Discorso della virtù feminile e donnesca

by Torquato Tasso

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Title: Discorso della virtù feminile e donnesca
Author: Tasso, Torquato (1544–1595)
Date of publication: 1582
Edition transcribed: (Venice: Bernardo Giunti e fratelli, 1582)
Source of edition: Google Books. < https://books.google.ca/books?id=hFxTAAAAcAAJ&pg=PA7-IA2&dq=tasso+Discorso+della+virt%C3%B9+femminile+e+donnesca+1582&hl=en&sa=X&ved=0ahUKEwjq6IvRlI3QAhUIxoMKHcmlBQQQ6AEIIDAA#v=onepage&q&f=false >
Transcribed by: Tanya Ludovico, Stefania Gaudrault Valente, and Martina Orlandi, McGill University
Transcription conventions: Page numbers have been supplied by transcriber
Status: Completed and corrected, version 1.0, July 2017.

Produced as part of Equality and superiority in Renaissance and Early Modern pro-woman treatises, a project funded by the Social Sciences and Humanities Research Council of Canada.

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P. 2R

SERENESSIMA MADAMA. Sogliono le belle donne con vaghezza rimirare ò statua, ò pittura, oue alcuna somiglianza lor si vede espressa: e le giouani particolarmente di vagheggiarsi nello specchio, e di vedere iui ogni loro similitudine ritratta, hanno vaghezza: ma Vostra Altezza, tutto che bellissima sia di corpo, né ancora si attempata, che non potesse ò altrui piacere ò di se stessa compiacersi molto, nondimeno né di suo ritratto, né di specchio è tanto vaga, quanto di veder se stessa rinata, e ringiouinita ne’ suoi bellissimi figliuoli, de’ quali il Prencipe è tale, che ben di lui si può cantare quel verso oratiano;

quo calet iuuentus
Nunc omnis et mox virgines tepebunt;

ò più tosto quel di Virgilio:

Gratior et pulchro veniens in corpore virtus.

E la Duchessa di Ferrara è si fatta, che tutto che sia venuta in una casa da cui bellissime Signore sono uscite, e bellissime ci son maritate: nondimeno agguaglia con la sua bellezza non solo le quattro bellissime Signore, ch’ora in questa Casa risplendono, ma la fama, e la memoria ancora di tutte l’antiche, la virtù delle quali così bene adegua, che non può Alfonso anuidiar felicità di moglie ad alcun suo antecessore.
Ma perche Vostra Altezza Serenissima non è solamente quella forma esteriore che discorre, e che opera, e che rivolge a Dio, come ad oggetto, ogni

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sua operatione ò contemplatione, altri ritratti più proprii suoi, che non sono i figliuoli, potrebbe desiderar di vedere, e nello specchio dell’anima esser vaga di vagheggiarsi; e perche si come l’occhio non può in sé ritorcere la potenza visiua in modo, che veda se stessa, così l’anima difficilmente intende se medesima, e malageuolmente gli occhi dell’intelletto possono in se medesimi riuolgersi. Credo, che talhora cerchi Vostra Altezza alcun ritratto, e specchio dell’anima sua; e quando rapita da zelo di contemplatione vede gli Angeli, e fauella con loro, di vedere alcuna somiglianza di se stessa è solita: ma non per ciò iui ogni similitudine dell’anima sua vede espressa, perche ella per l’unione, c’hà co’l corpo, di molte più potenze è composta, per il mezo delle quali a lui è congiunta. Oltre che la nostra umanità, non sostiene che gli occhi della nostra mente lungamente s’affissano al Sole dell’eterna verità, ond’è necessario taluolta nelle altre cose riuoltargli, e quasi christallo la loro potenza visiua ristorare. Ho pensato dunque, che s’io offerirò a Vostra Altezza un breue discorso della virtù umana feminile, ò delle varie opinioni ch’intorno ad essa hanno auuti gli huomini eccellenti, gli offerirò quasi specchio ò ritratto in cui alcuna parte della sua interior bellezza potrà rimirare: dico alcuna parte, perche mia intenzione non è formar la perfetta idea della Reina in quella guisa che del re formò Xenofonte, ma più tosto soura l’altrui opinioni filosofare; paucis nondimeno, come piacque a Neottolomeo, e la mia propria sentenza in mezzo recare: ma qualunque sia questa mia fatica, merita la mia affezione: e richiede la sua cortesia, che da lei sia gradita: fu famosa sentenza di Tucidide, Serenissima Signora, che quella Donna maggior laude meritasse, la cui laude, e la cui fama tra le mura della casa priuata fosser contenute; la qual sentenza addotta da Plutarco nell’operetta, che egli scrisse delle Donne

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illustri, iui è da lui rifiutata; e l’uno, e l’altro famosissimo scrittore sovra l’autorità di più stimato scrittore può la sua autorità appoggiare, perche a Tucidide Aristotele è fauoreuole, a Plutarco a Platone. crede Platone, che l’istessa virtù sia quella della Donna, e quella dell’huomo, e che s’alcuna differenza è in loro, sia introdotta dall’uso, e non dalla natura; e ne’ libri ciuili vuol che le donne sian partecipi della Republica, e de gli uffici militari non meno, che gli huomini: e dice che si come la natura produce ambe le mani atte a tutte le operazioni e l’usanza poi introduce in loro questa differenza di destro, e di sinistro; perciò che quella che s’adopra di continuo par che s’adoperi, e s’addestri nelle operationi, e destra è nominata, ma l’altra che non è operata per incitatione diuiene inabil a l’operare; così parimente produce l’huomo e la donna atti a tutti gli uffici ciuili e militari, ma l’huomo esercitandosi, e la donna standosi in otio, auiene che l’uno quasi destro, e l’altro quasi sinistro siano nelle operationi; il qual’esempio trasse egli per auentura dalla dottrina de’ Pitagorici, i quali diuidono in due ordini i mali e i beni, ponendo nell’ordine de’ beni il destro, il maschio, e’l finito, e nell’ordine de’ mali il sinistro, la femina, e l’infinito. Conclude nondimeno Platone, che si come quello è perfetto corpo, & a tutte l’operationi attissimo, il qual può non men bene la sinistra, che la destra operare; così perfetta è quella Republica, che non meno, delle donne che degli huomini può valersi. Questa fu l’opinione di Platone: ma Aristotele molto diuersamente giudicò perche egli vuole, che il destro, e il sinistro sian differenze poste non sol dall’uso, ma dalla natura non sol ne gl’huomini, ma nel mondo, che destra è quella parte, della quale hà principio il mouimento; onde quasi contra la natura si prende per cattiuo augurio quando il moto comincia dalla sinistra.

il manco piede
giouinetto posi io nel costui regno.

P. 3V
dice il Petrarca. ma la parte sinistra è atta alla resistenza, & alla sofferenza, e per questo sù la spalla sinistra si sogliono i pesi sostenere, e tutta questa diuersità procede dalla temperatura del corpo: & auendo la natura prodotto l’huomo, e la donna di molto differente temperatura, e complessione, si può credere, che non sian’ atti ne’ medesimi uffici. ma l’huomo come più robusto, ad alcuni è disposto, e la donna come più delicata ad alcuni altri: onde nel principio della Politica contra Platone conchiude Aristotele, che la virtù dell’huomo, e della femina non sian la medesima; perciò che la virtù dell’huomo sarà la fortezza, e la liberalità, e la virtù della donna la pudicitia; e come piacque a Gorgia, così il silentio è virtù della donna, come l’eloquenza dell’huomo. Onde gentilmente disse il Petrarca;

In silentio parole accorte e saggie.

La parsimonia ancora è virtù della donna, ma chiederebbe alcuno ond’auuiene che ne’ libri morali, oue delle virtù parla esquisitamente Aristotele, non pone alcuna distintione fra la virtù de gli huomini, e quella della femina, e la pone poi ne’ libri Politici, oue la consideratione delle virtù è men propria? a questo si può rispondere, che ne’ libri morali considera le virtù in uniuersale non ristrette, ò applicate ad alcun soggetto: e per questo non era necessario il por distintione fra la virtù ciuile e la feminile: oltre che il fine de’ libri morali è la felicità dell’huomo, e de’ libri Politici la felicità delle Città; ma alla considerazione della felicità ciuile deue necessariamente precedere la cognition della virtù ciuile, dico della virtù in quanto è utile alla città; percioche molte fiate può auuenire, che la Città in uno abbia bisogno di minor virtù, & in altro di maggiore: e per questo ne’ serui, che son parte della Città, niuna, ò molto poca virtù è ricercata, e soltanto quanto lor basti per obedire e per essequire gli altrui commandamenti: ma nelle donne, che son parte della Città,

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pur’una virtù è ricercata, ancorchr non tale quale è de gli huomini: onde a ragione da Aristotele è ripresa la Cittadinanza de’ Lacedemoni, come quella che essendo priua della vergogna, e della pudicitia feminile, era priua della metà della felicità ciuile. con molta ragion, dunque, non sol dalla natura, ma dall’usanza ancora, e da’ Legislatori è stata introdotta la distintione della virtù, & la città bisogno di molta distintion d’uffici, non poteuano i diversi uffici dell’istessa virtù esser bene essequiti. questo che si dice del gouerno delle Città, si verifica parimente nel gouerno famigliare, ò della casa che vogliam chiamarlo il quale essendo composto d’acquisto, e di conseruatione, & stato bene instituito, che gli uffici suoi si distinguessero, e che l’ufficio dell’acquistare all’huomo, e quel del conseruare alla donna s’attribuisce. Guereggia l’huomo per acquistare, e l’agricoltura esercita, e la mercantia, e nella Città s’adopra, onde di molte virtù per sì fatte operationi aueua egli bisogno: ma conserua la donna l’acquistato, onde d’altre virtù diuerse da quelle dell’huomo ha bisogno, e così la sua virtù s’impiega dentro la casa, come quella dell’huomo fuori si dimostra: ma se la virtù dentro la casa è contenuta, dentro la casa ancora la fama feminile par che debba esser contenuta, la quale se si diuulga, non si può diuulgare se non ò per difetto della donna, ò per alcuna virtù, che non sia sua propria. A ragion, dunque, par che Tucidide quella famosa sentenza prononciasse, e che contra ragione da Plutarco fosse difesa: e la fama della pudicitia, ch’è più conueneuole alla donna, che alcun’altra, non può molto diuulgarsi, se la virtù della pudicitia, ch’è quella, dalla quale principalmente deriua, ama la ritiratezza, e i luoghi priuati, e solitari, e fugge i teatri, e le feste, e i pubblici spettacoli; e se si diuulga non più intatta, ò netta a’ posteri, ò alle lontane nationi trapassare: ma onde auiene, che la donna impudica sia infame, e l’huomo

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Impudico, infame non sia riputato? forse per la stessa ragione, per la quale la timidità, che si biasma nell’huomo, non è vergognosa nelle donne; percioche così l’huomo, come la donna, è onorato, e disonorato per il proprio vitio, e per la propria virtù, e non per gli altri, ò almeno non tanto, che lor si debba attribuire assolutamente il nome d’onorato, e di disonorato, onde essendo propria virtù dell’huomo la fortezza, per la fortezza è onorato, & alla fortezza erano più statue da gli antichi, ch’a niun’altra virtù dirizzate; si come all’incontro per la viltà è disonorato. similmente la donna per la pudicizia è onorata, e disonorata per l’impudicitia; perché l’uno è suo proprio vitio e l’altro sua propria virtù: ma contraria alla nostra opinione par che sia l’autorità d’Aristotele in quel luogo ou’egli tratta delli estremi della temperanza: percioche iui dice che l’abito dell’intemperanza s’acquista più spontaneamente, che quel della timidità, e che perciò è degno di maggior riprensione, perche è più facile auezzarsi alle cose, che recan piacere; e soggiunge, che la timidità non pare volontaria come gli altri vitii, perciò che apporta dolore, & in guisa col dolore rende attonito, che sforza a gittar l’arme, & a far’altre cose contra il decoro, le quali paiono violente. questa opinione d’Aristotele nel proposito, ch’egli la dice, è vera; ma noi consideriam ora queste cose non come le considera il moral Filosofo, ma come dal Politico son considerate; e secondo l’opinione de’ ciuili, l’infamia a’ timidi s’attribuisce; onde nel capitolo de’ cinque modi di fortezza non vera si leggon appresso Aristotele queste parole. I cittadini per l’esortationi delle leggi, e per le pene di vergogna proposte, s’espongono a’ pericoli e prendono gli onori, onde paiono fortissimi, appresso i quali i timidi sono infami, e i forti sono onorati; e quì voglio soggiungere, che non solo appresso il Politico; ma né anco appresso il morale, ogni vitio reca infamia, e disonore: e molti sono gli

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estremi delle virtù i quali, se ad Aristotele crediamo, non possono essere cagione di scorno, non che di disonore. Fermaremo, dunque, questa conclusione, che l’huomo per la viltà, e la donna per l’impudicitia sia disonorata; perché quella è proprio vitio dell’huomo, e questa della donna; non niego nondimeno, che la fortezza non sia virtù feminile ancora, ma non l’assoluta fortezza; ma la fortezza ch’ubidisce, come dice Aristotele. molti di quelle atti nondimeno, che sono atti di fortezza nelle donne, non sarebbono atti di fortezza ne gli huomini; & all’incontro, molte ationi nella donna, ationi di temperezza sarebbono giudicate, che ne gli huomini a niuna intemperezza si possono ridurre. ma qual ordine di virtù nondimeno è più proprio dell’huomo? qual della donna? puossi più universalmente insegnare, che da Aristotele non è insegnato, virtù ò son poste nell’affettuosa ò nell’intellettiua: ma delle virtù poste nell’affettuosa un ordine è collocato nella potenza concupiscibile, ch’è quella, c’hà per obietto il bene, & in quest’ordine è la temperezza, di cui è parte la pudicitia: l’altro è posto nell’irascibile, c’hà per oggetto il bene in quanto gli è difficile. di questi due ordini, quel che modera gli affetti della concupiscenza è proprio della donna, ma l’altro; che l’ira, e gli affetti dell’ira compagni suol temperare, all’uomo par che più si conuenga; ma di quell’altre virtù, che nell’intellettual parte son poste, a pena par, che la donna debba participare; percioche gli habiti dell’intelletto speculatiuo a lei non si conuengono, e della prudenza, e degli altri che sono nell’intelletto pratico a pena participa, percioche la prudenza, ch’è propriamente virtù, che comanda a gli altri, & è regola dell’altre virtù, nella donna è serua della prudenza dell’uomo, e non deue essere se non tanta, quanta basta per ubbidire alla prudenza virile: Ma perciò che l’intelletto à il suo appetito, che seguita la sua cognitione in quel modo, che l’appetito del senso segue il conoscimento del

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senso, e questo è detto volontà; quiui ancora sono alcune virtù, delle quali la donna è priua, & in quest’ordine da alcuni la giustitia è annouerata, e la clemenza parte della giustitia, che contien l’equità. direm, che delle virtù men di tutte l’altre si conuengono alla donna quelle, che son poste nella parte intellettuale, che conosce; e de gli altri tre ordini, men sono suoi proprii i due posti nell’appetito dell’intelletto, e dell’ira: e più è suo proprio, quello ch’è collocato nell’appetito della concupiscenza: ma perche le virtù di quest’ordine ancora son molte, propriissima sua è la virtù della temperanza, della quale è parte la pudicitia: e questa distinzione di proprio e di più proprio, e di propriissimo, non deue altrui parer nuoua, ò inconueniente, poiché ne’ primi principii della Loica & riceuuta, se ben io sò che iui propriissimo è detto quello che sempre a’ tutti gli animali d’una specie conuiene, e lor solamente, oue la pudicizia propriissima non par che sia della donna, poiche a gli uomini ancora in alcun modo conuiene; e tanto intorno alla virtù feminea ciuile voglio che mi gioui auer filosofato; e se nel filosofare più alla peripatetica, che alla Platonica opinione mi sono accostato, hò seguita per duce non tanto l’auttorità quanto la ragione, con la scorta della quale se pur errar si può, meglio è l’errare, che guidato dall’autorità andare a dritto camino. Ma a chi scriu’io della feminil virtù? non già ad una Cittadina, ò ad una Gentildonna priuata, né ad una industriosa madre di famiglia: ma ad una nata di sangue Imperiale, & Heroico, la qual con le proprie virtù agguaglia le virili virtù di tutti i suoi gloriosi Antecessori: dunque, non più la feminil virtù, ma la donnesca virtù si consideri; né più s’usi il nome di femina, ma quel di donnesco, il qual tanto vale, quanto signorile, onde appresso Dante si legge,

Donnescamente disse: vien con nui.

Cioè signorilmente, & imperiosamente: or

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considerando non la feminea, ma la donnesca virtù, dico, che si come fra gli huomini sono alcuni, ch’eccedendo l’humana conditione sono stimati Heroi; così fra le donne, molte ci nascono d’animo, e di virtù Heroica: e molte ancora nate di sangue Regio, se ben perfettamente non si possono chiamar donne Heroiche, molto nondimeno alle donne Heroiche s’assomigliano: e queste non sono parte della Città, percioche gli Heroi in alcun modo non sono, ò de’ Rè si può dubitare se siano, ò se non siano: e quando pur siano, la virtù regia in tutto dalla virtù propriamente ciuile è distinta: la virtù dunque delle donne sì fatte, non è virtù ciuile, né secondo la distintione e l’opportunità de gli uffici ciuili deu’essere considerata, e molto meno secondo la necessità del gouerno famigliare; percioche il gouerno famigliare non appartiene alle donne Heroiche e Regie; e se pur appartiene, è d’altra sorte che’l ciuile e’l priuato: e sappasi, che quattro maniere d’Economio, ò di governi famigliari, che voliam chiamarli, pone Aristotele; l’uno è detto Regio, l’altro Satrapico, il terzo ciuile, e l’ultimo privato; e se’l governo regio famigliare in alcun modo appartiene alla donna Regia, non è però che sia l’istessa virtù della donna Regia, e della priuata madre di famiglia; perciò che la virtù della madre di famiglia sarà la parsimonia, e della donna Regia la leggiadria, e la delicatura; e l’una haurà per oggetto l’utile, e l’altra il decoro, né gli basterà, che gli ornamenti della casa sian magnifici, ma vorrà, che sian magnifici con delicatura, e con leggiadria, e particolarmente i panni lini lauorati di seta, e d’oro, e gli ornamenti della camera, e della persona, e tanto nella magnificenza. di sì fatte cose eccedeuano le Regine di Persia, che le Prouincie intiere, come dice Platone nell’Alcibiade, eran destinate quale a le spese della cintura, qual delle pianelle, e qual dell’altre vestimenta del corpo e da lor prendeuano il nome. il regio gouerno nondimeno, quantunque grande, e nobile, può, e suole

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dalla donna Heroica esser rifiutato; percioche ella trascendendo, e trapassando non sol la conditione dell’altre donne, ma l’humana virtù, sol d’operare prudentemente e fortemente si diletta; e la sua virtù non è l’imperfetta, ma la perfetta virtù: non la mezana, ma l’intiera virtù; onde a ragione ella può esser detta ò destra ò sinistra; né a lei più si conuiene la modestia, e la pudicitia feminile, di quel che si conuegna al Caualiero; perche queste virtù di coloro son proprie di cui l’altre maggiori non possono esser proprie: né può esser detta infame quantunque commetta alcun atto di impudicitia; perché non pecca contra la propria virtù; & infame è propriamente quell’huomo, e quella donna, che pecca contra la propria virtù. non negherò nondimeno, che maggior lode Semiramis e Cleopatra non auessero meritato se state non fossero impudiche; ma Cesare anco, e Troiano, & Alessandro di maggior laude sarebbon degni, se temperati fossero stati; e se per la virtù della temperanza merita Zenobia, ò Artemisia d’esser’a Semiramis, ò a Cleopatra anteposta; per la medesima virtù Scipione a Camillo, a Cesare, & ad Alessandro è preferito; sì che in ciò le ragioni dell’uomo e della donna, qual descriuiamo, son così pari, che per pudicitia; o per impudicitia l’uno, e l’altro maggior lode, ò biasimo non merita; e se la donna non ricerca gli abbracciamenti amorosi per isfrenata cupidità d’intemperanza, non deue ragioneuolmente essere ripresa; onde anzi lode meritò, che biasimo la Reina Amazzone la quale, come racconta Giustino, venne volontariamente a sopporsi ad Alessandro per ingrauidarsi di lui; e forse dalla medesima cagione fù mossa la Regina Saba a venir a’ trouar Salomone; percioche è opinione, che i Re dell’Etiopia da lei, & da Salomone sian discesi: quelle ancora, che non per cupidigia d’intemperanza, ma per amore, cercano gli abbracciamenti, con queste possono essere accompagnate; né posson in alcun modo esser giudicate infami,

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e disonorate; perciò che l’infamia, e’l disonore seguita il vitio; e oue non è vitio, non può essere infamia ò disonore; ma il vitio è abito confirmato; onde se l’intemperante è vitioso, in consequenza può esser disonorato; ma l’incontinente non deue ragioneuolmente esser riputato ò vizioso ò disonorato. L’intemperante senza contrasto si lascia vincere, e vinto non si pente della perdita sua, né dello scorno, né hà rimordimento, ò vergogna; ma l’incontinente combatte con gli affetti, e doppo lunga tenzone è vinto; e vinto da chi? da Amore potentissimo sovra tutti gli affetti. Chi può disonorata stimar la Reina Didone, se ben’all’amor d’Enea si sottomise? Prima ripugna all’amore, e brama d’esser più tosto fulminata ò dalla terra inghiottita che di violar le leggi della vergogna vedouile; poi, doppo lungo contrasto, aggiungendosi alle forze d’Amore le persuasioni della sorella, che con efficacia dice

Tunc etiam placido pugnabis Amore?

a poco a poco si lascia vincere; è l’amore potentissimo affetto, in modo che ci lascia dubi s’egli sia diuino furore, ò più tosto affetto di concupiscenza carnale; e se ben pare ch’Aristotele non conosca altro Amore, che quel di beniuolenza e quel di concupiscenza, nondimeno non si può dubitare, che un terzo non ne sia, forse di questi due misto, a cui s’aggiunge molte fiate un non sò che di celeste, e di diuino veramente; ma percioche questo non è tempo di trattar sottilmente, dalla natura d’amore alla virtù donnesca ritornando dico, ch’ella nelle donne Heroiche è virtù eroica, che con la virtù eroica dell’huomo contende & delle donne dotate di questa virtù non più la pudicitia, che la fortezza, ò che la prudenza è propria, né alcuna distintione d’opere, e d’uffici fra loro, e gli huomini Heroici si ritroua, se non forse solamente quelli, che alla generatione, & alla perpetuità della spetie appartengono, i quali ancora dalle donne Heroiche sono in parte negletti, e

P. 7V
Tralasciati. Questa, Serenissima Sig. è l’opinione de gli altri. e mia intorno alla virtù feminile, e donnesca; e per confirmare quello che nell’ultimo hò detto della virtù Heroica con alcun’esempio moderno, che à gli antichi possa essere agguagliato, rinnouo in voi la memoria della gloriosa Reina Maria sorella di Carlo Quinto, e di Ferdinando vostro padre, la qual nelle guerre di valorosissimo Capitano e nel governo de gli Stati di prudentissimo Rè esercitò gli uffici; né da lei è punto dissimile, è a lei punto inferiore Margherità d’Austria Duchessa di Parma, la qual congiunge ancora la prudenza, e la fortezza con tant’altre Heroiche virtù, che vile in suo rispetto è la memoria di Cleopatra, di Semiramis, e di Zenobia, e di qual si voglia altra antica gloriosa: né la presente Reina d’Inghilterra deue con silentio esser trapassata; perché se bene la nostra maluagia fortuna vuol, ch’ella sia dalla Chiesa separata, nondimeno l’Heroiche virtù dell’animo suo, e l’altezza dell’ingegno mirabile, le rende affetionatissimo ogni animo gentile, e valoroso: ma dove lascio Caterina de’ Medici, che nella Casa reale di Francia per proprio merito non sol per grandezza, e per fortuna de’ suoi Antecessori merita d’esser stata collocata? Chi vorrà anco nelle donne Heroiche non sol la virtù dell’atione, ma quella della contemplatione, si rammenti di Renata di Ferrara, e di Margherita di Sauoia; dell’una, e dell’altra delle quali mio Padre mi soleua le merauiglie raccontare; & Anna, e Lucretia e Leonora, che di Renata son nate, tali sono nell’intelligenza delle cose di Stato, e nel giudicio delle lettere, che niuno che l’ode favellare si può da lor partire se non pieno di altissimo stupore: & io qual’hora ad alcuna di loro ho letto alcun mio componimento, non Saffo ò Corinna ò Diotima ò Aspasia, che vilisono sì fatti paragoni, ma la madre de’ Gracchi, od altra tale giudicaua d’auer per ascoltatrice; e per non defraudare

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della lode a lor debita quelle, ch’alla memoria de’ padri, e degli Aui nostri sono state eccellenti, chi può tacere ò di Lucretia Borgia, ò d’Isabella Estese Gonzaga, ò d’Anna ò di Giovanna d’Aragona, delle quali questa s’è condotta tant’oltre con gli anni, ch’io hò potuto vederla? e chi non deue con lodi immortali celebrar l’altezza dell’ingegno, e la felicissima eloquenza, e la diuina poesia di Vittoria Colonna? ma perché vò cercando esempi stranieri, ò lontani, e di voi e di Barbara vostra sorella non m’affatico di ragionare? le quali ricche, & ornate a pieno di tutte le virtù dell’animo, e dell’intelletto eroico, che in alcuna si possono ammirare, auete oltra ciò (parlerò di lei, come viua fosse, che viua m’è nella memoria) la virtù Cristiana in tanta perfetione, che la gloria delli altri è quasi un picciol lume in parangone del Sole in rispetto della vostra? ma se ben la virtù Cristiana, è a sourana e la perfetta, la qual’in voi sola, & in Vittoria Farnese, prudentissima, e castissima Principessa, & in poch’altre s’honora; nondimeno non in ciascuna questa esquisitezza della Cristiana virtù è ricercata perché diuerse sono le vocationi, e ciascuno alla sua natione deue accommodarsi: & assai è in questo mondo pieno d’imperfetione, se ciascun tanto ne partecipa, quanto basta per la salute dell’anima sua, senza il suo aiuto nondimeno le virtù morali sono imperfette, né riportano altro premio che d’onor breue e transitorio. Ma quali e quante sian le virtù Cristiane, & in qual potenza dell’animo sian collocate, a miglior’ occasione, & a maggior commodità riserbarò di andare inuestigando: & così per hora con buona gratia di V. Alt. farò fine, facendole humilissima riuerenza. & c.

Di Vostra Altezza Serenissima
deuotissimo & umilissimo seruo
TORQUATO TASSO