romani ma chiamati, che furono cominciarono a negare, et diceuano che à loro fù dato quell'oro, accioche non guastassero il paese; onde essendo stati licentiati portarono una gran soma di denari, che senza pericolo et fatica acquistata haueuano per vostra fe, che pare à voi di questi bugiardi, et traditori huomini negando la verità con coloro stessi, che sapeuano quanto mentiuano. Si legge nel libro 20 al discorso. VI. di Scipione Ammirato che Salmas Viser fù bugiardo et mendace perche mentre Mehmet Re di Persia era trauagliato dall'armi di Amorat Imperator de' Turchi lo persuase à prender l'armi contra un suo figliuolo dicendo (ma bugiardamente) che si hauea intitolato Re di Persia si mosse il Re, per andare contra il figliuolo et con tutto l'essercito andò in P. 256 Eri Città, in cui era il figliuolo, et la stringeua gagliardamente egli che non sapeua per qual cagione il padre adirato affliggesse la città, staua sopeso, ma intesa la cagione si discolpò delle false colpe, che egli erno state opposte; onde il Re conoscendo la falsità di Salmas accarezzò il figliuolo, et al bugiardo fece dare, come meritaua, il debito castigo. Scriue il Tarcagnota, che Lisandro era bugiardo, et pergiuro confirmando le bugie col giuramento, et diceua che i fanciulli col giuoco, et gli huomeni col giuramento si deuono ingannare. De gli huomini gelosi, Cap. XXI. [Gelosia che cosa sia.] E la gelosia una interna passione di animo nata per sospitione, che alcun'altro non goda la persona amata, descritta da Cicerone nel lib. 4. delle Tusculane con queste parole. Obtre etatio est ea, quam intelligi zelotypiam volo, aegritudo ex eo, quod alter quoque potiatur eo, quod ille ipse concupiuerit. La qual apporra tanta afflittione, et rammarico all'huomo, che lo rende bene spesso disperato, et di se stesso fuori: et percioche ella genera tante perturbationi d'animo, l'Ariosto la chiamò, con questi cinque nomi tutti denotanti passione, in quella stanza. Qual dolce più, qual più giocondo stato. Cioè Sopsetto, Timore, Martiro, Frenesia, et Rabbia, inducendo ella ne gli huomini tutti questi noieuoli, et spiaceuoli effetti: alle quali cose hauendo riguardo Torquato Tasso la chiamò d'Amor ministra in dar tormento a'cuori, et da lei fa dir queste parole. Questa c'ho ne la destra è di pungenti, Spine, onde sferzo de gli amanti il seno, Ben ho la sferza ancor d'empi serpenti Fatta, e infetta di gelido veneno; P. 257 Ma su le disleali alme nocenti L'adopro, quai fur già Teseo, e Bireno. L'invidia la mia diè compagna fera Mia, non d'amor, la diede à lei Megera. Di pianto ancor mi cibo, e di pensiero, E per dubbio m'auanzo, e per disdegno, E mi noia egualmente il falso, e'l vero, E quel ch'apprendo in sen, fiso ritegno: Ne sì, ne nò nel cor mi sona intiero, E varie larue à me stessa disegno; Disegnate le guasto, e le riformo, E'n tal lauor mai non riposo, ò dormo. Et segue. Sempre erro, e ouunque vado i dubbi sono. La descrisse etiandio Bernardino Tomitano in questo Sonetto. O maligna, ò crudele, ò di dolore, E di tristi pensieri antico albergo, O duro spron, che mi percuoti à tergo, Per far l'empio mio stratio ogn'hor maggiore; O sferza di martir, nido d'errore, Ove quanto io più mi rileuo, et ergo In più profonda parte mi sommergo Stimulo auezzo à tormentarmi il core. O Gelosia crudele, ò mortal piaga. Cui quanto procacciar salute io penso, In più nobile parte allhor t'interni. Maligna Circe, e dolorosa Maga, Che priui altrui del suo più chiaro senso, Perche si crudelmente hor mi gouerni. Et ancora Luigi Tansillo in questo modo parlò di lei. O d'inuidia, e d'amor figlia si ria. P. 258 Che le gioie del padre volgi in pene, Cauto Argo al male, e cieca Talpa al bene, Ministra di tormento Gelosia. Tesifone infernal, fetida Arpia, Che l'altrui dolce rapi, et auelene, Austro crudel, per cui languir conuiene Il più bel fior della speranza mia. Fiera da te medesima disamata, Augel di duol, non d'altro mai presago, Tema, ch'entri nel cor per mille porte. Se si potesse à te chiuder l'entrata, Tanto il regno d'amor saria più vago, Quanto il mondo senza odio, e senza morte. Sicuramente, et à ragione sono tormenti più gli huomini da questi furia infernale, che non sono le donne; percioche elleno son vie più belle de gli huomini: adunque et più amabili, et più care, et se più care, et amabili sono, senza dubbio saranno sempre con timore possedute, et guardate: accioche della medesima beltà non ne venisse alcun'altro amante, et vagheggiatore, et di qui auuiene, che non si ritroua huomo, che non sia geloso: ma chi più e chi meno conoscendo che la nobiltà, et l'eccellenza della donna: et però schiuano, et fuggono spesso di parlare, ò di scriuere della beltà della cosa amata, non dirò di lasciarla vedere, et dubitando di una tanta perdita, uno di costoro era Francesco Maria Molza, come egli stesso dice. Io son del mio bel sol tanto geloso, Ch'io temo di chiunque fiso il mira, Però, ciò che di quello amor m'inspira Quanto più posso, vo tenendo ascoso, Nè di scoprirlo in Rime altrui son'oso, Che troppo di legger'in pianto, e in ira, Poria tornarmi, e doue ne sospira Sol meco l'alma, starsi altri pensoso. Cosi ne lacci posto da me stesso, Miser cadrei, e'n perigliosa guerra, Che incontra à me medesmo hauessi ordita. P. 259 Non è poco il tacer, che m'è concesso, Anzi la gioia, che'l mio petto serra, Quanto è celata più, tanto m'aita. Questa scelerata rabbia fù cagione, che Giustina Nobilissima Romana fosse dal suo Consorte, pochi giorni dopo le nozze, uccisa, senza alcuna cagione; et udite ella sciogliendosi un calzare egli mirolle il collo, alquale non sò, se la neue, ò il latte fosse buon paragone, essendo ella più d'ogni altra bellissima, et solamente mirando quella candidezza, si lasciò ingrombare il petto da una crudelissima Gelosia, et senza pensar più oltre troncolle il capo. Onde si legge questo Epigrama sopra il suo sepolcro. Immiti, ferro secuit mihi colla maritus, Dum propero niuei soluere vincla pedis, Si può sentire la più siocca, e bestiale Gelosia di questa? Memmio Romano era tanto ingelosito di una Giouine in Terracina, che ritrovando uno suo riuale chiamato Largio, et non hauendo armi assaltandolo co denti li morsicò un braccio. Onde nacque un prouerbio. Lacerat Lacertum Largii mordax Memmius. Ò quante Donne sono uccise à torto, benche pudiche per cagione di questa infernale Arpia. Alessio Comneno, come racconta Niceta Acominato, era Geloso della Moglie Eufrosina, et hauendo ne hauuto sospetto la priuò di tutti gli ornamenti, et titoli Imperiali, et la mandò in un Monastero di Monache. Al fine hauendo ritrouata la verità la ritolse, et le diede i primi ornamenti e titoli di prima. Però l'huomo Geloso non fa bene à se medesimo, e meno à gli altri. Clodione, come scriue l'Ariosto era molto Geloso dicendo. Ma Clodion, che molto amaua, e molto, Era Geloso in somma si consiglia, Che forestiere, sia chi si voglia, mentre Ci stia la bella Donna qui non entre. Et parlando di Rodomonte pur geloso, dice. P. 260 A questo annuntio entrò la gel osia, Fredda come Aspe, & abbracciò costui. Eustatio, come dice Torquato Tasso, era geloso, et à pena dir si può, che hauesse veduto Armida, che temeua la bellezza, et la virtù di Rinaldo, come si legge nel canto. 5. à stanza, 8. No'l vorrebbe compagno, e al corl'i nspira Cauti pensier l'astuta gelosia Et nel canto stesso, dopo che furono usciti à sorte Artemidoro, Gerardo, et Vincilao dice de gli altri. D'incerto cor, di gelosia dan segni, Gli altri, i cui nomi auien, che l'urna asconda, E da la bocca pen don di colui, Che spiega i breui, e legge i nomi altrui. Ma come fù uscito à sorte il numero eletto da partirsi con Armida, et che gli altri restorono tanti bei Alocchi, si legge. D'ira, di Gelosia, d'inuidia ardenti, Chiaman agli altri fortuna ingiusta, e ria, E te accusano Amor, che le consenti, Che ne l'imperio suo giudice sia. Et Propertio era tanto tormentato dalla Gelosia, che dice. Riualem possum non ego ferre louem. Et etiandio il Petrarca fù molto trauagliato da questa cruda Gelosia come egli stesso dice. Amor'e Gelosia m'hanno il cor tolto. Et altroue. Subito il allegrezza si conserue, La Gelosia. P. 261 Et à Zerbino, quando vide Isabella col Conte, entrò nel petto tanta Gelosia, che haueua più affanno à vederla d'altrui, che se fosse come credeua morta. Come dice l'Ariosto. Che vederla d'altrui peggio sopporta, Che non fè, quando udì, ch'ella morta. Hauendo Dario, come scriue Giouanni Tarcagnota, inteso da un suo Eunuco la morte di Statira sua moglie, la quale era stata presa da Alessandro, et come il medesimo Alessandro hauea pianto per lei, et la hauea honorata, et sepellita con grandissima pompa, fù preso da uno affanno grande di Gelosia; et però menando l'Eunuco da parte lo cominciò à minacciare, che confessasse il vero: ma tanto l'Eunuco li giurò, et affermò, come Alessandro non hauea mai veduta la Reina, se non il primo giorno che la prese, onde li die fede, et la pianse. Senapo Rè dell'Etiopia era gelosissimo della moglie, come dice il Tasso. N'arde il marito, et de l'amore al foco, Ben de la gelosia s'agguaglia il gelo, E va in guisa avanzando, à poco, à poco, Nel tormentato petto il folle zelo, Che da ogn'huomo l'asconde in chiuso loco, Vorria celarla à tanti occhi del Cielo. Fra tutti i gelosi credo, che tengano il principato gli huomini di Cattaro; percioche non lasciano le Donne andare à messa, se non innanzi giorno accioche non sieno vedute, ma il giorno di Natale à mezza notte. Quando si confessano, sono sempre presenti, però alquanto discosti dal Sacerdote, et vanno osseruando i moti, et stanno attenti, et immobili prouando se udir potessero le riprensioni. Cosa iniqua che se si confessano per qualche infermitade stanno nella medesima camera ritirati in qualche parte, ma non molto discosti. Alle feste le donne non danzano, ma gli huomini. Quando sono amalate, fanno gran cosa à chiamar medico, ma quando vedono la infirmità essere graue, lo chiamano, le Donne stanno in letto chiuse fra certe cortine, et porgono il braccio, et à pena lasciano à loro toccare il polso, ne meno interogarle de disordini, ò d'altro, P. 262 perche dicono à Medici. Horsu hauete inteso il tutto, andiamo à finestre non si approssimano, anzi alcuni fanno certi spiragli volti verso il Cielo, da quali pigliano il Lume del Sole, per asciugare loro il capo. Se vanno ad alcuna ricreatione, ò nozze sempre sono lor dietro, ò auanti à far la discoperta, et molti non si partono di casa ne giorno, ne notte, ne anco della camera, oue è la moglie. I lor sonni sono pieni di spauento, et di timori, temendo che alcuno l'ami, però si suegliano con tremori, et palpatione di cuore. Pensate per vostra fè, che pazzia è quella di quei pouerelli, et che patienza è quella della Donne: et se le hauessero più belle di quelle, che hanno, impazzarebbono: ma la lor buona sorte conoscendo la sciochezza di questi huomeni, fà che assai brutte le possedono. Scriue Antonio da Salonichi, che un certo Francesco de Scolui hauendo letto la Metamorphosi d'Ouidio, non voleua che il Sole entrasse in Casa, temendo, che della moglie non s'inamorasse. Che vi pare? Ò che Gelosi perfetti sono questi, et di mente priui. De gli huomini ornati, politi, bellettati, & biondati. Cap. XXII Che all'huomo nato politico, et ciuile stia bene l'andar fino ad un certo segno ornato, et polito è cosa ad ogn'un notissima, come dimostra il Casa, il Guazzo, il Sabba et il Cortigiano ne'suoi ragionamenti: et se all'huomo è ciò diceuole, maggiormente si dee credere, che alla donna si conuenga; percioche risplende più la beltà fra le ricche, et le ponpose vesti, che, tra le pouere, et rozze, come mostra il Tasso nel suo Torrismondo, facendo ragionar la Reina à Rosmonda, dicendo. Perche non orni tue leggiadre membra Di pretiosa veste? E non accresci Con habito gentil quella bellezza, Che'l Ciel à te donò cortese, e largo? Bellezza inculta, e chiusa in humil gonna, P. 263 E quasi rozza, e mal polita gemma, Che'n piombo vile ancor poco riluce. Et essendo la bellezza proprio dono della donna datole dalla suprema mano, non deve ella con ogni diligenza cercar di custodirla? Et quando ne sia poco di tale eccellenza ornata, di augumentarla con ogni modo possibile: ma non già vitupereuole? Io certo credo, che cosi sia: percioche se fosse proprio all'huomo, dirò per essempio, la fortezza del corpo, et il fare il gladiatore, ò il brauo, per ragionar secondo l'uso comune, non cercherebbe egli di conseruarsi tale? Se nato fosse brauo; tenterebbe di augumentare quel suo natio ardire con l'arte dello schermire: ma se nato poco ardito di animo fosse, si essercitarebbe nell'arte del combattere, et si coprirebbe di piastra, et maglia, et cercherebbe di essere menato, oue si facessero duelli, et combattimenti; et tutte queste cose farebbe per dimostrarsi brauo, et non come veramente fosse timido et codardo. Io ho dato questo essempio; percioche non si ritroua huomo, che non facci il rompicollo, et il brauazzo, et se ci è alcuno, che non facci questa professione, lo chiamano d'animo feminile, e per questa ragione gli huomini sempre si vedono con l'armi alla cintola, co'vestimenti, che hanno del soldato, et con le barbe accommodate in guisa, che paiono, che minacciano, et caminano con certi passi, che credono di porgere altrui spauento, et con guanti di maglia, et spesso spesso fanno in modo, che il ferro lor risoni intorno; accioche le genti si accorgino, che attendono al ferro, cioè alle spade, alle battaglie, et habbiano di loro timore: che sono tutte queste cose, se non belletti, et orpellature? Et sotto queste coperte d'ardito, et di valoroso celano un vilissimo animo di coniglio, ò di fuggitiua lepre. Et anco il medesimo accade nell'altre arti. Se adunque cosi è, perche non potranno le donne, che dalla natura sono generate men belle delle altre, coprir le sue poco belle parti, et augumentar la poca beltà loro, con qualche arte, ma non però stomacheuole? Et che peccato sarebbe, se una donna nata per la beltà riguardeuole, si lauasse il delicato viso con Succo di Limoni, et acqua di fuori di faua, et di ligustri, per leuar via le macchie causate dal sole, et per tenersi la carne polita, et morbida? o se con un colombino, et con pane bianchissimo, con succo di Limoni, et perle facesse altro humore da tenersi terso, et morbido il volto? P. 264 Picciolo à giudicio mio, et se nel candor de gigli del suo viso non fiammeggiassero le rose, non potrebbe ella con qualche arte renderlo al quanto simile à l'ostro? Certo si senza punto di riprensione, percio che si deue la beltà hauuta conseruare, et la mancheuole render quanto possibile sia perfetta, leuando ogni impedimento, che prohibisce lo splendore, et la gratia di quella: et se i capelli sono lodati da scrittori, et da Poeti cosi antichi, come moderni di color simile all'oro augumentando la beltà: perche non deue la donna ciuile, renderli biondi? Et per maggiore ornamento innanellati, et crespi? Diremo dunque in questo modo, che alle donne, come creature belle si conuiene conseruar la beltà, et la mancheuole perfettionare in modo però, che non diuengano mascheroni con l'impiastricciarsi il viso: perche è cosa indegna, et stomachevole lo havere quattro dita di bianco, et di rosso sù il viso. Non biasmorono in tutto i Santi Padri l'adornarsi, et il lisciarsi nelle donne: ma vituperorno l'eccesso di quello per altri rispetti cattiui. Come scriue il dotto Augustino nella Epistola 73. ad Poss. onde permettono alle donne maritate l'adornarsi, et il rendersi polite con proposito però di piacer solamente à lor consorti. Conuiene adunque alle donne l'adornarsi, et è da Padri Dottori permesso per conseruar la propria beltà, ò per parer più belle di quello, che sono, pur che non ci intrauenga errore. Ma che diremo noi de gli huomini? À quali la belta non è propria, et pur continuamente si sforzano di parer belli, et leggiadri non solamente con varii vestimenti fregiati di seta, e d'oro, in guisa che molti si trouano, che spendono tutti loro hauere intorno ad un vestimento, ma con collari à merauiglia lauorati. Che diremo de medaglioni che portano nelle berrette, de bottoni d'oro, et dei gioelli di perle? De Pennoni, et Pennini, che chiamano Argironi, ò Aeroni, et delle tante liuree, con le quali mandano le case in ruina, vanno co i capelli inondati, lucidi, et profumati. Quanti ne sono? Che paiono hauere una Botega di profumiere sopra di loro, ò quanti vanno alle barbarie ogni quattro giorni per mostrarsi rubicondi, tersi, et giouinetti anchor che vecchi? quanti si tingono le barbe quando cominciano per l'horrido verno della vecchiezza à biancheggiare? Quanti con pettini di piombo si pettinano, per tingere le canitie? quanti si cauano i peli canuti per parere anchora in età fiorita? tralascio de pendenti all'orecchie, che portano i Francesi, et altri P. 265 oltramontani, et de manili pur de Galli inuentione, come si legge in Tito Liuio. Ò quanti se ne stanno tre, et quattro hore ogni giorno à pettinarsi, et à lauarsi adoprando quante Balle di Sapone, che vendono i Ciarlatani in piazza? Del profumarsi, et del porsi le scarpe, non accade parlarne, che bestemmiano tutti i Santi; perche sono strette, et i piedi grandi, et vogliono, che i piedi grandi stieno nelle scarpe picciole, cosa ridiculosa. Ma bisogna, che io ne adduca alcuno essempio: accioche non paia, ch'io habbia detto la falsità. Ortensio Oratore famosissimo tutto il giorno staua à vagheggiarsi nello specchio, et à comodarsi le falde delle veste. Non merita silentio Demostene, gloria della greca eloquenza, ilquale quando doueua parlare in publico, si componeua la faccia allo specchio, cosa degna di biasmo, che in cambio di essere occupato nella grauità delle sentenze, gittasse il tempo in vanità sciocche. Ma doue resta Lisocrate, che spendeua tutto il giorno in biondeggiarsi per parere bello? Dove Aristagora? Che tanto si imbellettaua, et lisciaua, che fu chiamato Maddona Aristagora? Dove Mecenate? Che di odoriferi unguenti, di belletti, di Margherite, et di ogni sorte di ornamento auanzaua la più lasciua famina, che al mondo fosse. Sardanapalo Re de gli Assiri doue rimane, ilquale mette una carestia ne belletti, et nell'altre vanità? Et i popoli Massiliensi si imbellettauano, et biondeggiauano et etiandio i Valentiani, iquali solamente viuono con delitie, lasciuie, et piaceri, et però l'Ariosto paragonò Ruggieri ornato con mille vanità à costoro dicendo. Tutto ne gesti era amoroso come, Fosse in Valenza è servir donne auezzo. Come dice il Bottero gli Spagnuoli per natura si dilettano di vaghezza, di attilatura, et di apparenza, come poi stieno nelle altre cose non pensano Non merita d'essere lasciato à dietro Commando Imperatore, ilquale benche fosse crudo, et scelerato, era nondimeno vano, lasciuo, et molle. Il suo maggiore studio era intorno al biondeggiarsi, et dispensaua il tempo in bagni, et altri piaceri, et benche fosse maluagio non si vergognò però di prendere il nome di huomini inimicissimi de vitii, come fece pigliando il nome di Ercole, dove che invece di Commodo Antonio figliuolo di Marco P. 266 Aurelio Antonio, si faceua chiamare Ercole figliuolo di Gioue et quello, che più faceua marauigliare, era, che intorno si mise una pelle di Leone, et prese una mazza in mano, et andaua notte, et giorno dando fiere mazzate, volendo imitar Ercole. Alcuna volta si lasciaua vedere tutto vestito alla usanza di una Amazzone; ma ornato di perle, e d'oro. Cosi questo valoroso Imperatore spendeua il tempo in queste sciocchezze: ma che diremo noi degli Agrigentini? I quali tanto si dilettauano di pompa, et di vestimenti fregiati, che spendeuano quasi tutto il loro hauere? Eliogabalo era più di ogni altro vano, scioccho, et lasciuo, costui, come scriuono gli Historici, impoverì con le sue vanitadi, et sciochezze l'Imperio Romano, anchora che ricchissimo fosse portaua i manili di perle, collane, et anella di grandissimo pretio, vestimenti di seta, e d'oro tempestati di perle, et di altre pretiose gemme fino sopra le scarpe haueua pietre di valuta immensa: ma lasciamo costui, percioche è tutto vanità, et ritrouiamo Ercole, ilquale come dice Ouidio nella Epistola, che li manda Deianira, era vano, molle, et gran lisciatore, i versi del quale, recati in volgare da Remigio Fiorentino, tali sono. Vidi i monili à quello Erculeo collo, A cui picciola già fù soma il Cielo; Non ti parue vergogna hauer d'intorno, Le perle, e l'oro à le gagliarde braccia, Ardisti anchor d'ornar l'irsutte chiome, Di nastri, e frange. Et veramente sono innumerabili gli huomini, che attendon alle vanità, et à rendersi con arte lucidi, et tersi. Non voglio gia, che il tempo inuoli la memoria di un leggiadro giouinetto di età più verso à gli ottanta, che à settanta anni, gentilhuomo di Lombardia Illustre, et nobile, et de beni di fortuna ricco. Costui s'inamorò di una gentildonna bellissima della sua propria Città; il Fanciullo, che di poca leuatura era si diede à credere, che la gentildonna lo riamasse, et per lei faceua le maggiori pazzie, che mai si udissero: rare erano le notti, che il buon giouinetto col suo dolce liuto in braccio sonando, et cantando non facesse secondo quel tempo le serenate, et mattinate sotto la finestra della camera, doue la gentildonna dormiua, et cantaua lungamente, reputandosi di P. 267 cantare ottimamente, e di hauere una soauissima voce: ma faceua ridere le brigate, hauendo una voce di ranocchio, et spesso, spesso mentre raccontaua le sue amorose passioni faceua il tremulo, col quale il canto piu gratioso rendeua. Costui per celare le Chiome, che già per l'età erano venute d'argento, ogni mese le tingeua, la barba; non gia, percioche allhora non si usaua, ma bene ogni due giorni ordinariamente si radeua. Certo, ch'egli era un gratioso spettacolo, vedere sotto quella zazzera di giouine lucida, et pettinata, et fatta à onde col ferro caldo, una fronte crespa, rugata, et negra, et die occhi scarpellati, et riuersi, il naso gocciolante, le guancie ritirate in dentro, La bocca isdentata, le labbra liuide, smorte, et tremanti, et per non andar più oltre pareua un viso di angelo da far fuggir il gran Diauolo dell'inferno. Quando era in casa, staua sempre allo specchio, et mirandosi andaua nelle maggiori ire del mondo, et diceua, ch'egli era un traditore, et un bugiardo, che non mostraua la vera efigie, et che si mentiua per la gola, et pieno, di sdegno li faceua far la penitenza gittandolo in terra, et calpestaualo co piedi del vestire, che diro io? Percioche seco haurebbe perduto la fiera di Crema portaua un berrettino rosato tutto tagliato con cordoni, et cordelle d'oro, et d'argento, i vestimenti tutti fregiati, et ricamati con le maggiori bizzarie, che veder si potessero, certo disconuenienti ad un buffone. Del ballare che diremo noi? La prima danza in tutte le feste della Città era la sua, anchor che à pena si reggesse in piedi era più ghiotto di giucare alla palla da vento, che l'Orso del mele, et dove ritrouaua giouani giucatori, spogliauasi in farsetto, et alcuna volta in camiscia per mostrare meglio la bella disposition del corpo, in niuna parte contraria alla bellezza del volto: però non rimanea di seguitare ogn'hora l'amata Donna più pertinace che un cane in seguitar la fiera. Il Carneuale ogni giorno si trauestiua mutando ogn'hora habiti, et foggie. Eungi da lui stauano i salterii, et l'orationi, sempre parlaua di cose amorose, et liete. Questo Babione fù pazzo in vita, et dopo morte; percioche morendo fece questo testamento, cioè che sopra la sua sepoltura fusse incisa per man di famoso maestro l'Historia di Piramo, et di Tisbe, fauola amorosa, et anchora un Cupido alato, ilquale con l'arco teso saettasse un cuore. Si può sentir meglio? Certo nò. A Fregi, che dice Numano nel libro 9. dell'Eneide di Virgilio, che si adornauano, et lisciauano? P. 268 Voi con l'ostro, & co fregi, & co le giubbe, Immanicate, & coi siochetti in testa, A che valete? À gir cosi dipinti, Et cosi neghittosi? à far balletti. Et il Tasso ragionando della gente Egittia dice nel Canto. 17. La turba Egittia hauea sol archi, e spade Nè sosteria d'elmo, ò corazza il pondo, D'habito è ricca: ond'altrui vien, che porte Desio di preda, e non timor di morte. Nerone era oltre à modo lasciuo, pomposo, et ornato, et mai non si metteua vesti intorno, che non valessero gran quantità di oro, et stando allo specchio lodaua le chiome: perche pareuano d'oro, et etiandio gli occhi; perche li haueua lucidissimi. Non voglio che resti à dietro Alessio Comneno Imperatore, il quale, come racconta Niceta Acominato, sempre si mostraua con bellissimi vestimenti d'oro, con lauori di perle di grandissima importanza, come dice Plutarco, Aristotile si dilettaua di star polito, et attilato oltre à modo; portando vestimenti bellissimi, et tutte le dita piene di anella. Non voglio, che'l tempo inuoli la memoria di un Cortigiano Ferrarese, ilquale hauea quanti saponetti, profumi, acque odorifere, et vanità, che erano in Italia: costui spendeua tutta la mattina in pettinarsi, in pulirsi, et in iscopettarsi, et spesso bestimmiaua, che non li pareua di essere giunto al segno, che desideraua. Non era ne in Spagna, ne in Italia, chi meglio di lui calzasse bolzacchini, et era tanto amatore della nettezza, che in venti anni mai fù visto mangiare insalata senza guanti, che vi pare? Credete che trouar si potesse il piu gentile di costui? Ma non cede à lui Galieno Imperatore, ilquale portaua sempre vesti pretiosissime cariche tutte di gemme: Era tanto sciocco il miserello, che si spargeua limatura d'oro sopra i capelli: accioche rilucessero; si lauaua il viso con varie acque per divenire bello, nè si lasciaua vedere, se prima non era stato un'hora con lo specchio à consigliarsi; mangiaua sopra mantili d'oro, et con tutti i vasi d'oro guarniti di grosissime perle: nella primauera si faceua fare le camere, et i letti di rose, nell'Autunno i Castelli di pomi. Ne à costui cede Domitiano, ilquale, come scriue P. 269 il Tarcagnota, piangeua et gittaua ardendissimi sospiri, veggendosi nello specchio il capo Caluo, facendo stima della bellezza ne mancaua di aiutarsi, oue era possibile per parere più bello. Ma che diremo noi di Theopompo? Che di delitie, et di malitie auanzò ogni lasciua meretrice come afferma Strabone Sidonio. Che d'un certo Philostrato? Che per i souerchi adornamenti fù chiamato Cinalopeca vocabulo di cane, percioche i cani, che si tengono nelle case per giuoco delle figliuole sono di simile vanità adorni questo, dice Aristophane, dicono alcuni Historici, che Agirrio era tanto molle, et lasciuo, che non haueua altro di huomo eccetto che la barba. Ne merita, ch'io lasci fuori di questa schiera Mirace, ilquale fu oltre ogni credenza studioso de suoi capelli dorati, et portaua intorno tanti unguenti odoriferi, che un miglio di lontano si sentivano. Onde Flaco lo chiamaua Semiuir, et diceua che menaua la sua giouentù sterile, cioè priua d'honorate attioni. Bacco oue resta? Ilquale benche fosse adorato per Dio, quantunque non fosse che uno huomo vezzoso, et molle. Udite quello, che di lui dice Seneca. Non errubescit Baccus effusos tener sparsisse crines, nec manu molli leuem vibrasse thirsum quum parum forti gradu auro decorum Sirma Barbariucm trahit. Torto si farebbe à Calistene, se lo lasciassimo fuori di questa vana compagnia, ilquale, come scriuono alcuni, si vestiua da Donna, si poliua et s'imbellettaua in modo tale, che era un vituperio. Ma ditemi di gratia quanto tempo Achille quel glorioso Heroe filò vestito da Donna fra le figliuole di Licomede Rè? Io credo, che habbia filato molto, perche se il vero n'intesi, dicono alcuni, che molti anni vi stette in quel modo filando. Onde Ouidio nel lib. primo de Arte dice. Turpe nisi hoc matri precibus tribuisset Archilles Vesta virum longa dissimulatus erat Dice il Tarcagnota che al tempo di Adriano non si usaua barba; nondimeno esso la portaua per nascondere alcuni segni, che haueua fu volto et era in lui tanto grande il desiderio di parer bello, che non curaua di contradire all'uso. Narra il medesimo autore, che Lucio Vero consumaua la maggior parte del giorno al sole biondeggiandosi, et maledicendo la sua natura, che non li hauea fatto il capo troppo sano, perche patiua dolore di testa et benche P. 270 fosse biondo, accioche la chioma più lampeggiasse, le gittaua sopra molto oro minuto. Tiscrate oue rimane? Poi che per la sua molta lasciuia passò in fauola, l'età gli haueua gia fatto i capelli di finissimo argento, et egli per parer bello, et giouinetto gli tingeua di color d'oro del qual molto si ride appresso Martiale. Il misero conoscendo, che Amore è giouinetto, et che però si sdegnarebbe habitare nascoso fra le parti rugose, et pallide del suo inuecchiato volto, che con mille impiastri coloriua et biancheggiaua; facendo proua con questi inganni di fare, che Cupido vinto dalla sua bellezza non contradicesse di pigliare ricetto nel suo volto: ma il tutto fù vano; perche mentre s'ingegnaua di farsi di giorno in giorno di nuoue bellezze adorno, souragiunse (abi fiera sorte) la morte, la quale aghiacciando il cuore, lo lasciò vermiglio in volto, colorita però del colore col quale dipinto egli stesso s'hauea, cosa vituperevole certamente, che egli huomini benche vecchi curino tali cose à confirmatione di quanto ho detto udite ciò, che dice de gli huomini Seneca nel lib. II. delle quistioni naturali. Tutto quello, che ci è di buon costume, guastiamo noi con la leggiadria de corpi, auanzando ne gli ornamenti le infami meretrici, non che le donne honeste con molle, et con vezzosa andatura, teniamo sospeso il passo, tal che non caminiamo, anzi contegnosi passeggiamo, et in ogni dito delle mani habbiamo pretiose gemme? Che vi pare egli cio dice de gli huomeni, et non miga delle donne. Ne vo che lasciamole parole del Padre di Seneca, le quali si leggono nel lib. delle Liti. Ecco che gl'ingegni della pigra giouentù diuentano stupidi, ne si vigila allo studio di alcuna cosa honesta; ma solamente gli studi de gli huomini sono l'incresparsi i capelli, et l'acconciarsi con monditie immondissime, dalle quali parole si può conoscere,che tutti sieno vani, lasciui, et molli; perche non ragionauano di uno, ò di due, ma di tutti in gennerale, ne vo che rimanga la sentenza à dietro di Mons. Sabba Castiglione Caualier Gerosolimitano ne suoi ricordi, oue dice. Le vanità de gli huomini son oltre à mille altre maniere di vitii nel vestire, et massimamente nelle scarpe, et nelle calze, non dico de' giouani, che meno biasimo sarebbe; ma de' vecchi canuti, et barbuto, cose certo al parer mio dishoneste, et vitupereuole non dico in vecchio nobile; ma in un Mimio, et buffone. P. 271 De gli Huomini Heretici, & inuentori di nuoue sette. Cap. XXIII. STUPISCO fra me stessa, come alcuni Scrittori ardiscono di affermare, che le donne habbino inuentate nuoue sette, et ritrouate nuoue heresie; percioche se noi parliamo innanzi la venuta di Christo, non ritrouaremo donne, che fossero inuentrici dell'Idolatrie, ne meno, che hauessero in quelle false religioni opinione alcuna strauagante. Della Idolatria fù inuentore Belo, et però il Petrarca dice: Belo, doue riman colmo d'errore. Et Nabucodonosoro, non fece una statua d'oro, et volle, che fosse adorata? Gli huomini di Babilonia non posero il giusto Daniele nel lago de' leoni; perche haueua loro ucciso il drago, et destruto il loro Idolo Bel; et mille altri, ch'io tralascio, come coloro, che haueuano fatto il vitello di giesso se delle heresie ritrouate dopo la venuta di Christo ragioniamo, gli inuentori furono infiniti, et tutti huomini, et Santo Agostino nel libro delle heresie fa mentione di nontanta famosi inuentori di quelle, i seguaci de quali seruano il nome loro; come Simoniani da Simon Mago, Cerinthiani da Cerintho, Cerdoniani da Cerdone, Origeniani da Origene, Manichei da Manin Persiano, Arriani da Arrio, Florianiani da Florino, Tertullianisti da Tertulliano, Pellagiani da Pellagio Monaco, Nestoriani da Nestorio, et cosi da molti altri, che per breuità tralascio; ma quanti dopo Santo Agostino ne sono stati, et hora sono come Caluino, Ugo, Martin Luthero, et tanti altri, che hanno hauuti per seguaci i Regi, i Prencipi, et poi le prouincie intiere, et i regni, se si ritrouano donne, che sieno heretiche: non è, perche sieno state inuentrici di heresie; ma perche da gli huomini hanno imparato, et anco sforzate furono, et sono da quelli à seguitarle contra la propria volonta. P. 272 De gli huomini lagrimosi, & teneri al pianto. Cap. XXIIII. Il pianto, io credo, che non sia vitupereuole, quando è fatto per la morte de' carissimi genitori, ò per altra causa honesta, et degna, ma poco laudabile egli è, quando è sparso per lieui, et sciocche cagioni; vitupereuole, et biasimevole: ancora egli è, quando per ingannare altrui si sparge, come fanno tutti gli huomini amanti, i quali l'Ariosto volendo mostrare, che sono lagrimosi ingannatori, dice. Siate à i preghi, et à i pianti, che vi fanno, Per questo essempio à credere piu scarse. Sono molti, che dicono, che le Donne facilmente piangono; ma voglio, che vediamo, se ritrouiamo huomini ancor noi lagrimosi. Uno di questi, io credo che fu Silla Imperatore, il quale era tanto piegheuole, che li veniuano le lagrime da gli occhi per ogni picciolissima cagione, et un giorno essendoli raccontata la guerra delle rane, et de topi piangeua, che pareua, che hauesse il padre dinanzi à gli occhi morto, parendoli che una rana fosse stata la pouerina troppo malamente trattata. Alessandro, come scriue Plutarco, pianse copiosamente la morte del suo cauallo Bucefalo, et per consolarsi in parte fece fare una città, et la chiamò Bucefalia. Pianse ancora Clito, ma con assai manco dolore. Achille nel primo Canto dell'Iliade d'Omero piange alla mamma, che pare un fanciullino; perche li fù tolta la figliuola di Briseo premio delle sue fatiche, et lamentando si piange, come dice Omero. Lachrimans seorsum à sociis statim sedit separatus, Litus maris cani resspiciens in nigrum pontum. Mater post quam me peperisti bruvis temporis existentem Honorem mihi debebat olimpus tradere P. 273 Iupiter altitonans: nunc autem nequam paululum honorauit. Certe enim me Atrides Latè dominans Agamennon Inhonorauit capiems enim habet praemium ipse auferems. Sic dixit lachrimans. I cui versi trasportati in lingua volgare da Luigi Grotto d'Adria, tali sono. Hor altro non riman, che perder questa Vita, e perduto haurò ciò, che mi resta, Così dice egli, e d'uno humor secondo Gli occhi li colma il suo dolore in tanto. Ma che dirò io del Petrarca? Che sempre piangeua per amore di Laura, come egli stesso dice in questo, et in tutti gli altri Sonetti? Tutti il dì piango, et poi la notte quando Prendon riposo i miseri mortali, Trouomi in pianto, e raddoppiarsi i mali: Cosi spendo il mio tempo lagrimando, In tristo humor vò gli occhi consumando. Et altroue: Piouonmi amare lagrime dal viso. Et in quello altro Sonetto. Fiume, che spesso dal mio pianger cresce. Et in molti altri luoghi etiandio Lodouico Martelli si lamenta, et piange per la sua donna, che li pare, che sia piu del l'usato seuera: dicendo in una sua Canzone: Sì ch'io taccio, e piangendo, Ogni martiro attende. Erano i pianti miei Cari compagni fidi Ad impetrar mercede, e darmi aita. P. 274 Corsamonte, come dice il Trissino, piangeua, copiosamente mentre che Burgenzo li raccontaua di Elpidia. Così dicea Burgenzo, e Corsamonte, Per la pietà de la sua cara donna Piangea, come se fosse una fontana Copiosa d'acque, che non larga vena Sparge i liquori suoi fuori d'un sasso. Tancredi, pur gran guerriero, et capitano benche sapesse, che Clorinda era in luogo di pace per opera sua, come ella medesima in sogno li disse, nondimeno piangeua; come dice il Tasso di lui. Al fin sgorgando un lagrimoso riuo, In un languido ohime proruppe, e disse. Et Rinaldo, come mostra il medesimo Autore nel Canto 17. piangeua; E'l pianto amaro Ne gli occhi al tuo nemico, hor che non miri. Ma che diremo di Orlando che piangeua, et lagrimaua giorno, et notte, come dice l'Ariosto nel Canto 23. Di pianger mai, mai di gridar non resta, Ne la notte, ne il dì si da mai pace. Onde Orlando stupefatto del suo largo pianto, dice. Queste non son più lagrime, che fuore Stillo da gli occhi con sì larga vena, Non suppliron le lagrime al dolore, Finir, ch'à mezzo era il dolore à pena, Dal foco spinto hora il vitale humore Fugge per quella via, ch'a gli occhi mena. Mi souiene etiandio di Ulisse, il quale essendo dalla Dea Calipso, piangeua come un fantolino, per amore, che non vedeua il padre, et la moglie come dice Omero nel lib. 7. le cui parole volgarezzate da Girolamo Bacelli così suonano. P. 275 Qui vi io dolente per sette anni intieri Stetti, che sempre hauea bagnati, et molli Di lagrime le vesti, che Calipso Divine m'havea date, et immortali. Tutti i poueri Poeti sono sempre lagrimosi, non accade, che si spremano ne gli occhi succhi di cipolla per lagrimare, che sempre piangono. Fu già non molto tempo in Padoa un gran Signore Francese nominato Enrico, il quale era tanto tenero al pianto, che nulla più, alcuna volta si faceua leggere il Morgante, et quando sentiua la morte di Orlando, il cuore li si lique faceua in lagrime, et tanto piangeua, che moueua le lagrime ad ogn'altro, che vi si trouaua presente considerando la sciocca tenerezza di quel signore; ma quando udiua il venerdì Santo à predicar la passione di Christo hauea gli occhi asciuti, come un carbone di quercia; Sacripante doue resta? Il quale piangeua tanto per Angelica, come dice l'Ariosto che gli occhi suoi pareuano doi fonti. Sospirando piangea, tal che un ruscello Parean le guancie, e'l petto Mongibello. De gli huomini giucatori. Cap. XXV. [Gioco quando ledeuole.] FU ritrouato il giuoco da gli antichi, non solamente per ricreare gli animi da diuerse passioni trauagliati, ma etiandio per essercitar la mente, ò il corpo, per renderlo più robusto. Si essercita nel giuoco della palla da vento, nella lotta, et nell'armeggiare, et per allontanarsi da certi pensieri noieuoli: alcuni giucauano à scacchi, allo sbaraglino, et à dadi, et ancora à carte; et il tutto per ricreatione, et senza auidità di guadagno: ma non mi pare, che ne'nostri tempi il fine del giuoco sia il diletto, ma il guadagno solamente, et una semplice cupidità di spogliare il compagno del proprio hauere. Et però Aristotile numerò i giucatori fra gli P. 276 auari, et il giuoco fra i dishonesti guadagni; et è peggiore il giucatore del ladro; percioche egli vi mette l'honore, et la vita; ma il giucatore cerca di guadagnar con gli amici al sicuro. O di quanti mali è egli cagione: restando molti per lo giuoco nudi delle proprie facoltà, come dice Oratio. Quem damnosa Venus, quem praeceps alea nudat. O quanti sono priui della vita per cagione di questo; percioche gli scelerati giucatori vinti dalla rabbia fanno, come dice Flavio Alberto Lolio Ferrarese in questi versi. Quanti da stizza, e da color compunti, D'hauer perduto il suo, col crudo ferro, Hanno amazzato i suoi più cari amici, E toltogli i denar, & c. Ma più diffusamente ne i versi superiori dimostra, che il giuoco è cagione di tutti i mali, dicendo. Del giuoco adunque ragionare intendo, Scelerato inventor di tutti i mali, Nato da l'otio, et d'auaritia humana, Sol per furare altrui, la roba, e'l tempo, Di cui tesor non c'è piu caro al mondo, Onde è seguito sol da scioperati, Da gente vana, e da color, che spesso, Per non saper che far, la vita istessa Hanno in fastidio: tal che dall'Accidia Vinti, ò giucare, o dormir son costretti. Con lui nacquer gl'inganni, e i tradimenti, Le malitie, le insidie, et le rapine, Le bestemmie, il dispreggio de li Santi, La menzogna, il liuor; le risse, e l'odio. Chi potria numerar gli errori enormi, I scandali, i dilitti,e l'opre triste, Causate sol da questo empio tiranno? E gli ha già a tal furor le cieche menti De gli huomini condotto, che trouati Si sono alcuni di pietà si priui, Si crudeli à se stessi, che i capelli, P. 277 La barba, e i denti s'han fatto cauare, Sol per giucarli, ne qui s'è fermata La rabbia lor; ma il proprio sangue han sparso, Ne vestandoli al fin, se non la vita L'han postà in servitù, venduti gli anni. Da questo si può conoscere quanto nociuo, quanto pessimo, et quanto dannoso sia il giuoco. Hor passiamo à gli essempi. Gran giucatore era Antonio, che talhora vi consumaua il giorno, et la notte; onde contra lui parlando Cicerone, disse. O hominem ne quam, qui non dubitaret, vel in foro alea ludere. Et Licinio fu condennato à restituire al preditore le cose vinte; come scrive lo stesso Cicerone. Fu un grande ingannatore nel giuoco Caligula; percioche confermaua, per vincere, la bugia col giuramento; et si occupaua gran parte del tempo in quello. Ma che diremo di Claudio? Il quale non solamente perdeua il tempo nel giucare, ma nello scriuere anco del giuoco de dadi, cosa indegna di un Prencipe, come dice Agostino da Sessa. Nerone spendeua tutto il tempo, che gli auanzaua alle altre sue dishonestà in giuochi; perche molto li piaceuano. Domitiano entiandio impiegaua una gran parte del giorno in questo. Galba faceua il simile, et anco peggio. Nerua, quando staua un giorno senza giucare, gli pareua essere morto. Che diremo noi di questi buoni giucatori del nostro tempo? I quali spinti dall'auaritia, non pensano ad altro, sempre si vanno ingenando, come potrebbono fare per ingannare il compagno, et si scordanno fino di mangiare, et di bere. Onde più volte si sono veduti vecchi decrepiti, paralitici, con gli occhi scarpellini, che non haurebbono veduto uno Elefante in uno campo di neue, con dua paia di occhiali al naso, mettere al punto, poiche non poteuano altrimenti giucare. Altri pur vecchi, et infermi; perche non possono muouere le mani, fanno, che alcuno altro giuochi per loro et spesso bestemmiano, dicendo, se noi potessimo, assai meglio giucaressimo et qualche uno di loro dice, quando io era giouane, in tutta la mia città non era alcuno altro per valente giucatore, che fosse, che giucasse meglio di me: malediscono quelle infirmitadi, che hanno; perche non possono gettare i dadi, et maneggiar le carte: come facevano per lo tempo passato, et cosi vanno giucando fino alla morte. Cabilone Lacedemonio essendo P. 278 mandato ambasciatore à Corinto per far lega, trouò i Principali, et i piu vecchi di Corinto, che giucauano à dadi, et se ne parti scandalizato, dicendo, che non voleua macchiare la gloria de'Spartani con questa infamia, cioè di hauer fatto lega con i giucatori; et veramente chi dice giucatore, tanto viene egli à dire, quanto, se dicesse ingannatore, ch'è peggio che ladro, come dice Flavio Ferrarese, ragionando de' giucatori in questo modo. Non sappiam noi, che molti per giucare Hanno ardito con le scelesti mani, Senza timore, o riuerenza alcuna, Del grande Iddio rubar le cose sacre, Et profanar la santità de'Tempii, Quando poi, che giucato hanno i danari. Si son posti alla strada, masnadieri Son diuenuti, assassinando altrui, Infin che la giustitia in su le forche, Gli ha poi mandati à dar de i calci al vento. E per dire il vero è tanto maluagio, et scelerato, eh'io non credo, che alcuno per bel dicitore che fosse, bastasse à descriuere la minima parte vituepereuole dell'arte del giuoco, degna solamente di huomini, che non sino buoni di operar cosa alcuna. Dante fa mentione di quel barattiere nato in Nauarra, nel Canto 22. dello Inferno, il quale risponde à Virgilio, dicendo. Io fu'del Regno di Navarra nato, Poi fu famiglio del buon Re Tebaldo, Quivi mi misi à far baratteria: Di che rendo ragione in questo caldo. Et altroue dice di Gomita gran barattiere tai parole. Denar si tolse, & lasciolli di piano. Si come è, dice, & ne gli altri uffici anche Barattier fu non picciol, ma sovrano. Et l'Ariosto fa mentione di alcuni giucatori, che Cloridano uccise, dicendo nel Canto: 8. P. 279 E presso à Grillo un Greco, et un Tedesco, Spegne in do colpi Andropono; è Corrado Che de la notte hauean goduto al fresco Gran parte hor con la tazza; hora col dado. De gli huomini maldicenti, & falsi incolpatori. Cap. XXVI. [Quali sieno i Maldicenti.] DICONO gli huomeni colui essere maldicente, ilquale con le parole uitupera, et biasma l’opere altrui: benche nobili, et buone. segno senza dubbio di uno animo scelerato, et cattiuo, da quale bene spesso dipende ciò che di maluagio nel mondo si ritroua: percioche quali sono que’mali, de quali le malediche lingue de gli huomini non ne sieno state cagione? qual bugia, qual bestemmia, quali accuse, quali contentioni, et quali discordie, quali spegiuri quali, lusinghe sono commesse da costoro? però questi memerari, et maldicenti non solamente vilipendono l’honore di alcuna nobile persona: ma affaticano la maluagia lingua in viturperare le gloriose attione de Principi, ne feramndosi in loro la riuolgono (ò scelerato riuolgimento) contra l’eterna Bontà, biasmando i suoi comandamenti, et le sue leggi, et imponendo à modo loro nouelle, et pazze inuentioni. però questi tali huomini sono odiosi al mondo: et benche sappiano che sono abhorriti: nondimeno ò tutti, ò quasi tutti sono di si brutto uitio partecipi. Però Stefano Gauzzo ragionando di simili huomini, et uolendone mostrare la gran moltitudine, dice, egli è hormai diuenuto cosi famigliare à tutto il mondo questo vitio, come il giuoco delle carte in molte terre, che non fanno altro dalla mattina alla sera che adoperarle, et che maggiore uil numero delle male lingue, che quello delle mosche di mezzo Lulio, ne si può fuggir dalle lor punture per bene, che si faccia: egli numera poi molte spetie di maldicenti, alcuni chiama mascherati, et questi sono di coloro, che fingono per modestia di non volere nominare colui, che biasmano: ma lo accennano poi si chiaramente, che da tutti e conosciuto. [Quante spetie di maldicenti si truoui.] Alcuni Retorici, et costoro sono quelli tristarelli, che dicono. io non voglio raccontare le usure, ch’egli fa con alcuni poueri della Città, per non essere tenuto mala lingua. Alcuni Poeti. Questi sono P. 280 quelli, che danno per beffare il titolo di Enea ad uno, che haurà ucciso il padre. Alcuni Hipocriti, costoro con lagrimosa uoce, et tarde parole raccontano le suenture altrui, che apportano uergogna, et sempre le fanno più uituperose di quello, che sono. Alcuni Scorpioni, i quali dicono. io non credo, che si potesse trouare il più honorato gentilhuomo del tale, se egli non fosse si auaro, come è. Alcuni traditori, questi sono coloro, à quali sono riferiti alcuni secreti di qualche persona, i quali subito, che li hanno uditi, uanno à raccontare ogni cosa minutamente. ralcuni incogniti, questi con Pasquinate et libelli infamatorii ascuAno l’honore altrui. Alcuni falsarii, costoro accusano le persone, che habbiano fatta, ò detta alunca cosa, laquale non hanno, ne fatta, ne pensata. Alcuni mordaci, ò sputa bottoni, iquali con alcuni breui detti feriscono icuori motteggiando spesso il vero; costoro vogliono più tosto perdere uno amico, che una maluagia parola, però essendo domandato ad un filosofo qual bestia fosse al mondo di tutte la più uitiosa, rispose. Delle seluaggie, il mal dicente, delle domestiche il lusinghiere. Ma veniamo hoggimai à gli essempi di questi cani rabbiosi, che continuamente mordono, il primo luogo vo, che diamo à Dionigi Tiràno di Sicilia, accioche non ci abbaiasse contra. Costui con le sue pessime parole incolpò Platone, che hauesse intendimento con suoi nimici, et però à lui fosse nemico, ancorche egli stesso sapesse, che ne diceua il falso, nondimeno il pouero Platone v’hebbe à lasciar la vita, se Archita Tarentino Filosofo della Setta Pitagorica non li porgeua, in tanto pericolo aiuto, questo scriue Plutarco. ilquale anchora che dica, che Arato fosse ottimo maestro del principato, et del reame, per lo che fù amato da tutta la Grecia; nondimeno i cortigiani del Re non si satiauano mai di dirne male, di villaneggiarlo, et d’offernerlo con parole dishoneste, et vitupereuoli, procacciandogli contra ogni male. Racconta il medesimo, che Crobilo era huomo scelerato, et maldicente: però accusò Chabria potentissimo Capitano con tale querela, ch’era à pericolo di esser condannato à morte: ma Platone, il quale conosceua Crobile per uno Frappatore, et per un maldicente, et Chabria per buon capitano, andò per difenderlo: ma come il calunniatore lo vide, minacciandolo, disse, anchora tu hai à bere il veleno di Socrate, ma prima quello delle mia lingua. Un bello abbaiatore fu Osco, et in tale eccellenza, che pareua solamente nato à quel fine; perche senza rispetto alcuno laceraua ogni persona per P. 281 buona che fosse. però era da ognuno mostrato à dito, come huomo da fuggisi più d’ogni altro, come dice Seneca. Ma doue rimane il mordacissimo Zoilo? il quale lacerò seueramente gli scritti d’Omero illustre poeta. onde per prouerbio si dice. Zoili mordacitas. Oue Theone? ilquale con la sua rabbiosa maldicenza morse con morsi mortiferi molti cittadini. Oue Marco Manilio? ilquale calunniana, et moreua i Patritii, dicendo che haueuano l’oro de Galli, et lo teniuano nascosto. la quale cosa era in tutto falsa. Oue Giulio Cesare? ilquale hauendo letto un libro di Cicerone, che raccontaua le virtù, et le prodezze di Catone, subito arse di maleuolenza, et di odio contra Catone, onde armando la pessima lingua di pungenti maldicenze, scrisse un libro in vilipendio, et in biasmo di Catone: questo scriue Appiano Alessandrino nelle Historie delle discordie ciuili. Narra Plutarco, che Platone haueua un fiscepolo oltre ad ogni credenza maldicente et calunniatore. Costui conosceua, che Platone amaua, di perfetto amore Senocrate, onde per fargli in vece di beneuolentia portare odio, disse à Platone, che Senocrate haueua detto gran male di lui, egli subito rispose, che non li credeua nulla. ma il maldicente affermando i delitti con viso seuero giuraua per gli Dei, et per le Dee. onde Platone per liberarsi da questo importuno abbaiatore, disse, Poniamo, che sia vero ciò, che tu dici, io conosco Senocrate di tal grauità, et di tanta bontà, che s’egli non hauesse giudicato essere bene il dirlo, non l’haurebbe detto, et cosi si liberò da quella pestifera linga, et egli restando un bello Alocco si partì. Scriue Quintiliano, che Asinio Pollione fù di gran potenza, ma oltre à modo detrattore dell’altrui fama, à costui non pareua, di essere honorato, se non dishonoraua Cicerone: onde insieme con Caluo cominciò à noiarlo, et ad offenderlo, armando contra lui le loro pessime lingue, scrissero pistole imponendoli grauissime infamie, et colpe, biasimando il ragionar di lui: pero dice il Petr. nel trionfo della Fama al capitolo terzo, ponendolo tra i nobili dicitori. Poi Crasso, Antonio, Hortensio, Galba, e Caluo Con Pollion, che’n tal superbia false. Che contra quel d’Arpino armar le lingue E i duo cercando fame indegne, e false. Racconta il Tarcagnota, che nell’essercito dell’Illirio nella Pannonia si ritrouaua uno nomato Parcenio, ilquale P. 282 era di libera, et pungente lingua, onde seminando nell’esercito la maluagia rabbia di quella, dù cagione della morte di molte persone, e dice di un certo nomato Osmaro, il quale non perdonaua ad alcuno, ma uniuersalmente tutti con molte maledicenze vituperaua; et se ritrouaua alcuno di vita irriprensibile diceua, anchor che costui si mostri buono nelle sue attioni, nondimeno io giurerei, ch’egli merita, che gli sia tagliato il capo, forsi più di quanti tiene in prigione il nostro Principe per questo effetto. Scriue Plutarco di Cicerone queste parole. Non si ragunaua mai Senato, né popolo, né giudici, né corte alcuna, che Cicerone non biasimasse con molte parole Catilina, et Lentulo, et continuamente senza differenza alcuna pungeua amici, et nimici gran caluniatore era Theocrito, et però essendo benuto à molti in odio, fù meritamente ucciso, perche se cercano questi tali di uccidere l’honore, et la buona fama altrui, ancho essi deuono gustar la morte del corpo, il quale è di minor conto dell’honore; come dice il Poeta Ferrarese con tai parole. L’honore è di più pregio che la vita. Ma che diremo noi di Pietro Aretino? la cui maluagia, et pestifera lingua quasi sdegnando, gli huomini priuati, solamente sopra i Prencipi sfogaua il suo veleno, onde spesse fiate era da loro, accioche tacesse, presentato, et per ciò l’Ariosto il chiama flagello de Principi, nel canto 46. cosi dicendo. Ecco il flagello De principi Pietro Aretino. Né tralascieremo già Demostene, ouero ornamento della greca eloquenza, ilquale fù tanto mordace ne’ suoi detti, che la Repubblica Ateniese fù sforzata chiamarlo in Senato, et prometterli vna certa quantità d’oro ogni anno, per non essere vituperata da lui, c’è Sallustio Oratore, il qualo tanto godeua nel biasimare, et in udir biasimare le attioni altrui, che scriueua contra coloro, che lodauano le operationi di alcuna honorata persona, si legge in alcuni libri Historici di vn certo maldicente chiamato Ismaele di natione Alamana, ilquale con libelli, et con pasquinate infamò mezza la nobiltà di Polonia. Narra Antonio Tibaldeo da Ferrara, huomi di riuerenda maestà, come scriue il Casteluetro contra il Caro, la origine, et la natura di Pasquino, dicendo; Che fù in Rosa un valente Sartoio nella sua arte chiamato maestro Pasquino, il quale teneua Bottega in Parione, nella quale egli, et i suoi garzoni, P. 283 che molti né haueua, facendo vestimenti alla maggior parte de cortigiani, parlauano liberamente, et sicuramente in biasimo del Papa, de Cardinali, et de gli altri Prelati della Chiesa, con parole villane, delle quali si come di persone basse, et materiali non era tenuto conto niuno, né à loro fata alcuna pena, né portata alcuna maleuolenza dalla gente. Anzi se aueniua, che alcuno per nobiltà, ò per dottrina, ò per altro riguardeuole, racontasse cosa non ben fatta d’alcun maggiorente per ischifare l’odio di colui, che si potesse chiamare offeso dalle parole sue, et potesse nuocerli, si faceua scudo della persona di maestro Pasquino, et de suoi garzoni, come male dicenti già conosciuti, nominandoli per autori di simili nouelle. onde in processo di tempo passò in usanza commune, et quasi in prouerbio vulgare l’attribuire à maestro Pasquino ciò, che cadeua nell’animo à ciascuna maniera di persone di parlare in biasimo, et in vilipendio de capi Ecclesiastici, et che secolari della corte: ma poscia morto, mattonandosi ò lastricandosi la strada di parione, fù trouata una figura di marmo spezzata, et tronca, che figuraua un gladiatore, la quale era mezzo sottera nella via publica, et col dorso seruiua à viandanti per trapasso, fù dunque dirizzata in piedi per mezzo la bottega di maestro Pasquino, et dal popolo li fù dato il nome di Pasquino, onde gli aueduti cortegiani, et i cauti Poeti di Roma, non si scostando dalla usanza già inuecchiata di riprendere i difetti altrui, come diuulgaati da maestro Pasquino à quella statua li assegnano, onde gli huomini ponno sfogar le lor maledicenze sotto questa copert. MA doue resta Momo? il quale fù Idolo della riprensione, et del biasimo. costui era vecchio, magro, et pallido con la bocca aperta: perche sempre l’adoperaua in dir male, egli non operaua cosa alcuna: ma guardaua quello, che faceuano gli altri, et riprendeua liberamente, et biasmaua ciò, che non era secondo il suo gusto. Onde Esopo scrisse, che egli biasimò chi fece il bue, con dire che fù male auisato à farli le corna su il capo; perche doueua fargliele sopra le spalle, accioche potesse ferire con maggior forza. Racconta Luciano che Momo diceua, che chi fece l’huomo errò grandemente à non farli una fine stretta nel petto, accioche se li potesse vedere il cuore. Venere era tanto bella, che non riprese in lei parte alcuna, solamente disse, che le pianelle faceuano troppo rumore, quando caminaua, come scriue Filostrato P. 284 [Loquacità che cosa sia] E LA loquucità una resoluta superfluità di parole, senza alcuna considerazione, come dice Speusippo. Loquacitas est rejointa loque di fine ratione intemperantia. et gli huomini molto si compiacciono in cotal vitio. però cicalano di ogni cosa, contra ogni cosa, et contra ognuno; benche non sappiano quasi mai ciò che si dicano, et vengono riputati questi tali essere in tutto priui di vergogna da Aristotile nel lib.I. delle grandi morali. Impudens est qui in omnes loquitur, & omnia, & cunque euenerint. Ma non solamente si scoprono senza vergogna: ma anchor senza dottrina, et sapienza alcuna; percioche, se il poco ragionare è proprio dell’huomo sauio, et prudente, il molto sarà dell’ignorante, et poco saputo; et credono bene spesso questi tali di leuarsi con molte parole i molti difetti, che hanno; ma non operano cosa alcuna, come dice Cicerone, ragionando contra alcuni Cianciatori. Non procaccitate lingue vitae sordes eluuntut. però gli antichi volendo ammaestrare questi tali, dipingeuano il silentio tutto pieno di occhi, et di orecchie, senza bocche, per mostrare che l’huomo douesse guardare, et udire assai, et ragionare poco. Percioche spesso il silentio è un coperchio della pazzia. Ma accioche non paresse ad alcuno, che io hauessi ragionato per odio, e non per verità, addurò alcuni essempi, ne quali al mio solito sarò brieue. Archiloco fù tanto garrulo, che impossibile è à dirlo; perche quanti huomini per la strada incontraua tanti pigliaua per gli uestimenti, pregandoli che volessero un poco ragionar seco: però un giorno per lo suo molto chiacchiarare fù sbandito da Lacedemoni. Et Calistene non à costui ceramente cederebbe, percioche n’hebbe anco pena maggiore: sempre da costui era pieno l’essercito di Alessandro di ciance; ma tanto perseuerò cicalando, che fù condannato à morte, Si legge ne discorsi di Scipione Ammirato fatti sopra Cornelio Tacito, che Filippo Re di Macedonia fù loquacissimo, et parabolano, assai più di quello, che à Re si conuenga. Onde dice. Erat dicatior natura, quam regem decet. Ne mai cessaua di beffare, et P. 285 cianciare benche fosse talhora non molto à proposito. Ottone, et Vittelio furono due cicaloni, et cianciatori i più famosi del mondo et però uennero à rumore insieme, et si rimrpouerauano scambieuolmente le loro scleratezze, et le lor dishonestà, quasi rixantes strupra, & flagitia inuicem obiectauere. Ne di giorno, ne di notte taceuano, ma continuamente teneuano la lingua in moto. Si legge nella ‘ciuile conuersatione di Stefano Guazzo di un gentilhuomo molto loquace, il quale essendo in una compagnia di huomini letterati, che ragionauano di alcune opere da stampare, subito con molte parole, et grande arditezza si mise à dire, che un suo Zio fù un grande litterato, et che essendo morto gli haueua lasciato una opera da mandare in luce, la quale era delle belle cose del mondo. Dimandato di qual materia trattasse, rispose, io vi prometto, ch’ella tratta di quante eccellenti cose sono nel mondo. Ne vi potrei mai dire à bastanza il gusto, ch’io prendo nel leggerla: ma essendoli richiesto, se l’opera era scritta in prosa, od in verso, il pouero chiacchiarone rispose, perdonatemi, ch’io non mi ricordo, et cosi scoprì la sua ignoranza, che se hauesse saputo tacere, forsi sarebbe stato riputato letterato, et se non di lettere fornito almen sauio: onde si può ben dire quello, che dice un poeta latino. Loqui ignorabit, qui tacere nesciet. Ne meno linguacciuto fù quell’altro, ilquale udendo ragionare molti nobili Poeti delle Idee, subito rompendo il ragionamento à tutti, cominciò à dire, che le Dee erano tre, Pallade, Venere, et Giunone. Onde hebbe dietro ‘una zuffalata di si fatta maniera, che rimase stupefatto, hauendo perduta la parola. Però huomini cari, imparate di seruare silentio, il quale, non discopre mai i difetti altrui; et è cosa propria dell’hiomo sapiente; come è dello insipiente la continua garrulità: onde essendo domandato un Filosofo, che taceua, perche taceua, se lo faceua per ignoranza. Egli rispose, che il costume dell’ignorante è di non sapere tacere. Ciarlatore più d’ogni altro fù Imerio Cantacusino. Costui era ricchissimo, et perche non trouaua huomini che lo volessero ascoltare, essendo anchor egli cicaloni; et però spinto da necessità non hauendo ascoltanti, pagaua uno huomo, dandogli un danaio al giorno, accioche lo uenisse ad ascoltare. Egli che di natura malinconica era, l’udiua uolentieri, et taceua, ò poche parole diceua, et guadagnaua i denari. Doue rimane Batho? ilquale non potendo tacere riuelò il furto di Appollo? Onde rimase P. 286 conuerso in pietra. Oue Tantalo? che per essere troppo linguacciuto fù condannato nello’nferno à perpetua sete, del quale Ouidio dice. Qauerit aquas in aquis & poma fugantia captat Tantalus; hoc illi garrula lingua dedit. Senza dubbio un gran parlatore era Anselmo da Preneste. costui con una infinita quantità di parole indusse un semplice, et mal accorto giouinetto à fidarsi di lui; egli fidandosi fu dal buon parabolano dato nelle mani de suoi nimici; onde si può dire. Fidei parci sont homines, prodigi uerborum. [Error del Passi] Io vorrei che Gioseppe passi sapesse, che Dante, pone nello’nferno la schiera de cianciatori, et non delle Donne cianciatrici; et però non ista bene à volere raccontare un discorso delle Donne parlatrici, ma porui la schiera de gli huomini cianciatori in vece loro. Degli huomini smemorati. Cap. XXVIII. NON so, se coloro che di memoria sono priui, ouero in gran parte mancheuoli, huomini si debbano chaimare, essendo questi tali priuati di una nobilissima potenza dell’anima, senza laquale è imposibile, che lo’ntelleto humano appprenda alcuna scienza, ouero arte veruna; però non sanno ragionare di cose auenute, come fanno gli huomini saui, ne reiscano se non perisci occhi nelle honorate compagnie. Veniamo à gli essempii. Ea mentione Marco Tullio Cicerone della poca memoria di Curione, il quali in giudicio si scordò affatto affatto la causa principiata; onde diede molto da ridere alle brigate. Scriue Suetonio, che Claudio Imperatore era di cosi poca memoria, che faceua marauigliare le genti; per che dopo la morte di sua moglie Messalina, essendo à mensa per mangiare, comandaua una, due, et tre uolte, perche Messalina non veniua a mangaire con esso seco. Et dice il medesimo autore, et molti altri, che il medesimo gli auenne di alcuni, che haueua fatti ammazzare; percioche il giorno dopo li mandaua à chiamare che venissero a giuocar seco, o che si riducessero à consiglio, et a mangiare; tutti segnali di un huomo in tutti mancante di memoria; P. 287 Essendo uedouo di Messalina giurò di non prendere più moglie, et se la prendeua, si contentaua d’essere ucciso: nondimeno la promessa li uscì di mente, et ne pigliò un’altra. Ma Caluiso Sabino oue resta? il quale era si smemorato che hora si scordaua il nome d’Ulisse, hora d’Achille, hora di alcuni altri, de quali hauea perfetta contezza come dice Seneza: et essendosi abbatuto di notte in alcuni soldati, liquali erono suoi amici in tempo alhora che per l’ombre, che spargeua la notte, non lo conosceuano, ma pigliando li domandorno, chi egli era il misero rispondendo diceua, sono io; essi diceuano, che nome hai? et egli, ò infelice me, mi son scordato il mio nome: onde henne di buone bastonate. Ma udite per vostra dè la profonda memoria, che hanoo i Traci, iquali non passare il numero quatternario, et arriuare al cinque senza errare. Si legge ne’discorsi di scipione Ammirato di Herode, ilquale hauendo fatto uccidere Marianne, dolente, et afflitto continuamente si ritrouaua; onde per consolarsi, ordinò, che si facessero conuiti, et feste: ma quando in mezzo alle allegrezze si accorgeua essere senza l’amata consorte di maggior tormento, et di maggior pianto gli erano cagione: et essendo di natura un poco smemorato, in tutto, e per tutto iscordeuole diuenne: et talhora essendo per mangiare diceua a’serui, che andassero à chiamar Marianne, et la pregassero, che venisse à mangiare seco, la qual non uenendo la mattina, tornaua à commandare à serui, che la pregassero,m et che ogni opera facessero, che la sera almeno non ricusasse di venire a ritrouarlo: onde Gioseffo, che sriue dell’Antichità, dice o lunghe dimore, et rincresceuoli indugi, che i tuoi saranno ò misero Herode. Fù etiandio priuato di memoria Artisarco, ilquale in vinticinque anni non potè imparare le prime lettee, et si dimenticaua spesso il nome della Madre, et de fratelli. P. 288 De gli huomini di poco ingegno, & pazzarelli. Cap XXIX. GLI huomini che hano poco sale in zucca non cedono in alcun modo coloro à gli smemorati: anzi li trapassano; perioche quelli, che hanno poca memoria, possono alcuna volta ragione dirittamente intorno alle cose presenti: ma colui che è scemo d’intelletto, sempre cometterà mille errori, essendo egli del viuo lumo della ragione priuato. Sono senza dubbio infiniti gli huomini di tal sorte, et per essemplificar questo mio dire addurrò alcuni essempi. Lucio Vero fratello di Marco Aurelio Imperatore era tanto impazzituo per un cauallo, che nulla più; il suo nome era Uccello, cosi lo chiamaua egli; di sua mano lo nodriua di orzo mondato, et lauato benissimo: venne questo destriere con grandissimo dolore, et pianto del suo padrone à morte: tosto che morto dù drizzò un bellissimo sepolcro in Vaticano, et fece fare per mano d’illustre artefice una statua d’oro, che haueua la somiglianza del cauallo, che habbiamo detto, la qual’egli portaua al collo in memoria sua: che vi pare? credete uoi, che fosse un pazzo da bastone? Ne senza riso mi ricordo di Corebo figliuolo di Migdone, il quale di cosi fatto ingengo era, che voleua nouerare l’onde del mare, et non ne potè nouerare più che cinque, come scriue Luciano, et Eustatio. Certo io non credo, che cedesse ad alcuno nell’essere pazzo, Commodo Imperator. Racconta Herodiano, che egli hauendo fatto fare una fesata entrò nudo co gladiatori nell’Amphiteatro: era il popolo Romano oltre à modo dolente, veggiendo il loro Imperatore combattere con barbari, et vituperare con tal sciocchezza l’imperio. I gladiatori conoscendolo per Imperatore facilmente li cedeuano, onde rimase vincitore: però li venne in testa una nuoua pazzia, cioè di non volere piu habitare nel palazzo imperaile; ma nella scuola de gli schermitori, et si faceua chiamare con nome di un gladiatore, che poco innanzi era morto: fece poi leuar la testa ad una statua grandissima chiamata il Colosso, tenuta in somma veneratione; perche rappresentaua l’imagine del sole; et ne pose un'altra, che era simile alla sua, et nella base di quella non vi scrisse i titoli paterni P. 289 et Imperiali: ma solamente. Vittorioso di mille gladiatori. poi si faceua chiamare Ercole; onde hauendosi messo intorno una pelle di Leone, prese una mazza in mano, et andaua notte, et giorno dando fiere mazzate, et spesso uccideua, alcuna volta si lasciaua vedere tutto vestito alla usanza di una Amazone. Intanto si auicinò il giorno, principio di anno, nel quali i Romani faceuano bellissime feste. si vedeuano in tal giorno i magistrati vestiti di porpora, et l’Imperatore con gli habiti imperiali: disegnò Commodo la notte innanzi di tal giorno volere dormire nella scuola de gladiatori, et in vece della veste reale ricamata di purpurei fregi, portar l’armi: ma prima si volle consiliare con Martia, Donna di molto ignegno, laquale era tenuta da lui, come per legittima moglie, la quale come intese cosi pazza, et dishonesta voglia, cominciò piangendo à pregarlo, che non auilisse con queste vane voglie l’imperio Romano, ne ponesse la sua vita in mano de gladiatori, huomini ribaldissimi, egli ostinato nelle sue voglie non si piegò punto. Ma impose à Leto, che apparecchiasse un letto nella scuola de gladiatori, perche voleua dormire in quel luogo. Accioche il popolo Romano lo vedesse uscire di là, per andare à fare il sacrifitio delle Calende. Leto, et molti altri lo pregarono, ch’egli non facesse cosa indegna di un tanto Imperatore, quanto egli era. Commodo pieno di sdegno per queste parole, si ritirò in una camera, et prese un libro di Tiglia, et scrisse coloro, che voleua fare ammazzare per questa cosa la notte. Fra li quali vi era Martia, et Leto: ma essendo peruenuto il libro in mano di Martia, et di leto, fecero in modo tale, che in vece di essere uccisi, uccisero lo scelerato, et siocco Imperatore, cosa già molto tempo da lui meritata. Zenophante era tanto leggiero, che quanto alcuno diceua cosa, che hauesse mosso un poco il riso, egli non si permaua per due, ò tre hore, et non si ricordaua, che Risus abundat in ore stultorum il Sabellico lo nomina fra stolti. Claudio Imperatore; percioche hauendo un figliuolo nomato Britanico legittimo, addottò il figliastro. Ma doue rimandono i popoli Psilli, de quali scriue Herodoto dicendo. Sono tanto stolti, che quando spira il vento austro pigliano l’armi contra lui, come se contra huomini andassero, et non contra cosa incorporea. il medesimo afferma Gelio lib.16. Cap.11. Era etiandio Militide sciocco, et leggiero à merauiglia, perche essendo già ruinata Troia voleua portare aiuto à Priamo. Costui è celebrato da P. 290 Homero. Scriue Plutarco, che un figliuolo di Dione, il quale era già in età matura da ira Fanciullesca mosso, si gettò col capo in giù da una torre. Ne sia che lasci sotto silentio Bassiano Caracalla, azi uoglio che habbia lauogo fra questi pazzarelli, essendo pazzo affatto. Haueua costui voglia di imitare Alessandro: però in Roma fece alzare una statua con due teste, una simile ad Alessandro, et l’altra simile à se medesimo, et hauendo inteso, che il Macedonico portaua la testa piegata alla spalla, anchor egli à quel medesimo modo teneua la sua: onde si reputaua Alessandro. Et à suoi Capitani poneua i nomi, che haueuano già quelli di Alessandro. questa buffoneria de nomi fece in Grecia, poi passò nell’Asia, et volle uedere oue fù Troia, come vide la tomba d’Achille, li venne in capo un nuouo humore, et voleua essere tenuto un nuouo Achille: però i Romani, che lo seguitauano haueuano un grandissimo passatempo. Questo si legge in molti Historici illustri. Scriue Giouanni Tarcagnota nel duodecimo libro delle storie del mondo queste parole di Alfonso di Castiglia. Egli fù fi cosi scempia, et grossa natura, che volendo andare contra Mori à guerreggiare, essendo à cauallo, et hauendo preso con la mano sinistra lo scudo, et nell’altra la lancia, quando si vide porgere la briglia: accioche con la mano, che teneua lo scudo reggesse il cauallo, voltato à i suoi disse, datemi la briglia in bocca; perche come potete vedere ho già le mani occupate, et spesso ne diceua altre simili, et ancho di più belle: onde molti, che non poteuano contenere le risa, furono da lui uccisi. Fù etiandio un bel pazzarello colui, che consumò cinque, ò sei anni per ritrouare di che età morisse Ecuba, se di notte, ò di giorno. Ne meno di costui era quell’altro, che consumò venti anni per sapere quando Enea giunse in Italia, se pose prima in terra il piè destro, ò il sinistro, ne si sarebbe acchetato questo studioso, se non gli fosse stato detto, che Enea saltò, co piedi giunti in su’l lito. Leggiero, et siocco fù Tiberio Imperatore: ma pazzo, et crudele per lieui cagioni. Fece uccidere uno; perche haueua lodato Bruto, et Cassio, et diceua, che furono gli ultimi Romani. Un altro fece uccidere, perche in una sua tragedia biasimaua Agamenone e, ammazzonne un altro, perche li haueua tolto un pero nel giardino. Ne voglio, che lasciamo fuori di tal compagnia Andreasso Re di Napoli, ilquale fù il più bello scempiotto, et scioccone, che si trouasse all’età sua, dice il Tarcagnota. P. 291 Ragionando di lui. Faceua Andreasso merauigliare le genti della sua stoltitia, et pazzia. Io non credo che Xerse, per quello che narra il sudetto autore fosse più sauio di questi pazzarelli, che nominato habbiamo; percioche scrisse una lettera al monte Ato di questo tenore. Infelice Ato, che tanto al Cielo t’inalzi, non mi fare malegeuoli, et duri i tuoi sassi per quello, ch’io di fare intendo. che altrimente giuro per Li miei Dei di farti tutto à pezzi, et gittarti in mare stando superbo, et ostinato ne temendo le minaccie di Xerse non li prestò la via: onde egli vinto da sdegno lo fece intorno tagliare, et ridurlo in Isola, in questo modo lo castigò; perche non l’haueua ubbedito. Grande senza dubbio fù la pazzia de Romani nel celebrare con tanta pompa l’effige di un coruo, facendo portar la bara, sopra laquale egli erano due Etiopi, andando innanzi il trombetta con mille varietà di corni, et fù sepellito nella uia Appia à man destra dua miglia duori di Roma in campo Redicolo: ma io credo certamente, che il vocabulo sia corrotto, et voglia dire Ridiculo, essendo questo cosa pazza, et ridiculosa. questo narra Scipione Ammirato ne suoi ragionamenti sopra Cornelio Tacito. Dice il medesimo nel lib.1. al quinto ragionamento, che con molta ragione Antioco Re di Soria fù cognominato pazzo, il quale preso da folle desiderio di superare la gloria di Paulo Emilio, che combatteondo acquistato si haueua, si pose ad ordinarie il trionfo, ragunando genti di Misia, di Cilicia , di Galatia, et di molte altre parti, et voleua fare di tante Donen, di tanti Caualieri, di tanto oro, et ornamenti, quanto egli lo fece. Et non sapeua il pouero pazzarello, che la guerra precede il trionfo: ma voleua fodere l’honore del trionfo senza guerra, et vittoria. Scriue Suide, che Menippo Cimico haueua tanto poco sale in zucca, che faua stupore alle genti. Fra le altre pazzie et leggierezze pare à me, che questa sia bella molto. Egli voleua far credere al mondo, che era ufficiale nello ‘nferno, et che gli Dei l’haueuano mandato di là già nel mondo, per vedere il male che gli huomini faceuano, et poi riferirgliele. Usaua l’haubito delle furie, et lo descriue in questo mondo. portaua una veste negra, lunga fino à terra, cinta intorno bene stretto, con una grossa fascia, con un capello in capo, nel quale erano disegnate le dodici figure del zodiaco con scarpe, come gli Histrioni, et recitatori di tragedie, et con un bastone di Frassino in mano. et Plutarco volendo mostrare, che molti P. 292 sono gli huomni che hanno poco sale nelle lor minestre, dice. alcuni huomini morendo i lor cani, et caualli si sono vituperosamente dati al pianto, et a’ lamenti, altri quando hanno perduto i figliuoli valorosi et da bene allegramente hanno sopportato la perdita loro, alcuni altri benche habbiano figliouli ligittimi non posso stare senza i naturali et spesso ammalano, piangono, et muoiono per loro i buoni pazzarelli, De gli Ucciditori delle Madri, de Padri de Fratelli, delle Sorelle, & de Nipoti. Cap. XXX. [Parricidio quanto sia dannoso.] CERTAMENTE io non so qual sarebbe quell’huomo cosi priuo di pieà, et di amore, ilquale hauendo hauto dal Padre, et dalla Madre (pietosi genitori) prima l’essere, et poi da loro con mille fatiche, con mille sudori, con mille vigilie, et con mille rompimenti di capo, stato nutrito, et ammaestrato, dia loro inuece de sparsi sudori, de gli hauuti trauagli, et de sofferti disagi la morte; et però (ò cosa horrenda) se ne ritruano non dico uno, ne due , ma centinaia, la qual cosa è fuggita dalle fiere, et dalla natura stessa abhorrita. come ancho è cosa empia, et scelerata il por le armate mani nel sangue del fratello, ò della Sorella, ò del nepote, le quali tutte uccisioni chiamarono gli antichi Latini con questo semplice nome di Parricido. ma non credo, che sarà fuori di proposito, se ne raccontaremo alcuno essempio. Scriue Frà Leandro Alberti Bolognese, nella discrittione d’Italia, che Can Signore, della Scala fece incarcerare Paolo Aboino suo Fratello, accusandolo di uno trattato ordito contra di lui: ma venendo per una infirmità vicino a morte, et temendo che Paolo suo fratello non fosse tratto di prigione, fece condannarlo à morte, et così fù ucciso innocente per odio del maluagio fratello. Racconta Appiano Alessandrino, che Arnale Pretore, essendo de condannati da i Triamuiri, fuggì in una picciola, et vile casetta ne borghi di Roma con una scure in mano, ne si fidò lasciarsi vedere ad alcuno, eccetto che al figliuolo proprio, il quale fù tanto maluagio, et crudele, che menò seco i sargenti, et lo diede loro nelle mani, et fu presente (o cosa inaudita) à vedergli tagliare il capo. onde poi da i Triumuiri fù creato P. 293 Edile ma poco dopo essendo di notte tempo ritrouato da’birri, liquali haueuano ucciso suo Padre, fù da loro per seuerthie pazzie procedenti dal molto vino che beuuto haueua, ucciso. Non lascierem di raccontare anchora alcuna cosa. dello spietato, et crudo Nerone. ilquale per uccidere Agrippina sua madre, fece fare una barca, laquale ageuolmente si apriua di sotto: perche si sommergesse. onde inuitò Agrippina, accioche andasse ad una solennità, che egli celebraua in Baia, et ella essendo andata, e volendo poi la sera ritornare in Bauli, oue haueua il suo albero, il buon figliuolo la fece sopra il fallace legno montare, non si era molto il legno scostato da terra, quando fù daalla poppa con uccisione di molti disciolto. Agrippina fù saluata; perche nuotando si ridusse a riua, solamente haueua hauuto una percossa in una spalla, et mondando sopra un legnetto, se ne andò ad una sua villa, et fingendo di non accorgersi dello’nganno del figliuolo gli mandò a à dire prestamente, che il pericolo era stato grande: ma però con l’aiuto de gli Dei non haueua male alcuno. Udito questo l’empio Imperatore, et scelerato fingendo, che sua madre l’hauesse mandato ad uccidere lasciossi cadere destramente un coltello, et disse che era caduto al messo, che aueua mandato Agrippina, et cosi à torno lo fece con molta crudeltà uccidere, et poi mandò Aniceto con molti compagni à ritrouare la madre, et fece ucciderla. come ella vide venirli, certa di essere morta, disse loro, che douessero ferirla nel ventre; perche quella parte del corpo meritaua più d’goni altra il castigo, hauendo generato cosi fiero, et spietato mostro. mentre diceua queste parole fù con molte ferite uccisa. Tosto, che estinta fù. Nerone la andò a vedere, et riguardando ogni sua parte del corpo, alcuna ne lodò, alcuna ne biasmò, et cosi con occhi non di figliuolo, ma di crudel carnefice miraua, e vituperaua la Madre uccisa salla sua impietà. et poi scrisse al Senato, et oltre ad ogni credere la biasimò, dicendo che era stata crudele, et ingiusta. onde non solamente le volle torre la vita; ma anchora la buona fama. ò figliuolo più d’ogni altro crudele, poi che senza niuna pietà tanto potesti, et osasti contra colei, che ti hauea generato. Maa doue rimane Bassiano Imperatore? ilquale uenne di Bretagna à Roma con disegno di non volere compagno nell’amministratione, et hauendo un fratello nomato Geta determinò, come scriue Sparziano P. 294 di ucciderlo; onde mandò alcuni huomini iniqui, iquali lo uccisero nel grembo di Giulia sua madre, et alcuni altri scriuono, che il proprio Bassiano l’ammazzasse nel seno di lei, la quale era matrigna di esso Bassiano, et ancho fece uccidere tutti i partigiani di Geta con le mogli, et co figliuoli. Etiandio Patricida fù Pietro Re di Castiglia, il quale senza’alcuna pietà fece leuar del mondo due suoi fratelli innocenti, et poi perseguitò un fratello bastardo, et lo spogliò d’alcune terre, che gli haueua lasciate suo Padre. Ma doue rimane Artaserse? ilquale si gloriaua di hauere ucciso il fratello, et perche alcuni altri si attribuiuano questo, furono con molte pene tolti di vita. Scriue Plutarco, che Timoleone uccise il fratello. Dice lo stesso autore, che Dario entrò di notte tempo nella camera di Artaserse suo Padre. per ucciderlo con Tirabazo, il quale haueua le armi nude, egli che haiea antiueduto questo tradimento, teneua una porta aperta che haueuadietro al letto, laquale staua sempre coperta d’razzi, come egli vide il maluagio figliuolo armato nella, camera, saltò di letto, et fuggi perla porta in un’altro luogo. cosi si saluò: ma Dario fù subito preso, et messo in prigione, et poco dopo ucciso. Ne voglio, che Cesare Borgia venga da costoro separato perche dice di lui il Giouio. Ma parendo à Cesare la dignità del capello molto inferiore all’animo suo, fece una notte Scannare un suo fratello, col quale haueua allegramente cenato, et lo fece gittare nel Teuere alla guglia. questo suo fratello era Duca di Candia. restata Candia priua del Principe, Cesare rifiutò il Capello, et si fece Duca di quella. Scriue Appiano Alessandrino, che Lepido essendo de Triumuiri il primo, che condfannò à morte, fù il fratello proprio. si legge nelle storie de gli Imperatori di Costantinopoli descritte dall’Acominato, che due figliuoli di Neemone principe di Traballo per cagione della ambitione, et della pazzia loro vennero à rumore insieme, et il maggiore di età, nomato Vasco Scacciò dal principato, et dalla patria, et dal mondo Stefano fratello minore. la fama di questo patricidio passò alle nationi forestiere, et pose l’armi in mano à fratelli contra fratelli, et à parenti contra parenti, et cosi si scacciauano l’un l’altro dal mondo. onde ragionando di costoro, possiamo dire con Lucano: Cani mus populum potentem In sua uictrici conuuersum uiscera dextra. Et tutto per signoreggiare, et per tiranneggiare. P. 295 Racconta Sparziano, et alcuni altri scrittori, che essendo Seuero Imperatore vecchio, et molestato dalle gotedesideraua morire: ma questo era molto piu desiderato dal figliuolo Antonino Caracalla, il quale si haueua lasciato intendere, che se la infermità non l’uccideua, egli col veleno li voleua torre la vita, laqual cosa, sapendo Seuero, morì più di affanno di questa cosa, che per l’infirmità; onde il figliuolo iniquo ne fù molto allegro. Dice fra Leandro Alberti, che Bartolameo della Scala fece uccidere Antonio suo fratello per rimanere solo nella signoria. Si legge nelle guerre fatte in Grecia descritte da Xenofonte; alle quali continua la Historia di Tucidide, che essendo creati Taghi ouer principi Polidooro, e Poliphrone fratelli, et essendo quelli andati in Larissa. Polidoro dormendo di notte fù occiso da Poliphrone suo fratello à torto. Fa mentione Tito Liuio de due fratelli Spagnuoli Corba, et Orsua, i quali per una città chiamata Ibe fieramente contendeuano insieme. volendo Scipione porli d’accordo si affaticaua molto; ma in unao; perche feroci, e desiderosi di reggere risposero, che ne gli huomini, ne i Dei li poteuano pacificare, et che bisognaua che Marte fosse giudice delle lor differenze, ne potè alcuno da si cruda rabbia distorli: onde furono una horribile tragedia à riguardanti, et il minore fù ucciso. Scriue il Volaterano, che Egiberto Re d’Anglia uccise con molta crudeltà i figliuoli di suo fratello ancora teneri bambini. Narra Seneca, che Antreo ammazzò i figliuoli di suo fratello fanciullini, et allo stesso gli diede accomodati in varie viuande. Tito Liuio racconta gli odii, i rancori, le parole ingiuriose, et le molte proue di uccidersi, che fecero i due fratelli Perseo, et Demetrio, figliuoli di Filippo. Et Paulo Orosio dice queste parole di Filippo. Inde post cedes, & incendia, depredationesque in socias urbes gestas paricidia in frates conuerit, quos patri ex nouerca genitos, cum coheredes regno uereretur: interficere aggressus est. Romulo, come ognuno sa, uccise il fratello Remo. Doue rimane Cambise? ilquale solamente; perche li parue in sogno, che il fratello sedesse nel suolio regio di Persia, li fece torre la vita, et perche una sua sorella l’hauea di tanta impietà ripreso, le diede tante percosse, che l’uccise. Sriuono i Greci, che hauendo Cambise fatto mettere, come in un steccato un Coganlino, et un Leoncino, et il Leoncino vincendoui corse uno altro Cagnolino in soccorso del fratello, et ambidue vinsero l’auersario Leone: onde lagrimando P. 296 Meroe sorella di Cambise il marito, le domandò; perche opiangesse, rispose, io mi ricordo di Smerde mio fratello, ilquale non ha hauuto, ne chi soccorso, ne chi vendicato l’habbia: maquesto Cagnoletto perdendo hebbe questo altro Cagnolinom, che volentieri li ha dato aiuto: questo intendendo lo Scelerato Cambise, subito la fee crudelmente morire. Dice Giustino, che il regno di Soria andò in ruina per gli odii fraterni. Crudelissimo verso la madre fù Antipatro, ilquale senza alcuna memoria de benefitii riceuuti uccise (o cosa iniqua) la cara, et amoreuole Madre, laquale li domandaua la vita, et scoprendo le mamelle gli ricordaua il latte dolcissimo, che da lei hauuto haueua: ma sordo come Aspe, et duro come uno scoglio sprezzò i materni preghi, et l’estinse; perche eli pareua, ch’ella fauorisse Alessanro suo fratello. Questo racconta Trogo. Mitridate uccise la madre, et un fratello, come dice Celio. Giouanni Maria Duca di Melano chiuse la madre in una torre, et in quel luogo la fece morire, questo scriue Velate. Dice il medesimo autore, che Enrico figliuolo di Alfonso undecimo ammazzò il fratello, et che Perino fregoso Principe di Genoua uccise etiandio il fratello, il quale era molto honorato per la dottrina, et per li suoi honesti costumi. Similmente Ostio uccise il padre, come riferisse Plutarco. Federico Imperatore fù per inganno dal figliuolo estino senza alcuna pietà. Aristobolo Re di Giudea non uccise il fratello? il medesimo non fece Antioco figliuolo di Seluco per regnar solo? Ferdinando Re di Castigli non ammazzò Carsia suo fratello Re di Nauarra? dice Herodiano, che Learco diede il veleno ad un suo fratello, il quale era infermo, onde rimase il misero strangolato. Ma doue resta Haldane? il quale per desiderio di signoreggiare priuò di vita due suoi fratelli giouinetti, et con l’aiuto di questo paricidio si confirmò nel regno. Et Seluco per reggere solo lo stato ammazzò il fratello. Et Aristobolo Re fece il simile al suo fratello Antigono. Pico Ordelapho, come scriue il Volaterano per regnar solo uccise suo fratello nomato Francesco, et mandò in lontano essilio i suoi figliuoli. parue poco à Tolomeo Philopateri hauere ammazzato il padre, se non riuolgeua il coltello anchora fumante del suo sangue nel fratello. Cosi Enrico Re di Anglia fece priuar de gli occhi suo fratello Roberto, et in prigione lo fece morire di fame, e di fetore. Cosi Iugurta uccise i suoi fratelli, et i figliuoli loro, come dice Salustio. Learco Re de P. 297 Cirenei diede il veleno al fratello infermo: onde restò strangolato. Et Tiphone per inuidia uccise il fratello. il simile fece Orode Re de Parthi contra Mitridate Ioram non lasciando alcuna maniera di tormenti, co quali diede fine alle vite de fratelli. Bela Re di Pannonia uccise il fratello Andrea. Commodo Imperatore, come scriue Herodiano, uccise Lucilla sua sorella. il medesimo fece Critolao. Et Isacio fù dal fratello Alessio de gli occhi, dell’imperio et della vita priuato. cosi Dardano il fratello. Massimiliano figliuolo di Diocletiano la sorella uccise. dice Sesto Aurelio, che Aureliano Imperatore uccise il figliuolo di sua sorella, et molti, anzi infiniti altri fecero il simile, come Orste uccise la madre. Nino Semiramide, come vuol Celio, et Tropia Re fu dal figliuolo ucciso. De padri, che uccisero i propri figliuoli. Cap. XXXL. SE nel capo antecedente diede me rauiglia à lettori un figliuolo, il quale vinto da fiero sdegno, ò dalla cupidità del signoreggiare l’armata la scelerata destra, ò di mortifero veleno, ò della micidiale spada uccise (ahi fatto indegno) il proprio genitore, ò la propria genetrice.quanto stupore porgerà adunque il padre. scacciato da se ogni amore, facci il medesimo contra il figliuolo? ilquale è sua fattura, et per consequenza pi l’ama, che non fa esso il padre come dice Aristo nel libro 2. delle gran morali cap.14. con tai parole. Magis filium pater diligit, quam filius patrem ob hoc, quod eius factio fit filius, id quod in aliis cernimus: omnes siquidem erga, quod ipsi effecerunt, sunt quodammodo beneuoli. Aggiunti à questo, ch’egli spera essere nella sua vecchiezza custodito, et nutrito dal figliuolo, come egli dice nel lib.I.del gouerno Economico in modo tale. Filios procreant non solum ut id naturae tributum ferand, uerumetiam ut commoda exinde suscipiant ualente enim ipsi imbecilles suos labore tuentur & alunt. mox imbecilles ob senium faci à valentibus eadem reportant. oltre à ciò vede il padre l’eternità della sua famiglia risplendere, et conseruarsi, nel figliuolo, ilquale è sua propria imagine. et con tutto che conosca tanti beni ne figliuoli, nondimeno ce ne sono stati, che gli hanno uccisi. certo cosa mostruosa P. 298 io non mi ricordo hauer letto, che alcuno altro animale uccida i propri figli, anzi ogn’uno li ama et nutrisse insino all’età, che ponno da se stessi procacciarsi il vitto, insino la cornacchia non solamente con amore nutre, et scalda sotto l’ali i pulcini; ma anchora à lei paiono bellissimi; anchor che brutti, et per amare i figliuoli, le interuene una disauentura di simil sorte. Vedendo l’aquila reina de gli uccelli andare superba à caccia de volatili, dubitando che non predasse il suo nido, le andò dolcemente incontra, et la pregò, che non offendesse i suoi polcini, rispose l’aquila fammeli conoscere;accioche in non gli uccida. non li conosci tu? ripose la conacchia, sono i piu belli, e ben formati di tutti gli altri, partissi l’aquila, et i primi ne quai diede del becco furono i conacchini. Ritoranndo la cornacchia à vedere il nido, trouò morti i figli. Onde empiendo di querele le circostanti selue si lamentaua dell’aquila, che le hauesse mancato della promessa fatta. et essa le rispose, et disse. Io non ti ho mancato; perche ho lasciato i puù belli, et ho mangiato et uccisi i più brutti: onde la colpa fù tua. Allhora disse, la poca fortunata, cornacchia.à gli occhi miei, che à lor fui madre, pareuano i più vezzosi, et i più vaghi, che si potessero vedere, ne credeua, che le colombe col candore potessero vincere di bellezza il nero de miei figli. Io credo, che fosse cosi amoreuole, verso loro; perche era femina, la cui dolce natura è di tali eccessi iquali vogliamo mostrare, che gli huomini spesse volte han fatto, non si puo riprendere. et Martin Tuornouio mostrando, che nessuno animale irrationale uccide i figliuoli dice nel libro de Imolatione Isaci. Belua nulla In propriam sunt sobolem GangeticaTigris, Uberibus pascit prolem immitisque leena. Ma adduciamo alcuno essempio; accioche si possa vedere, che gli huomini sono d’ogni impietà albergo. il primo sara Filippo, ilquale haueua un figliuolo solo nomato Demetrio giouine molto urtuoso, et sauio, et molto amato, et honorato da Romani: onde Filippo suo padre ardendo d’inuidia gli diede (ah crudel genitore) la morte. questo scriue Plutarco nella vita di Arato, narra lo stesso autore di Bruto, il quale staua presente alle morti, à i tormenti de’ propri figliuoli, senza gittar lagrima, ò sospiro, anzi Orosio dice, ch’egli con le sue mani gli uccise, con queste parole P. 299 Virgis cecidit, securisque percussit filios. Et Artaserse, hauendo conosciuto, che suo figliuolo l’haueua uoluto ammazzare, egli tirando fuor l’armi, et dandogli molte ferite l’uccise. Narra Batista Ful. che Tigrane fù crudelissimo, et un giorno caualcando, et hauendo seco un suo figliuolo li auenne, che cadde da cauallo, et perche subito il figliuolo non l’aiutò, lo fece crudelmente uccidere. Ma doue lasciamo Usumiassano? ilquale menò in ceppi un suo figliuolo fino alla morte. Doue Federico Imperatore? che fece morire in prigione con gran miseria un suo figliuolo solamente, perche gli pareua, che fosse inclinato alla parte di Gregorio Pontefice, et il Re de Bisalcidi nella Tracia fece priuar del lume de gli occhi un suo figliuolo. Scriue Plutarco, che Dario Re de Persi priuò di vita Ariobarzane suo figliuolo, senza alcuna pietà. Dice il medesimo autore, che Crasso signifer uccise Crasso bruto suo figliuolo. Stesibroto fù morto dal padre. Doue resta il crudele agesilao? Che fece finire i suoi giorni al figliuolo nel tempio di Pallade, non dandoli alcuna cosa da mangiare, ò da bere. Doue Leuo ateniese? alquale essendo detto dall’oracolo, che sacrificasse tre sue figliuole per salute d’atene, et egli crudo di natura più tosto volle ubbidire all’oracolo, che perdonare alle sue viscere, et cosi uccise tre sue figliuole. Doue Ptolomeo? ilquale essendo scacciato per le molte sue crudeltà dal regno, uccise un suo figliuolo, et taglaindoli le mani, i piedi, et il capo li mando à donare alla madre dell’ucciso figlio. Pensate voi quali furono i pianti, quali i lamenti, che fece la misera madre veggendo con quanta crudeltà lo scelerato padre haueua ucciso il figliuolo. Questo scriue Liuio. nel lib 16. ne vo, che resti fuori di questa iniqua compagnia Tantalo Re di Phrigia, che diede composto in diuersi modi il proprio figliuolo cotto à mangiare à gli Dei, che alloggiaua nel suo albergo, et cosi dice Seneca in Thieste, exceptus gladio paruulus impio, Du, curit putrium natus ad oasculum Immatura focis uictima concidit: Diuisusque; tua est Tatale dextera, Acensas ut strueret hospitibus Diis. Costantino magno non uccise il figliuolo Crapo per cagioni incerte, come dice Sesto Aurelio? Cambise il figliuolo di Ciro Re de Persi non uccise il proprio figliuolo con una saetta? come scriue il Sabellico. PErimella fanciulla non fu uccisa similmente dal padre? Eracteo non sacrificò la figliuola à gli Dei? Mitridate, come vuol Celio, non tolse dal mondo tre figliuoli, et tre figliuole? P. 300 Ne lasciaremo il crudele Hippomene Principe de gli Ateniesi, ilquale sapendo, che la figliuola era stata uiolata, la chiuse in un luogo con un cauallo ferocissimo né a lei, ne al destriere faceua dare da mangiare: onde il fiero animale, uinto dalla necessità, diuorò la misera giouinetta, come desideraua l’iniquo padre: onde si diceua per prouerbio. Magis impius Hippomene. Orchamo non sepellì la figlia uiua? come dice Ouido nel lib.9. delle Metamorfosi ragionando di lui. Ille ferox, immansuetusque; precantem, Tendentemque manus ad lumina solis, & ille Vim tulit inuitae, dicentem defodit alta Crudus humo; tumulumque super grauis addit arenae I quali versi uolgarizzati dal Maretti, cosi suonano. Quel dispietato, in cui par che s’accoglia Alto furor, lei, mentre che porgea Humil prieghi, e le man piena di doglia Ver de lampi del sole alte stendea, E mentre, mi sforzò contra mia voglia, Ne ma di cio diegli cagion, dicea, Lei dico, l’empio in cupa fossa abbassa, E graue arena poi sopra le ammassa. Onde Febo adirato del tormento, che diede lo iniquo padre alla figliuola, lo dissipò co raggi, come dice il medesimo autore nello stesso libro. Dissipat hunc radiis Hyperione natus. Scriue Senofonte nelle guerre de Greci, lequali seguono l’Historia di Tucidide, che Alessandrino pose in prigione un suo figliuolo giouine da bene, et modesto: onde la madre del giouine tutta addolorata pregaua Alessandro, che lo liberasse, et egli trattolo di carcere lo ammazzò. Aulo Postumio Tiburto percosse il Figliuolo con la secure, come scriue Valerio, conferma Macrobio, che Herode Re di Giudea, diede la morte à tre figliuoli Alessandro, Aristobolo, et Antipatro. Embaro sacrificò la figliuola à Diana. Deiotaro hauendo molti figliuoli tutti da uno in fuori uccise, come vuol Celio. Lenogildo Re di Spagna ammazzò il figliuolo. Hermogildo. secondo il Volaterano, Arpiage mangiò il figliolo. Pensate che amore doueua portarli. io stupisco in veder tanta crudeltà centra i proprii P. 301 che Idomeneo Re di Creta fece voto di sacrificare il primo, che ricontrasse nella via, et à caso ritrouò la figliuola, et si come quelli, che era poco amoreuole verso i figliuoli, senza lagrima, o sospiro adempì il voto. Atamante Re de Thebani uccise il picciolo figliuolo Learco, come si legge nel lib.4. delle Metamorphosi s’Ouidio. De sinus matris ridentem, & parua Learchum Brachia tendentem rapit: & bis, & terque per auras More rotat fundae: rigidoq infantia saxo Discutit ora ferox. Ptolomeo Aulete tolse la vita ad una sua figliuola nel suo più bel fiorire de gli anni, questo scriue Strabone nel dicisettesimo libro. Mario altresi sacrificò la figliuola di estrema bellezza adorna à gli Dei. Ma che debbo io più noiare le orecche de leggitori con altre impietà, et sceleratezze, bastino le raccontate, che ciascun, de gli essempi, che habbiamo posti, potrà conoscere quanto sieno gli huomini crudeli, et inhumani contra i figliuoli, contra i quali le fiere non usano crudeltà. Si che non fanno già le pietose madre, benche i poeti dicano, che Medea uccise i figlioli. agaue uccide se con le altre Baccanti Pentea, Progne il figliuolo Iti, Altea facesse il simile, queste sono tutte fauole. et tutto che se ne ritrouasse alcuna, che io nol nego, laquale hauesse data la morte al figliuolo, bisogna pensare, et considerare, che ne doueua hauere grandissoma ragione, et che non potesse far di meno; percioche le madri sono cosi amoreuoli verso i figliuoli, come fù Agripina verso Nerone, la quale intendendo, che se il figliuolo fosse Imperatore, ucciderebbe la madre, essa hauendo più caro l’honore, et la grandezza di lui, che la sua propria vita, rispose. l’uccida, ch’io me ne contento. P. 302 De gli Hipocriti, & Santoni. Cap. XXXII. HIPOCRITA è colui, che sotto apparenza di una deuota bontà, et santa religione cela un cuore di rapacissimo lupo, che souente ti priua ò dell’honore, ò della roba. Et però à lui (si come quelli, che brama di parere, et non essere) è molto conueniente questo nome d’Hipocrita, che in lingua greca significa Histrione, di cui è proprio rapresentare la persona, che ueramente egli non è. Però Dante per mostrar, che costoro non hanno in loroo alcuna cosa di vero, eccetto la superfitie, et al di fuori, li chiamò gente dipinta nel suo inferno, dicendo La giu trouammo una gente dipinta Che giua intorno assai con lenti passi Piangendo. Gli huomini di tal fatta paiono essere tutti pieni di carità, et di deuotione, et mostrano non si muouere mai, se non per zelo di Dio, et utile del prossimo. Fanno questo per essere tenuti buoni, et bramano di parere buoni, per non essere tenuti Hipocriti; perche sanno bene quanto questi buoni huomini sieno odiati, et abhorriti dal mondo, hauendo sempre, come dice Plauto, in una mano il pane, et nell’altra la pietra, e quando non l’aspetti ti giunge nel capo. bella cosa è certo il vedere talhora uno di questi Hipocritoni inginocchiato nel mezzo di una chiesa, ò ritirato in un cantone di quella, per mostrare, che fugge la moltitudine delle genti col collo torto, masticando paternostri, ouero con uno ufficiolo in mano percuotersi il petto in guisa, che risuoni la chiesa, et stare con si finta deuotione, che pare, che il suo spirito sta salito nel grembo di Dio trahendo dal profondo del cuore sospiri cosi ardenti, che accendono l’aere d’intorno, col volto pallifo, et smorto (mercé del zaffrano che egli usa) per mostrare che osseruaua il digiuno, et che si flagela con abiti poueri, et vili, col collaro quasi ascoso, et similmente le mani nelle maniche del Giubbone. et fa questa; accioche le genti P. 303 l’honorano, quasi santo, ò li fidino nelle mani le sostanze loro, per furarle, poi uscito di chiesa se ne ua alle sue facende ordinarie con un brazzo di corona in mano, et infelice colui, che li dicesse, ò mostrasse cosa, che mouesse il riso, ò incittasse la gola, che subito mostrando di essere scandilizato, aprendo la bocca, in cui non suonano se non parole piene di simulata santità, dice Dio ti perdoni fratello. et cio dice con voce languida, et mesta. mesta perauentura; perche non può godere tutti i piaceri et tranguggiare i buoni bocconi. et misero colui, che raccontasse le opere cattiue di alcuni, anchor che notissime; perche egli stringendosi nella spalle, mostrando di hauerne dolore, anchor che godea in udirle, si parte dicendo, che non istia à raccontar cotali cose. poi ritirato co suoi buoni compagnoni nella sua secreta stanza i più rabbiosi i più maldicenti che ritrouar si possiano sono tutti voraci, gran mangiatori, vanagloriosi, iniqui, superbi, et dissoluti, et pensano come possano fare per ingannare le genti, et in somma hanno in loro tutti quei uitii, che il Diauolo in tutto il tempo di sua uita ha seminati fra tutti gli huomini del mondo: et però conoscendo la lor natura Cicerone disse. pessiima è quella generatione d’huomini, i quali benche uogliano ingannare, oprano di essere tenuti buoni. et etiandio furono biasmati, et vituperati dal trionfante Christo piu d’ogni altra spetie d’huomini. et Cesare Caporale conoscendo questo vitio essere fuggito da ogn’uno disse. E de la hipocrisia fuggo l’errore, Come soglion da i can fuggire le fere. Io potrei dire molte altre cose; ma le voglio lasciare à famosi predicatori, iquali come sonore trombe dell’Euangelo correggeranno dalla altezza de pulpiti con inusitata seuerita la falsità di costoro. et poniamo alcuno essempio; anchor che si sappi, che sono infiniti gli huomini, che uanno facendo i buoni, et i Santi i quali sono, come habbiamo di sopra detto, perfidi, et iniqui. Racconta Niceta Acominato. Che Theodoro Brana gouernatore Re de Traci haueua commesso con lettere à Tracensi, che andassero alla festiuità di San Giorgio, se no voleuano essere tagliati à pezzi dagli Sciti: ma essendo venute le lettere in mano di uno, che si chiamaua Racendite, il quale era venuto à pigliar l’offerta, costui haueua P. 304 rinunciato il mondo, et s’era fintamente spiccato dalle cose terrene, et vestitosi volontariamente d’habito di religioso, temendo costui la perdita della offerta, se ubbidiua al Gouernatore, et considerando che la cosa li tornerebbe à danno, tenne le lettere di Brana nascoste, et diceua al popolo, andate allegramente à visitar la chiesa di San Giorio, che io so per un certo spirito diuino, et buono, che parla in men, che voi non patirete hoggi d’alcuno offesa nessuna. Andati i Thraci alla festa, subito vennere i Scithi, et rapiro il tutto, et ammazzarono molti, et molti huomini. mirate un poco per vostra fè, come questo santo huomo si portò bene, non volendo mostrar le lettere de Brana auaritia grande, cosi fingendo deuotio ne pigliò i danari con danno, et col maccello di molti. Etiandio Sertorio fù un grande Hipocritone. et però nel suo essercitò fù un certo plebeo per nome detto Spano, ilquale cacciando vide una ceruetta tutta bella, et bianca, inuaghito di si fatto animale, le tenne dietro, et la prese, et ne fece un grato dono à Sertorio. ilquale hauendola riceuuta la cominciò à vezzeggiare, et in processo di tempo la fece tanto domestica, et amoreuole, cch’egli chiamandola lo intendeua et gli andaua dietro, senza paura alcuna tra lo strepito delle armi, et frale grida de soldati, et il suono delle trombe, volendo poi dare ad intendere alle genti, che l’animale hauesse in se diuinità, à poco, à poco cominciò a duulgare, fra quegli huomini barbari, et tutti dati alla religione, che Diana gli haueua mandato à donare quella ceruetta: accioche gli predicesse molte cose secrete. onde ogni volta che intendeua per ispie, che per altro conto hauea mandato, che i nimici fossero vicini, subito fingeua, che la Ceruetta à lui hauesse detto, per commissione della Dea in sogno, che l’essercito si douesse tenere armato. Et il tutto faceua per parere caro a’Dei per mostrar che hauessero di lui particolar cura. Et cosi ingannaua le genti. Plutarco nella vita di Sertorio. Similmente Scipione Africano dopo, che hebbe presa la toga virile, per farsi tenere diuino, ogni giorno saliua in Campitolio, et entraua solo nel tempio, accioche gli huomini credessero di lui, come molto prima era creduto di Numa Pompilio, che dalla ninda Egoria intendeua molti secreti, anchor etli dando ad intendere al popolo Romano molte fauole, et inuentioni, per farsi tenere grato à gli Dei: accioche gli huomini l’honorassero. Fù di questo vitio quanto ogni altro macchiato. Licurgo; perche diceua, che col P. 305 consiglio, et persuasione d’Apollo haueua dato leggi à gli Ateniesi. Ne Pisistrato si lasciò ad alcuno ponere il piede innanzi. Costui per recouereare la tirannide, la quale con simulatione haueua lasciata, mostrando di non curarsene più si ridusse nella Rocca di Minerua, et mostrando una Donna da gli Ateniesi non conosciuta, vestiua con habito à somiglianza delle Dea, ingannaua quelli il perfido Hipocrita. Questo dice Valerio Massimo. Racconta lo stesso autore, che quando Silla uoleua far guerra, alzaua una picciola figura d’Apollo, et abbracciandola nel cospetto de soldati, la pregaua, che facesse perfetta la promessa, che fatta li hauea. Et Minos Re di Creta per mostrare al popolo, che era deuoto, si ritiraua in un sacro spero, et iui staua tanto, che Gioue, come diceua egli, li hauesse date le leggi. Ne è bene che lasciamo lungi da costoro Ermidoro, ilquale fingendo diuotione, et mostrando essere lontano dalla vanità del mondo, et tutto fiso in Dio mentre gli huomini dalla sua patria stauano aspettando, che fosse portato al Cielo colle calze, et il giubbone, essendoli trouate alcune scritture contra le cose sante, et diuine fù annegato, come falso, et scelerato huomo, che egli era. Onde si può ben dire i versi di quel buon Poeta ragionando di costoro. L’Hipocritone sol di parer brama Deuoto, e pio; benghe nel cor disprezzi Qual sacro rito più s’honora, & ama. P. 306 De gli seditiosi, & tumultuarii. Cap. XXXIII [Seditione che cosa sia.] LA seditione è un empito ò del popolo tutto ò di certi particolari contra ad alcuno spetlmente [sic?], che signoreggia per cagione ò di guadagno, ò di honore: che il fine sia tale lo dimostra Aristotile nel lib. 5. della Politica Cap. 2. dicendo Res autem pro quibus contenduu[s] sunt Lucrum, & honor, & quae his contraria, dedecus. enim & damuum vel ipsorum, vel amicorum fugientes seditiones in ciuitatibus agunt, et soggiunge nel terzo capito, o mostrando che l’auaritia, et la superbia di coloro, che gouernano è cagione di seditione dice. Superbia, et auaritia eorum, qui gubernant homines, prouocant contra se, et contra statum eius reipublicae. però gli huomini, iquali sono auari, et superbi, et desiderosi di honore benche ne sieno indegni, spesso spesso furono cagione; delle seditioni ne popoli, et al fine della ruina loro però non sara fuori di proposito se ne recheremo qui alcuno essempio, et i primi saranno de Romani; come de più potenti, et de più famosi. et diremo con Lucano, mostrando l’empietà loro, dice. Bella per Emathios plus quàm ciuilia campos, Iusque datum sceleri canimus, populumque potentem In sua victrici conuersum viscera dextra, Cognatasque acies, et rupto foedere regni Certum totis concussi viribus orbis, In commune nefas: infestisque obuia signis Signa pares aquilas, et pila, minantia pilis. Considerate per vostra fè quanta rabbia, et crudeltà era ne Romani: poiche quelle Aquile, le quali haueuano portato spauento à nimici, et a quei pili, ò aste, lequali furono nelle guerre contrarie, tinte nel sangue nimico, riuoltarono contra le medesime viscere, cioè contra i propri fratelli, et parenti, et quelle feroci destre, che infinite volte superato haueuano le, barbare forze, riuolsero per fare sperienza delle lor forze, ne suoi medesimi petti. Onde la P. 307 Republica Romana già formidabile à tutto il mondo, solamente per le seditioni perdè totalmente il caro nome della libertà, rimanendo sotto Ottauiano, il quale fece aperta professione di Tiranno; accetando il nome di Romano Imperatore, et lasciando successori nell’imperio. Ma veniamo à gli essempi. Tiberio Gracco, ilquale hauendo formata una legge, i ricchi non voleuano, che si confirmasse; ma i popolari voleuano, che la leggo hauesse suo luogo, alla fine, dopo molti preghi di Gracco fù confirmata: questa si chiama la legge Agraria fatta per diuidere le possessioni, onde i ricchi et potenti cominciorono palesamente à minacciare, et ad odiare Gracco. però egli accorgendosi del pericolo chiamò à se tutti i suoi amici, et pregaua ciascun, accioche gli prestasse fauore in tale contesa, essendo venuto il tempo che finiua il suo magistrato, et essendo nate molte contese fra Tribuni, era fuori di ogni buona speranza della sua vita. però ragunati dinotte tempo molti suoi amici prese il campidoglio, comandando à ciascuno, che bisognando usasser la forza ne gli armati, et lamentandosi de potenti, diede segno à suoi parteggiani: onde subito leuandosi gran rumore, si venne crudelmente all’armi, et gli amici di Gracco cacciarono del Senato i contrarii alla fine essendo spinti molti contra lui dopo molto spargimento di sangue, fù morto Gracco, della quale i suoi nimici hebbero inestimabile allegrezza. a costui seguitò Caio Gracco, ilquale volendo, confermare la legge Agraria, essendo stato creato tribuno, subito si mostrò contrario al senato, et fauoreuole alla plebe. à costui era fauoreuole Fuluio Flacco. questi due volendo fare una colonnia à Cartagine, fecero mandare dal senato in quel luogo sei mila persone Italiane: ma volendo disegnare il circuito della nuoua Città la notte i lupi guastarono il disegno, hauendo questo inteso il Senato, perche gli indouini stimauano tale augurio infelice, à loro prohibì il fare la nuoua colonnia. però Gracco, et Fuluio adirari diceuano, che il Senato mentiua, che i lupi hauessero guastati i termini allhora Attilio huomo populare lo pregaua, che non volesse usare crudeltà contra la patria, vedendolo con molti armati, ma esso in mezzo à preghi l’uccise. Questa uccisione solleuò il popolo, et surono [sic!] spianate le case di Gracco, et di Fuluio, et eglino con dannatià morte. la plebe insolente fece gran ruina; onde molti furono decapitati, alla fine il popolo si achetò, et il Senato, per dar fiene [fine] à tante discordie, fece il Tempio della concordia nella piazza. P. 308 seguitò poi la pericolosa guerra delle Città d’Italia contra i Romani chiamata la guerra Sociale, dalla quale infiniti danni, et uccisioni na,quero [nacquero] : questa partori la guerra de i serui ribellati da Padroni, la quale non fu men vergognosa, che dannosa. dopo questo surse la sedition di Sparta co [Spartaco] Gladiatore, costui solleuò contra Roma cinquanta, gladiatori, et inuitaua a combattere ciascuno, onde molti à lui si accostauano, pigliò il monte Vesuuio, et attendeua à predare i luoghi vicini, et molti huomini s’unirono seco. onde fece un’essercito di settanta mila persone. Il Senato Romano a vincerlo sudò più d’una volta, come dice Appiano Alessandrino. Subito estinto un tanto fuoco pululò una nuoua seditione, et nuoua guerra fra Mario, et Silla, i quali furono crudelissimi huomini, riuolgendo l’armi contra la patria, et distruggendo la libertà, et quei Cittadini Romani, che hauessero tenute dalla parte contraria però Lucano mostrando la sua gran crudeltà, et il molto macello de Cittadini Romani, dice di lui cosi. Intrepidus tanti sedit securus ab alto Spectator sceleris. miseri tot millia vulgo Non piguit vessisse mori: congesta recepit Omnia Tyrrhenus Syllana cadauera gurges In fluuium primi cecidere, in corpora summi Precipites hesene rates, & strage cruenta Interruptas aquis fluxit prior arenis in equor: Ad molem stetit unda sequens; nam sanguinis alti Vis sibi fecit iter, campumque effusa per omnem Praecipitque ruens Tyberina ad Flumina riuo Herentes adiuuit aquas; nec iam albeus amnem Nec retinent ripae, redditque cadauera campo Tandem Tirrhenas vix eluctatus in undas Sanguine ceruleum torrenti diuidit equor His ne salus rerum, felix his Sylla vocari His meruit tumulum medio sibi tollere campo. Fù oltre ad ogni credere seditioso Candiano Duce di Venetia, come dice Pietro Marcello con queste parole. Interim Candianus Petri filium sibi in collegam sumpsit, is non P. 309 multo post in tantam insolentiam prouectus est, utaliquot facinoros ad apertam in ciuitate seditionem concitauerit. Similmente seditioso come narra il sopra notato autore fù Marin Bocconio plebeo huomo audace desideroso di leuar la vita al Duce et a i patritii veneti dicendo. Marinus quidem Bocconium plebei ordinis huomo audax in principis caedam conspirauit is et optimatum. Dopo costui fù etiandio seditioso Baiamonte Tiepolo, come egli racconta nato di sangue nobile. Seditiosi furono senza dubbio Catulo, et Lepido. Lepido chiedeua, che fossero restituite le possessioni, che haueua tolto Silla à gli Italiani, et di questo contese molto con Catulo; onde temendo gli Senatori di seditione, fecero, che i contentiosi facessero un giuramento di non por mano all’armi. Et subito mandarono Lepido al gouerno della Francia, finito che hebbe il reggimento, venne verso Roma con tutto l’essercito, et volendo entrare li fu vietato et percioche, desideraua Castigare Catulo, et i suoi seguaci. ilquale li andò contro preparato à battaglia, et si affrontarono in campo Martio, et dopo molte uccisioni Lepido fù ucciso. Anchora Milone fù cagione di molte ruine, et uccisioni in Roma; costui haueua fatto ammazzare Clodio, et essendo andato in giudicio à difendere la sua causa disse, che Clodio era stato uomo sceleratissimo, et amico di scelerati, iquali non si haueuano vergognato ardere sopra il suo corpo i seggi, et alcune case de Senatori. Queste parole furono, come un ardente fuoco, che mentre in un campo di bionde biade; percioche à quelle parole infiammandosi i petti de Tribuni, armarono molto popolo, et corsero in piazza cercando Milone, et gli amici di Milone per ucciderli. ma poi non cercando più gli amici di Milone tagliauano à pezzi chiunque loro veniua innanzi fossero Cittadini, ò forestieri. Però fù Roma piena di confusione, et d’affanno. Et non lasciauano à dietro alcuna maniera di operatione maluaggia, alla per fine entrando nelle case le rubauano, et fingendo cercare gli amici di Milone, prendeuano ogni cosa, durò questo disordine alcuni giorni, essendo stato di ciò cagione solamente Milone, come afferma Appiano Alessandrino. Grande fù la congiura, et la seditione di Catilina, et poi la guerra, che fecer con Antonio. Saltò poi nel mezzo de Romani, oltre à molte altre seditioni di minor conto Caio Cesare, et Pompeo Magno, et riuoltarono l’armi micidiali l’un contra l’altro, anchor che P. 310 fosse Cesare suocero di Pompeo, et Pompeo genero di Cesare. onde Roma diuisa una parte teneua dalla parte di Cesare et da quella di Pompeo l’altra però se io volessi raccontare le ingiustissime uccisioni che furono fatte per cagione di questa seditione io haurei che fare tutto un giorno: dopo molte contese sanguinose restò vinto Pompeo et volendo scoprire Martino Turnouio Saganense il gran danno, che fece questa seditione, dice ne versi Eroici de Incarnatione Christi, hauendo mostrato che la Cometa sempre quando appare significa infortunio. Paulo post latios turbat discordia ciues Pompeii partes fouet hic & Cesaris alter E Clandestinis odiis certatur utrimque Donec flamma latens erumpit, & infima summis Miscet, & urbis vires in propria viscera vertit Nobilitate cum plebe perit, lateque vagatur Ensis dura, madent ciuili saxa cruore E sacer in templis mystes iugulatur ad aras Mactanturque senes, nulla sua prosuit etas Sic Romana grauem passa est Republica cladem. Et à benche vo che questo mi basti à mostrare piccola particella de gli infiniti danni, che questi due seditiosi fecero. Morto Pompeo; et dopo essendo ucciso Cesare in Senato per opera di Bruto, et di Cassio Cittadini Romani, Ottauiano figliuolo addottiuo dell’ predetto Cesare volendo vendicare la morte paterna seuerissimamente perseguitò con molte guerre gli ucciditori di Cesare alla perfine dopo molte discordie, et guerre ciuili surse lo scelerato imperio del triumuirato di Ottauiano, di Marco Antonio, et di Lepido liquali ruinarono a fatto la nobiltà Romana; per esser eglino tre, ognuno di loro mise ogni suo studio in ammazzare, od in fare con molta crudeltà ammazzare ogni suo nemico, non hanendo [hauendo] riguardo à fratelli, ne à gli altri congiunti: alhora Roma vide l’ultimo sterminio de suoi tanti possenti Senatori. Et non contenti di tor la lor vita voleuano le sostanze loro: onde il tutto era pianto. Satiati che il furore et l’ira furono delle uccisioni de Senatori voltarono poi contro à lor medesimi l’armi, con le quali i due priuarno Lepido dello tirannesco imperio, et rimasero soli P. 311 Ottauiano et Marco Antonio, ne guari andò cosi l’affare, che quasi venendo à discordia insieme, fù vinto Antonio da Ottauiano, cosi cominciò Roma già libera ad auezzarsi alla seruitù, della quale fu verace origine le molte seditioni, et furono i distrugimenti, che faceuano l’un dell’altro. Ditemi di gratia quali sono quegli Animali in terra, iquali sieno di una medesima spetie, che si uccidono insieme? perche, se bene il Leone si pasce di Animali: non si nutrisce però di Leone, ne il Lupo uccide il Lupo: ma l’huomo, à cui concesse Iddio parte della sua eccellenza negandola à tutti gli altri animali; uccide, diuora la vita, la libertà et i beni all’altro, ilquale è della medesima spetie, et spesso, quello, che è peggio, del medesimo sangue, et parentado. Ma ritorniamo al proposito nostro, et seguitiamo le seditioni, che furono fatte in Roma anzi la seditione di Tiberio Gracco, et dopo l’imperio di Ottauiano. Ne tutte intendo di raccontare, ma solamente una ò due, tanto ch’io mostri, che sempre i Romani furono crudeli non pure contra i nimici: ma etiandio contro à loro medesimi. Racconta Tito Liuio la seditione di Marco Manlio, che fu di assai tempo innanzi quella de Gracchi, costui solleuò, la plebe confortandola à procedere oontra [contra] i Patritii, accioche operasse, che mettessero fuori l’oro de Galli, et con animo tirannesco cercaua di occupare la libertà, sempre inanimandola all’armi, contra al senato; et benche hauesse in suo fauore tirato una parte della Plebe Romana: nondimeno fu dal Senato condennato alla morte, non però senza gran pericolo di alcuna gran ruina della Città. cosi al tempo, che Roma era diuenuta serua de soldati, et de tristi gladiatori dico de soldati, et gladiatori, percioche i soldati eleggeuano colui, che à loro piaceua per Imperatore, et di rado auenia, che scegliessero huomo nobile, et di buoni costumi ornato. ma quasi sempres [sic] lo eleggeuano, come dice il Poeta Ferrarese, dell’immonda et basa [sic] plebe, et era il Senato Romano per timore neccessitato à confirmarlo. allhore infinite seditione s’accesero: ma di una sola mi bastera raccontare. Scriue Herodiano, che al tempo di Commodo Imperatore in Roma fù una grande, anzi grandissima seditione, et fù cagione un certo nomato Cleandro Phrigiano, ilquale era di quella schiatta d’huomini, che sogliono comperare i beni altrui allo incanto, et essendo aleuato, et nutrito con Commodo peruenne in tanta gratia, et amore appo lui, che gli diede la guardia della P. 312 propria sua persona. et lo fece suo cameriero, et gouernatore de soldati, il quale essendo huomo ricchissimo pensò di occupar lo Imperio in questa guisa. comperò grandissima quantità di formento et lo teneua rinchiuso con isperanza, che mettendo il popolo, et l’essercito in bosognoso stato, egli con doni gli alletterebbe si, che ogn’uno spinto dal bisogno, et dal mancamento delle cose necessarie, à lui ricorrebbe, et cosi s’acquisterebbe la gratia, et l’ubbidienza dell’essercito, et del popolo, hauendo egli adunque ammassata una quantità grande di formento, nacque in Roma una carestia grande di biade. Et conoscendo il popolo, che il mancamentoo delle cose necessarie procedeua da Cleandro, l’odiaua et publicamente lo biasmaua: onde un giorno adirata, più del solito, gridaua la plebe, che le fosse dato Cleandro nelle mani, per darli secondo il merito la pena; questo hauendo Cleandro inteso, armato venne, oue era la moltetudine del popolo con la caualleria imperiale, et fieramente feriua, et percoteua la disarmata plebe insieme co caualieri. i quali non solamente feriuano: ma uccideuano, et calpestauano i corpi morti co loro caualli, si che con la furia loro cacciarono la plebe disarmata fino alle porte della Città, intanto coloro, che erano restati in Roma, intendendo la morte de suoi chiusero benissimo le porte delle case, et saliti sopra i tetti con sassi, et con tegole percoteuano la caualleria, la quale non combatteua volontieri con la moltitudine del popolo et i soldati, che guardauano la Città, hauendo in odio la caualleria aiutauano la plebe: però si fece de Romani una estrema uccisione. intanto à Commodo, che à diporto staua ne suoi ricchi giardini; venne, la nouella di tanta infelicità, portatagli da Fadilla sua sorella; hauendo egli ciò inteso, fece pigliare il seditioso Cleandro, et tagliarli il capo, et ponerlo su la punta di una asta con gran piacere del popolo, et accioche non rimanesse razza di lui, furono ammazzati due suoi figliuoli, et cosi fù dato fine à questa crudele guerra ciuile. Dice il medesimo autore, che Gallicano destò una guerra ciuile con danno della Città di Roma; perche voleua, che fossero creati Imperatori Balbino, et Massimo, però persuase il popolo, che rompesse gli armarii publici, oue si conseruauano le armi, più tosto per pompa, che per bisogno di combattere. et oltre questo aperse gli alberghi à i gladiatori, et menolli fuori guerniti d’arme, et fece torre ogni sorte di armi, che si trouauano nelle case et nelle botteghe P. 313 di Roma; il popolo furioso prese ogni maniera di bastone per arma et poi Gallicano si serro nel tempio con coloro, che eleggeuano lo Imperatore, ne dimorarono molto in campidoglio, che gridò Imperatori Balbino, et Massimo udito questo il popolo armato non si contentò, onde con sassi, et altre cose da offesa occupando le vie tutte dalle porte al campidoglio, et rifiutando ambo gli eletti Imperatori diceua, che voleua Imperatore della famiglia de Gordani, allhora forse per timore, che fosse stato creato un fanciullo di casa Gordiana huomini molto ricchi in quel tempo restarono in estrema miseria, et attaccato fuoco in molte case si consumò una gran parte della Città. Infinite sono le seditioni, ch’io potrei addure de Romani, ma queste che ho dette, vo che bastino: però veniamo à gli essempi d’altre genti. Racconta Tito Liuio nel libro I. de la quinta Deca. che gli Etoli per varie discordie, et seditioni si ammazzauano fra loro, et pareua che quella rabbiosa natione non si riparando si hauesse à condurre in estrema ruiua [ruina], alla fine stanchi dall’una, et dall’altra parte, per moltissime uccisioni si voleuano pacificare: però mandarono à Roma ambasciatori; ma non poterono fare questo accordo, ò pace; percioche fu interrotta da una crudele sceleratezza che è tale. Essendo stato promesso all’Esuli d’Hipata la fede, et la sicurezza dal principe della Città nomato, Eupolemo, costoro erano ottanta huomini nobilissimi, iquali andò ad incontrare il principe, et molti della Città, et furono riceuuti amicheuolmente con toccarsi la mano, et con salutationi: ma entrati che furono dentro tagliarono à pezi, i miseri, chimando in testimonio i Dei et la data fede. ni questo. fu fatto da i capi delle parte degli Etoli, onde piu che mai auamparono l’ira, et gli incendii di nouelle seditioni, et guerre: però fù necessario, che il Senato mandasse alcuni Consoli Romani, per porli d’accordo; ma ritornarono alla patria, dicendo non si potere estinguere punto la crudele ira, et aspra rabbia di quella seditiosa natione. Seditioso, et crudele fù Altobello, come afferma Fra Leandro Alberti bolognese nella descrittione d’Italia, dicendo. Altobello fù tanto seditioso, et crudele. che apportò la total ruina à Todi, ilquale non solamente era tale contra i forestieri: ma anchora contra i suoi propri costumi, uccidendo i Cittadini della parte contraria, abbrucciaua loro le ville, e spianaua i superbi palazzi fino da fondamenti, et faceua molte altre crudeltà di simil maniera; alla per fine hauendo ottenuto vittoria P. 314 de suoi contrari Cittadini, fece grandissimo macello di loro, ne essendo questo Lestrigone di tanto sangue sparso salollo [satollo] cominciò à trascurare qual fulmine per gli vicini luoghi, ponendo il tutto à ferro, et à fuoco. Era accompagnato da trecento huomini sanguinolenti, et bestiali, come lui, onde non v’era parte, che dal loro furore inintatta [sic?] rimanesse, hauendo questo inteso il Borgia, vi mandò contra Vittellozzo da Castello, eccellente capitano, con buone bande d’armati. Costui costrinse Altobello à fuggire in un’ Castello non molto di lungi da Todi, stimandosi sicuro si nascose in casa di una pouera vedoua: ma Dio, che rade volte lascia impuniti si maluagi huomini, fece ritrouarlo à i suoi persecutori, et da loro fù spogliato ignndo [ignudo]; et legato sopra una tauola, fù posto in mezzo la piazza di Todi, accioche ognuno, che si chiamaua da lui offeso, ne facesse secondo il suo desiderio vendetta. Allhora si videro in un punto le orbate Madri, et i dolenti Padri, à quali lo scelerato haueua ucciso con le sue seditioni i figliuoli, affaticarsi di far vendetta delle lor morti, facendone ogni stratio. Ne lontano rimasero le misere vedoue, le sconsolate figliuole et le mestre sorelle, ma tutte quasi à gara la si vendicauano de Padri, de fratelli, et de mariti uccisi. Et anchora gli huomini (di natura assai più acerbi delle Donne) con mille tormenti, et pene vendicauano li ammazzamenti, et gli oltraggi fatti à loro da lui, et sfogauano la giusta ira loro: onde non rimase alcun genere di tormento, che il misero corpo di Altobello non prouasse. morto che fù, tagliarono il corpo in pezzi, come si fa della carne delle bestie, et vendeuasi à peso à chi ne voleua. così fù venduta, comprata, et mangiata la carne di questo ribaldo, et seditioso, non so se mi debba dire huomo, ò bestia, le quali cose furono premio della sua pietade, et mansuetudine. grande senza dubbio furo le seditioni tra Guelfo, Ghibellino fratelli, le quali raccontare non voglio. Questi nomi, come dice il Tarcagnota, passorno in Toscana, et in un tratto per tutta Italia; onde non solamente le cittadi erano piene di guerra ciuile, ma le case anchora, diuentando nemici i figliuoli de Padri, i fratelli de fratelli: ne bastaua loro uccidersi, et spargere il lor sangue, ma colmi d’impietà abbrucciauano le case, ò le gittuano à terra. Et per mostrare l’odio, et la nimicitia grande, faceuano differenza nel vestire, ne colori, et in tutte le loro attioni, fino nel mangiare, nel caminare, et nel ragionare eran differenti. Questa fù una pestilenza, che P. 315 uccise i migliori Cittadini d’Italia. Seditioso fù Cesare Borgia, come Scriue Paulo Giouio nell’ottauo lib. delle Historie del suo tempo in modo tale. Doue innanzi ogn’altra cosa deliberò di leuar via i baroni Romani Collonesi, et Orsini, nutricando fra loro una continua nimista, et discordia, alla perfine accorgendosi i baroni delle fraudi del Borgia fecero dopo molti, anzi infiniti danni, pace, lasciando al Borgia molte terre. Scriue il medesimo autore ne gli Elogii de gli huomini illustri, che Uguccion della Fuggiuola fu huomo seditioso. prese l’armi in fauor di Ghibellini contra la nemica parte, et fece molte uccisioni, abbruciamenti di ville, ruine di case, mostrandosi terribile, et spauenteuole. costui con l’aiuto de Pisani, de quali era signore assalì i Luchesi, et aiutato da i suoi partiali prese Lucca: onde tutta la città fù piena di uccisioni, di pianti, et di spauenti. scacciò i Guelfi, et i Ghibellin, che n’erano stati cacciati, rimise nella patria. cosi cacciando hora, et hora essendo cacciati si distruggeuano insieme. Fu etiandio un famoso destatore di guerre ciuili Farinata de gli Uberti; onde tutta la vita consumò in uccidere i Guelfi, difendendo i Ghibellini. nel suo tempo si combatteua con smisurata ira, et rabbia per tutte le parti della Città di Firenze, et furono abbrucciate, et spianate molte ville, et nobili palazzi. Al fine egli fù dalla Patria cacciato, et arsi i suoi grandi edifici, et le ville che erano sue. Scriue l’Acominato ne gli Annali de gli Imperatori di Costantinopoli, nella vita di Costante, che Valentiniano Patricio fu huomo seditioso; ma l’Imperatore, come intese, ch’egli haueua in se vitio si dannoso alla Città, anchor che l’amasse, lo fece ammazzare. Et afferma il medesimo autore nella vita di Alessio, che Giouanni Comneno era huomo seditioso, et auido d’Imperio. Costui entrò nel tempio, et prese una di quelle corone, che pendeuano sopra la sacra mensa, et se la pose in capo. Allhora fu dal popolo, che solleuato haueua, condotto nel gran palazzo et posto à sedere in una dorata sedia. egli cominciò à distribuire gli ufficii dell’Imperio, et intanto una parte de gli huomini suoi amici gridauano per la Città viua l’Imperatore Giouanni, andauano ruinando le grandi fabriche, et faceuano molte altre inconuenienze venuta sera desiderauano la matina per saccheggiare le case de ricchi gentilhuomini: ma restarono ingannati i pouerelli; perche l’Imperatore Alessio mandò ad uccidere Giouanni, et molti suou Cagnotti nel palazzo. Et cosi P. 316 per le sue seditioni li fù tolta la vita, et il corpo suo fù grttato [gittato] à gli uccelli, et à cani, iquali hebbero molti giorni da mangiare essendo egli molto grasso. Grandi, anzi grandissime furono le guerre ciuili fatte da Bianchi, et da Neri. Il principio delle quali nacque, come afferma il Tarcagnota, per questa cagione. Erano in Pistoia due Giouani della nobile famiglia de Cancellieri, iquali vennero à discordia, et à rumore insieme, come sogliono far souente gli huomini maldicenti, et chiacchieroni, uno di loro hebbe dall’altro un picciola ferita. Il Padre di quello, che non fù offeso, fece, che il figliuolo andasse à domandar perdono al compagno ferito. Come fù giunto alla casa di lui, il Padre dell’offeso lo fece pigliare da suoi seruitori, et tagliarli una mano sopra una mangiatoia di cauallo; onde queste due famiglie solleuarono tutto il popolo, et facendo crudelissime zuffe insieme, tutto il giorno si ammazzauano, et faceuano fiumi di sangue dall’una, et dall’altra parte. Et perche uno di questi due Cauallieri hauea hauuta una moglie nomata Bianca la sua fattione bianca, si chiamò l’altra per essere contraria, uera [nera] si faceua appellare: questo fuoco passò in Firenze, in cui infinite uccisioni, et danni si fecero. Seditioso etiandio fu Agillano, che solamente perche li parue di vedere Rinaldo in segno, che l’essortaua ad uccidere Goffredo, et à placare lo suo adirato spirto tutto pieno di furore si leuò dalle piume, et congregò insieme i Cauallieri, Italiani, come dice Torquato Tasso nel canto ottauo stanza.63. ragionando di lui. 
Si rompe il sonno: e sbigottito ei gira Gli occhi gonfi di rabbia e di veneno; Et armato ch’egli è, con importuna Fretta, i guerrier d’Italia insieme aduna. Et facendo un lungo ragionamento mostrò à loro, che Goffredo haueua à tradimento uccise Rinaldo, et dopo molto hauere solleuati gli animi loro inanimandoli alla guerra contra il Capitano, dice nella stanza. 72. Io, io vorrei s’al vostro alto valore Quant’egli può, tanto volere osasse: Ch’hoggi, per questa man ne l’empio core P. 317 Nido di tradigion, la pena entrasse. Cosi parla agitato, e nel furore, E ne l’empito suo ciascuno ei trasse. Arme Arme freme il forsennato; e’nsieme La giouentù feroce arme arme freme Et già i popoli bellicosi accesi dal suo medesimo ardore di ira et odio contra Goffredo pigliauano precipitosi i noceuoli ferri, et suonauanole trombe, gridando al Capitano Buglione, che si armasse per combattere con loro, come si legge nella stanza.76. Corrono già precipitosi à l’armi Confusamente i popoli feroci: E già s’odon cantar bellici carmi Seditiose trombe in fere voci: Gridano intanto al pio Buglion, che s’armi, Molti di quà di là nuntii veloci. Ma alle parole, et alla presenza di Goffredo restò Argillano attonito, et si lasciò incarcerare: onde da questo si può conoscere che gli huomini senza sapere la verità delle cose; ma cosi alla cieca oprano cose ingiuste. sia à bastanza da noi raccontato delle seditioni; perche se io volessi narrare quelle, che furono fatte, non di cotra nationi straniere, e separate dall’Italia. ma nella Italia istessa io starei gli anni, percioche quanti illustri huomini in Brescia, in Verona, in Vicenza, et nelle città principali d’Italia furono uccisi, per le seditioni, tolti i beni, et le famiglie intiere andate in obliuione. però si può dire, che gli huomini sieno veraci cagioni d’ogni sorte contraria. Di quanti fiumi, non dirò di pianto, ma di sangue sieno state cagioni le seditioni, ciascun da per se lo potrà considerare, oltre le infinite calamità, pouertà, et miseria da loro procedute. P. 318 De gli huomini Ignoranti, & goffi, Cap. XXXIIII [Ignoranza, che cosa sia.] È l’ignoranza una priuatione delle scienze, come dice Aristo. nel libro 6. della Topica Cap. 16. con tali parole. Ignorantia est priuatio scientiarum in his, quae nata sunt apta fieri. Et Platone mostra nel nono libro della Republica, ch’ella è una priuatione d’ogni virtù morale, dicendo, Ignorantia est bonorum habituum vacuitas. Però io non credo, che si possa ritrouar peggio dell’huomo ignorante; essendo priuo d’ogni scientia, et d’ogni buon costume, questi tali non sanno, et non conoscono più lungi di quanto hanno lunga l’ombra del naso, amano l’otio, come loro carissimo amico, et l’Ariosto lo mostra in quel verso dicendo. E l’otio lungo d’huomini ignoranti Onde se per disauentura questi perdigiornate sono condotti fra virtuose compagnie, non fanno altro, che sbadagliare, per rincresimento, ò grattarsi il capo; ò cauar le forbici polirsi le ugne: onde riescono tanti buoi, non sapendo ragionare di alcuna cosa, et tacendo pare che habbiano veduto il lupo, tacciono con arte; perche sanno bene, che se snodassero parola darebbono da ridere alla virtuosa ragunanza. gli studi di questi Bufali sono le lasciuie, gli ubbriacamenti, le auaritie, le maldicenze, le carte, i dadi et il sonno: onde potremo ben con ragione dire quei due versi di quel buon Poeta. Le carti i dadi, il sonno, il letto, e Bacco, Son d’huomini ignoranti honori, et studi. Et non hauendo buoni costumi, ne alcuna ciuiltà paiono à gli huomini costumati, et virtuosi, che sieno stati alleuati fra gli Asini, et nutriti fra porci ma essi non si auedono delle loro imperfettioni, anzi vogliono sedere sopra i dotti, et molti di loro dicono che vagliono tante lettere, che guadagno si ha da loro, io vorrei P. 319 più tosto essere un birro, che uno di questi dotti, pur che io hauessi buon guadagno, veggio per il piu costoro, che fanno professione de litterati andare alla porta del riccho à guadagnarsi il pane con le loro mendiche virtudi, et sempre hanno in bocca questo, verso del Petrarca. Pouera, e nuda vai filosofia, et non sà questa turba solo riuolta al vil guadagno, che differenza sia fra un dotto et uno ignorante. io voglio che Platone di questo ne sia giudice percioche essendogli dimandato da alcuni, se fra dotto, et ignorante v’era differenza alcuna, egli rispose. Tanta, quanta è fra il sano, et l’infermo per non dire fra il viuo, e il morto, et Agostin Sessa dice il medesimo nel primo ragionamento della filosofia morale et se alcuno huomo honorato dicesse ad uno di i costoro affaticati, studia che diuerrai un virtuoso, et degno di ammiratione, subito li risponderà co versi del Lasca in questo modo ridendo. Cancaro vegna à l’arti liberali Che spesso son cagioni altrui di fare Patir mille tormenti, e mille mali. Anchor che si conosca, che quanto ho detto, è vero; tuttauia non voglio restare di addure alcuni pochi essempi. il primo sarà Licinio Imperatore, il quale merita certo la preminenza più d’ogni altro: poi che fù tale, che non sapeua sotto scriversi ne decreti, et tanto odio portaua alle lettere, che le chiamaua publica pestilenza. Che diremo noi di Valentino? ilquale abbrucciò tutte le librarie, et haueua le lettere in tanto odio, che diceua. che la filosofia è una vanità, et una publica peste, et maleditione. Scriue Celio, che Heraclide Licio era inettissimo, et ignorantissimo nelle lettere; dice il Tarcagnota nelle sue Historie del mondo, che Domitiano Imperatore diede di Roma, et di tutta Italia bando à tutti i filosofi, et sapienti huomini, che erano al suo tempo. da questo atto potete considerare, che doueua essere un bel dotto, et un grande amatore delle lettere: Ignoranti si mostrarono gli Ateniesi, quando procacciarono la morte à Socrate Padre, et vero amante della filosofia: Cosi i Romani nel tempo, che scacciarono tutti i filosofanti di Roma. Il Re Antioco ne fù tanto nemico, che fece un comandamento, che non imparasse alcuno filosofia. Ma doue rimane Nerone? il quale non potremo dir già che non fosse un buono, et P. 320 perfetto ignorante, hauendo fatto uccidere Seneca, huomo prudentissimo et Lucano poeta senza cagione alcuna. Doue Eliogaballo? ilquale scacciò di Roma mandando in lontano essilio gli huomini virtuosi, et letterati. Doue Filonide? Che fù tanto imperito nelle dottrine che passò in prouerbio: onde si diceua indoctior Filonide. costui illustrò con la sua ignoranza Mitilene. Riferisce Batista Egnatio, che Britonìone era cosi delle lettere inesperto, che non sapeua l’A.B.C. Scriue Filostrato, che il figliuolo di Herode Attico fù tanto amico delle lettere. che non fu possibile ne con preghi, ne con minaccie, che potesse apprender le prime, et fanciullesche lettere; anchor che fosse in età perfetta. Si legge nel decimo libro delle Historie del mondo descritte dal Tarcagnota, che Carlo figliuolo di Baldo fù di si duro, et rozo intelletto, che non potè, et meno volle sapere le cose degli studi, et non amò i dotti, anzi li odiaua: onde per la sua molta ignoranza, et grossolani costumi fù cognominato Carlo semplice. Ma doue lascio Caramandro? il quale si può conoscere da questo suo atto quanto ignorante fosse, et sprezzatore de litterati; percioche essendoli venuto nelle mani Platone Filosofo nobilissimo, non l’apprezzò punto; ma si come colui, che era priuo di ogni buona parte: fece mettere il misero Platone, cosa vergognosa, all’incanto, che fu comprato da Arieto per venti mine, ò come altri dicono per trenta. Ne voglio, che resti sepolto nell’immenso grembo dell’oblio, Filadelfo Poeta, il quale era huomo ignorantissimo; benche fosse poeta, et tanto lordo, et sporco ne vestimenti, et nel corpo, che i Cittadini della sua Patria lo chiamauano con un nome, ch’io voglio tacere; percioche tengo anchor io da Poeti, essendo già in cotal numero entrata, ma ritorniamo al proposito, à costui piaceua godere, et trionfare, ne far fatica intorno agli studi come egli stesso mostra in una Satira scritta ad un suo amico, il quale lo haueua pregato, che andasse à Bologna, à farsi adorare di Filosofia. Et fra molte cose, che dice in biasmo delle scienza si leggono questi versi. Voi mi pregate, ch’io vadi à imparare Filosofia, vi dico che tai studi Sol per mio amor si vadino à impiccare Ch’à me piacion quegli huomin grasi, e nudi D’ogni scienza, à cui mai non accade P. 321 Che l’huom per dare à lor risposta sudi. Vi giuro amico, se qui le contrade Fossero piene di cotai persone Non andrei per udirli in veritade, Queste dottrine, che chiamate buone Sen vadino in malhora, e sete tutti Democrito, Aristotile, e Platone. A me piace il buon vin, cassio, et persutti, Grasse Quaglie, fagiani, e buon capponi, Le carte, e’i dadi, e’l star lungi da tutti. A me pare, che costui fosse un galanthuomo volendo viuere senza trauaglio, et affanni. Ne fia che rimagna fuori di questa honorata compagnia il Re di Lidia, del quale racconta la sua propria figliuola ad Astolfo queste parole, come dice l’Ariosto nel canto trentesimo quarto. E’l padre mio troppo al guadagno dato Fà l’auaritie d’ogni vitio scola Tanto apprezza costui, e virtù ammira Quanto l’asino fa il suon de la lira. Onde si può dire. Sicut se habet Asinus ad liram, sic ignorans ad scientias. De gli Adulatori. Cap. XXXV. È chimato [chiamato] da Aristotile adulatore colui, il quale pone ogni studio per piacere ad altrui per fine di proprio utile, et interesse questo si legge nel libro quarto dell’Ethica capitolo 13. Et costoro per ottenere il desiato fine se ne stanno humili, et queti à guisa di poueri serui, come dice il medesimo al capitolo 10. con tali parole Omnes adulatores sunt humiles, & seruiles. Et per consequenza sono numerati questi tali da ogn’uno fra le genti volgari, et minute, et à ragione non essendo P. 322 proprio dell’huomo magnanimo il seruire, et l’humiliarsi per fine di guadagno, ò di mendicato honore: ma sono in tutto, e per tutto di animo basso, et seruile coloro, i quali condescendono alle opinioni false di coloro, i quali da essi adulati sono: benche tengano nel cuore il contrario. Et non solamente lodano ogni opinione de Prencipi, ò di altro; anchor che sciocca: ma inalzano anchora ogni operatione di quelli, et le ammirano, come cose uniche, et singolari al mondo. Et è cosa di stupore l’udire questi adulatori, che quando scoprono la defformità di un mal composto volto, giurano che quello è bellissimo, et che à suoi giorni non han veduto uno tale, et cosi se odono alcuno à fare un ragionamento benche sciocco et semplice, subito dicono, che se Cicerone hauesse ragionato, non l’haurebbe fatto con tanta maestà di parole, et grauità di concetti. Se vedono un collo sottile, l’agguagliano à quello di Ercole, che tenne Anteo sospeso nell’aria. che piu? se tu ridi l’adulatore alzando la voce scoppia delle risa, se piangi. piange di te più dirottamente, se dici io mi sento un poco di freddo egli si veste per mostrare, che dici il vero: con pelli di Volpe, se dici ho caldo. subito tirando fuori il moccichino si comincia asciugare il volto, dicendo ò che caldo ardentissimo, io sono tutto in sudore. onde Iuuenale ragionando di questi huomini falsi et fallaci dice nella Satira. 3. Quid quod adulandi gens prudentissima laudat Sermonem indocti, faciem deformis amici, Et longum inualidi collum, ceruicibus aequat Herculis Antaeum procul à tellure tenentis. Miratur vocem angustam: qua deterius nec Ille sonat, quo mordetur gallino marito. Natio Comaeda est, rides? maiore cachino Concutitur, flet si lachrimas aspexit amici, Nec dolet, igniculum brumae si tempore poscas Accipit endromydem: si dixeris aestuo, sudat. Di questi pessimi huomini, iquai fingono di amarti per acquistare la tua beniuolenza, sono piene le misere corti, come scriue il Caualier Guarini nel suo Pastorfido, introducendo à ragionare Carino. P. 323 Gente di nome, e di parlar cortese Ma d’opre scarsa, e di pietà nemica Gente placida in vista, et mansueta: Ma piu del cupo mar cupida, e fera. Gente sol d’apparenza in cui se miri Viso di carità mente d’inuidia Poi troui, e in dritto sguardo animo bieco E minor fede alhor che più lusinga: L’ingannare, il mentir, la frode, il furto, E la rapina di pietà vestita Crescer col danno, e precipitio altrui, E far à se de l’altrui biasmo honore Son le virtù di quella gente infida. Et il Tasso finge, che Mopso dica queste parole à Carino: accioche si guardi da i falsi, et adulatori Cortigiani nell’Aminta: --andrai nella gran terra Oue gli astuti, e Scaltri Cittadini E i cortigian maluagi molte volte Prendonsi à gabbo, e fanno brutti schermi Di noi rustici incauti. però figlio Va su l’auuiso, e non t’appressar troppo Oue sian drappi colorati, e d’oro, E pennacchi, e diuise, e foggie noue: Ma sopra tutto guarda, che mal Fato O’giouenil vaghezza non ti menti Al magazino de le ciancie, ah fuggi, Fuggi quello incantato alloggiamento. E più sotto volendo mostrare, che fanno parere le cose quel che non sono, dice. Ciò che diamante sembra, & oro fino E vetro, e rame, e quelle arche d’argento Che stimaresti piene di thesoro, Sporte son piene di vesiche bugie. Però bisogna guardarsi da gli huomini adulatori, come si P. 324 guardiamo da nimici. Onde Stefano Guazzo dice, che colui, che ascolta volentieri l’adulatore, è simile alla pecora, che da il latte al lupo. Et l’Ariosto ragionando de gli adulatori Cortegiani disse. Et son chiamati cortigian gentili Perche sanno imitar l’asino, e’l ciacco. Ma è tempo che veniamo à gli essempi. Grande adulatore fù Nicesia; percioche vedendo una mosca, che volando si posaua sopra la fronte, et sopra le mani Alessandro, disse adulando, ò quanto sono più fortunate, et felici queste mosche dell’altre, poi che hanno dal Cielo gratia di gustare il tuo sangue regio. Costoro sono chiamati di alcun i buffoni, le simie de Signori. Adulatore fù Timagora, il quale per mostrar à Dario, che non era huomo: ma Dio ingenocchiandosi in terra l’adorò. Si legge di uno chiamato Anselmo, il quale adulando Sigismondo Imperatore riceuette da lui una guanciata. Onde li domandò per qual cagione lo percotesse, et egli rispose; perche mi mordi? Demagora doue rimane? Il quale essendo un perfetto adulatore chiamò Alessandro Dio: onde gli Atheniesi, i quali odiauano cotal vitio, lo condannorno à pagare dieci talenti d’argento: et essendo poi in una perigliosa guerra Alessandro ferito da nimici conobbe la falsità di questi Numi: onde pieno d’ira contra loro disse Omnes adulatores iurant me esse filium Iouis: sed vulnu istud me esse hominem clamat. Però misero colui, che porge orecchio à coloro: adulatore fù Demarao, il quale non ragionaua mai senza parole adulatrici: percioche se vedeua alcuno, ilquale fosse uscito, per cosi dire, dalla immonda feccia del volgo, mostraua con parole lusinghiere che era di nobile, et antica famiglia. Ma essendo io satia di ragionare di costoro, et essendo poca differenza fra il simulatore, et et [sic!] l’adulatore, che l’un finge, et l’altro fingendo alletta con le sue fole addurrò l’essempio di uno, ò due. Scriue Plutarco, che Filippo fù falso, et simulatore dicendo Dunque essendo Filippo fauorito dalla fortuna, et perciò salito in superbia si diede à volere satiare le sue dishoneste voglie; percioche à i suoi vitii, essendo gia rotte P. 325 quelle coperte di simulatione, et di falsità cominciarono à fare di loro mostruoso spettacolo. senza dubbio fu eccellente nell’arte del simulatore Andronico Comneno, come racconta l’Acominato nella vita d’Alessio Imperatore, dicendo con le sue astutie, et artifitio di fingere tutti coloro, che li veniuano incontro tirandoli da parte, li pregaua, che operassero, ch’ei fosse Imperatore, et qual sarebbe stato quello, benche fosse di sasso, ilquale non si fosse mosso dalle sue finte lagrime, et parole mostrando essere spinto à chiedere questo per salute, et benefitio del popolo, et non per proprio interesse. Scriuono alcuni Historici, che Seuero Settimo Imperatore era il più perito huomo nella arte del simulare, che al mondo fosse mai: haueua nella lingua quello, non haueua nel cuore. dalla cui fintione, et falsita ogn’uno si trouaua schernito. Scriue Appiano Alessandrino, che Milone era un perfetto huomo nel simulare. Et il Tasso racconta di Mopso questo, mostrando quanto fallace fosse introducendo à parlar Titiro. Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso, C’ha ne la lingua melate parole, E ne le labra uno amicheuol ghigno, E la fraude nel seno, et il rasoio Tien sotto il manto? Et anchora nel Goffredo finge Alete messo del Re d’Egitto essere eccellente nel simulare, come si legge nel Canto. 2. stanza. 58. in modo tale. Alete è l’un, che da principio indegno Tra le brutture della plebe è sorto: Ma l’inalzato à i primi honor del regno Parlar fecondo, e lusinghiero, e scorto; Piegheuoli costumi, e vario ingegno: Al finger pronto, à l’ingannare accorto; Gran fabro di calunnie, adorne in modi Noui, che sono accuse, e paion lodi. Però non si può trouar peggio del simulatore, et dell’adulatori, i quali sono chiamati bestie domestiche. onde l’adulatore P. 326 fingendo con dolcissime parole, et false lodi ti fa credere, che tu sii quello, che veramente non sei. onde il Caporali chiama le parole di costoro saette venenose dicendo. Ha de l’adulatore, ilqual ti Scocca Nel cuor le sue saette venenose Quanto più ti lusingha con la bocca. Il fine di questa seconda Impressione.