La nobiltà et eccellenze delle donne: et i diffetti, e mancamenti de gli huomini (1600) Part 3

by Lucrezia Marinella

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Title: La nobiltà et l’eccellenza delle donne, co’ diffetti et mancamenti de gli huomini
Author: Marinella, Lucrezia (1571-1653)
Date of publication: 1600
Edition transcribed: Venice: Giovanni Battista Ciotti, 1600
Source of edition: Scaffali Online, Biblioteca dell’Archiginnasio
< http://badigit.comune.bologna.it/books/marinelli/scorri.asp >
Transcribed by: Marco Piana, Lara Harwood-Ventura and Tanya Ludovico, McGill University
Transcription conventions: Page numbers have been supplied by transcribers.
Status: Completed and corrected, version 1, 2016.

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I DIFETTI, ET
MANCAMENTI
DE GLI HVOMINI.
DI LVCRECIA
MARINELLA,
Parte Seconda
Che gli huomini senza alcuna proportione, si come
con ragioni, et essempi si proua, sono più vi-
tiosi delle donne.
Havendo io apertamente, con inuincibili ragioni, et essempi mostrato la nobiltà delle donne, senza dubbio, come con le comparationi si può vedere, a quella de gli huomini esser superiore; me ne passo a i difetti de i maschi, i quali vi prego a paragonar con i difetti donneschi scritti dal Passi. accioche in tutto, et per tutto restiate ostinatelli vinti, et superati. Parlo con coloro, che hanno poco sale in zucca, et che se ne vanno alla cieca.
Credono tutti gli huomini dotti, et scientiati, che i maschi sieno più nobili delle femine, percioche di natura sono piu caldi; ma s’ingannano di gran lunga, percioche l’anima opera certo con il calore, ma non già con ogni sorte di calore, ma con un [vn] dolce, et benigno, che non ecceda una [vna] certa mediocrità. Onde chi ardirà gia mai di dire, che il calore del maschio sia mediocre, et atto a tutte le operationi dell’anima speculatiue, et morali, già che la natura dell’huomo è calda, et secca, come dicono. Et la femina, come il più saggio, et famoso medico dice, è calda, et humida per la copia et abbondanza del sangue. Che la complessione calda, et secca contenga un calore eccedente, et che trapassi la mediocrità, non accade, ch’io il proui, essendo cosa nota ad ogn’uno, che il calore aggiunto con la siccità è grande, et trapassa la mediocrità: eccedendo adunque cagiona, et produce infiniti vitiosi effetti, come appetiti piu ardenti, et voglie piu sfrena-
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te, che non eccita il temperato calore. Questo si vede tutto giorno
ne’ giouani, i quali essendo di natura più calda delle altre etadi sono più desiderosi di nouità, et piu mobili de gli altri, ch’all’età piu matura sono; et questo etiamdio si conosce ne’ paesi, che sono caldi, et infiammati. è adunque la natura calda, et secca dannosa; rapportando allo intelletto desiderii sensuali, onde egli spesso se ne resta vinto, et superato. Aggiungiamo, che rende gli huomini instabili et inconstanti; perche, Calor exagitat molem, et come dice Chalcidio nel comento del Timeo di Plato. mobilior anima ob calorem, ò che difetti sono questi che deriuano da un tal calore da lor tanto lodato, et essaltato, gia che per sua cagione l’anima ragionevole è astretta a piegarsi dal dritto sentiero delle virtù, et lasciarsi precipitar nelle dishonestà, et concupiscenze, dalle quali ne nascono infiniti altri errori, et misfatti enormi. cosa che non può accadere al sesso donnesco; essendo di natura calda et humida, nella quale si lasciano reggere i sensi dalla ragione. Ma il contrario auuien nella calda, et secca, et però piu temperate, piu constantim piu ferme, piu giuste, et piu prudenti sono le donne de gli huomini; et questo auiene, perche la ragione tiene il proprio seggio, cosa che non è nel maschio, si come con gli essempi noi dimostraremo; et infelice l’huomo, se non havesse per compagnia questo raro dono della donna; percioche credo, che non si ritrouarebbe al mondo il piu crudo, et horrendo mostro di lui, ne il piu fiero, et dispietato Animale. Ma lodato sia Dio, la donna lo raffrena, l’humilia, lo fa capace della ragione, et della vita civile. Onde conoscendo tutte queste cose il Signor Guglielmo di Salusto Signor di Bartas nella sua diuina settimana, laquale è tradotta di lingua Francese in verso sciolto Italiano da Ferrante Guisone dice.
dhe quà volgete
L’Occhio subitamente, et l’alma, e’l core
Et de la donna la beltà mirate.
Senza cui mezzo è l’huom misero in terra,
Et del sole un nemico, ascoso lupo
Una seluaggia, e solitaria ferra
Frenetica, et paurosa, a cui piacere
Altro, che’l dispiacer giamai non puote
Nato a se sol di spirito, e di core
D’amor, di se, di sentimento privo.
Et questo è pur huomo, et non donna, che se stato fosse donna io direi, che essendo interessata non potesse vestir persona di giudice; stimando l’huomo una fera frenetica, et paurosa. Io credo tutto quello, che dice questo Signore Francese, come quello, che se ciò non fosse vero, non l’haurebbe detto, et ancho perche parla de gli huomini, et era huomo, et mi confermo in questo con le parole di Vertuno, quando rende ragione di se medesimo, le quali sono queste.
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Ma tu non quel, che dicon le persone
Di me, ma quel ch’io stesso dico credi;
Ch’al ver non son tutte le lingue buone.
Con ragioni adunque io credo di haver manifestato, che gli huomini sono piu vitiosi delle donne. Ma non però nego, che non vi siano donne di mala vita, et pessime; ma però a comparation de gli huomini ribaldi, et pessimi si possono chiamar ottime. Anzi io credo che se noi accopiassimo insieme tutte le donne, che sono, et che saranno mai pessime, et cattiue, non si potrebbono in alcun modo agguagliare allo scelerato Nerone; che godeva del male altrui facendo abbrusciare una gran parte di Roma: anzi delle quatordeci parti ve ne restorno solamente quattro, et desiderava che tutta si minasse con i Cittadini, et in quel tempo, che Roma ardeva, egli sopra una allta [sic] torre cantava allegramente ridendo. Spinto dall’auaritia ogni giorno faceva amazzare qualche ricco Cittadino per essere patrone delle sue facoltà. Desideraua di vedere il mondo il mondo minato avanti la sua morte. Vccise sua madre, et ammazzò Poppea sua moglie con un calcio, laquale era ancho grauida per leggerissime cagioni. Era sfrenato, et incontinente; spesso si ubbriacaua, et se ne staua le notti, et i giorni intieri giocando, et cantando ne conuiti. Fece levar di vita Seneca, et Plauto, et molti altri; perche erano persone virtuose, et da bene, si dilettaua di Comedie, di buffoni, et de mangiatori, et con tutto che fosse auarissimo, era ancho prodigo, et oltre a tutte queste cose dispreggiaua i Dei, era ambitioso, et vanaglorioso. Che vi pare di questo huomaccino da bene. Credete, che tutte le donne insieme hauessero tutti questi diffetti? io non lo crederei, e pur sono tutti veri, come scrive Suetonio, Eusebio, Isidoro, et Orosio. Io potrei addure altri esempi, come d’Alcibiade ladro insolente, ambitioso, imprudente, et dato a tutte le dishonestà, ingiusto, et insomma d’ogni vitio albergo, come dice Plutarco, ilquale racconta, che Alcibiade andaua gettando per le strade, oue passava molti denari, accioche le genti stassero intente a raccogliere i denari, et non dicessero mal di lui. Pensate se douea dar loro cagione di vituperarlo; et anchora voglio dir quattro parole di Salamone, ilquale fù huomo sfrenato, incontinente, Idolatro, ambitioso, et dato ad ogni commodo del senso; et che questo sia vero, leggiamo questo, ch’egli dice nell’Ecclesiastico di se medesimo. Le cui parole sono. Magnificaui opera mea, aedificaui hortos, habebam cantores, et cantatrices, et quae desiderabant oculi mei, non negabam eis. ciò è. io ho essaltato, et inalzato le mie operationi, ho edificati molti horti, et giardini, io hauea molti cantori, et cantatrici, et in somma non era cosa, che vedessero gli occhi miei, et ch’io desiderassi, ch’io non volessi havere, et possedere. Che vi pare di Salamone, gia che tutte le cose, che li veniuano nella imaginatione, metteua in essecutione? Onde non è meraviglia, s’egli dato in tutto alla concupiscenza hauea settecento moglie, et trecento concubine; et quel che è peggio per favo-
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rire le sue care donne, edificò tre tempii: essendo diuenuto Idolatra. Se Salamone adunque fù tale, che vien chiamato il sapiente, et il saggio, possono gli altri huomini senza altra sorte di contrasto cedere alle donne: percioche nell’Historie non si troua alcuna donna, come questi era, et che ponesse in opera tutto quello, che nel pensier li cadeua. Ma non voglio in questo capo più addur essempi di questi huomini da bene: percioche ne’ seguenti dimostrerò più particolarmente i diffetti de gli huomini. Ma solamente io dirò, che i più scientiati, et dotti del mondo sono estremamente vitiosi. Dio immortale, che saranno poi gli ignoranti, et privi d’ingegno? che questo sia vero, leggasi la vita di tutti i piu sapienti della Grecia, et di tutto il mondo, che si vedrà manifestamente, che ogn’uno sarà macchiato di qualche segnalato vitio. De ricchi io non ne parlo: percioche Aristotile in mille luoghi disse, che costoro sono incontinenti, et dati a piaceri del senso. Dividerò gli essempi in venticinque capi, et il primo trattarà de gli auari, et de danari desiderosi.
De gli huomini auari, et desiderosi di denari.
Capitolo Primo.
Essendo l’Auaritia origine, et fonte d’ogni impietà, et sceleragine: percioche ella rende l’huomo per la cupidità dell’haver bugiardo, homicida, ingrato, spergiuro, tiranno, assassino, infedele, inuido, ingiusto, et finalmente d’ogni vitio sede, et albergo. Mi ha paruto cosa ragionevole l’incominciar da questo vitio, ò diffetto; Vitio, come lasciò scritto Aristotile nel libro terzo dell’Ethica dannoso non solamente a gli altri, ma allo istesso auare. Onde disse quel dotto poeta. In nullum auarus bonus, in se pessimus. e se pur è mai buono, egli è dopo la morte, come ben lasciò scritto il Tussino dicendo.
E l’auaritia ogni virtute adombra
Che l’huomo auaro non suol far piacere
A le persone mai se non morendo.
Horsu descendiamo a gli essempi, et per il piu d’Imperatori, et Regi, i quali meno deurebbono essere macchiati de gli altri di questo abominevole vitio; Come ben disse Plutarco.
Il primo sarà Caton maggiore, che faceua comprare i fanciulli, e dopo l’anno li reuendeua a maggior prezzo, et volendo persuadere un suo figliuolo, che s’ingegnasse anchor egli a guadagnare in questo modo, disse, che non era cosa da huomo, ma da donna vedoua il lasciar scemar le sue facoltà: et oltre questo fece una usura marinaresca molto biasmata. Sprezzaua le cose della villa: percioche stimaua che fossero solamente dilettevoli, et non utili; cosi l’agricoltura, voleua che le sue facultà fossero poste
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in luogo sicuro, proccaciua paludi, laghi, bagni, et luoghi accomodati al [pregio?] delli panni. possessioni, che facilmente fossero lauorate da contadini, boschi, pascoli, dequali ne potesse cavar gran quantità d’oro. etiandio compraua serui giouani gagliardi, non belli, et delicati, ma rozi; perche riuscissero buoni lauoratori di villa. poi quando erano vecchi, li faceua vendere per non li dare il solito Alimento. Onde dice Plutarco scriuendo la vita di lui, io non venderei mai un bue vecchio che fosse stato compagno della [fatica] rusticale, non che io mi mettessi a vendere un huomo vecchio per farne poi pochissimo guadagno, gia al compratore, et al venditore inutile dal luogo donde fù nodrito, et dal modo del viuere, come dalla patria sbandito. non ciede punto a costui Caligula, che trouò modo di rubar gli huomini, et ancho il mondo tutto. Ne si poteua imaginar via alcuna, che compitamente li piacesse da poter tirar denari col mezzo delle gabelle, et delle grauezze. Intorno a’ litigi, che occoreuano, voleua la quarta parte di tutte quelle che si patteggiaua : et se i litiganti delle lor differenze si componeuano insieme, prima che si facesse la sentenza, voleua una certa portione, cosi di tutti i mestieri, e facende de gli huomini voleua che a lui fosse dato una parte dell’utile. Ponendo fra costoro ogni vil huomo, fino quelli, che portanano [portauano] pesi; in guisa tal che hauendo ragunato gran quantità di danari, si riuoltaua, et passeggiaua sopra quelli godendo di quell’oro et argento, che hauea, si può dir rubato senza fatica dalle fatiche altrui. Si legge etiandio nell’Historie che Tiberio era tanto inclinato a l’avaritia, che accrescendo i tributi, Le Cittadi non potendo tolerarli si distruggeuano, et andauano in ruina, et Tolomeo Re di Cipro volse morire co’ danari appresso, tanto n’era sempre auido.
Quinto Cassio per danari non faceua giustitia.
Comodo Imperatore la vendeua, et per ingordigia di denari perdonaua ad ogn’uno.
Vespasiano Imperator teneua nelle Provincie huomini rapaci, i quali chiamaua spongie; perche succhiauano con mille loro inuentioni il sangue [a’ miseri] cittadini; ma udite strana, et insolita auaritia di Costante Imperator terzo, che sforzaua i sudditi a vendere i proprii figliuoli per trouar denari. ancho un grande auaro fù Ridolpho Imperatore. Appolonio Tianeo dice, che Platone fù auaro, et che per questo seguì Dionisio fino in Cicilia.
Ma che diremo di Vittelio Imperatore? il quale fù cosi auaro, che non solo voleua la robba, ma uccideua ancho le persone, come fece un cavalliere, il quale diceua, che hauea lasciato herede de la sua facultà, Vitellio Imperator, egli come questo intese fece trouare il testamento, et trovò, che il caualliere lasciaua herede ancho un suo Liberto, senza altra cagione per diuorar tutta la facoltà, fece uccidere il caualliere, et il Liberto, et cosi rimase solo del tutto herede. Si legge che Marco Crasso richissimo fra Romani come dice Cicerone nell’ultima paradossa fatta contra di lui, essendo
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mandato contra Parthi mostrò gran segno d’ auaritia, laqual cosa sapendo gli astuti nemici, fingendo paura fuggirno, lasciando il paese abbondantissimo d’ogni sorte di preda, ma pieno d’aguati, per la cupidità di predare corse, et incorse incautamente nelle celate insidie; onde egli essendo circondato da tutte le parti, perdè tutto l’essercito con grande infamia et dishonore, et egli arrabiato contra la sua auaritia si fece da un seruo uccidere. Di poi li fù tagliata la testa et posta in un utre d’oro strutto, et dettogli aurum sitisti, aurum bibe. et per tale ignominioso vitio si oscurò ogni opera prima virtuosamente operata da lui. Però dice il Petrarca;
E vidi Ciro più di sangue auaro
Che Crasso d’oro, e l’uno, e l’altro n’hebbe
Tanto a la fin ch’a ciascun parue amaro:
Et Dante dice a Crasso.
Dici che sai di che sapor è l’oro?
Narra Plutarco che Demosthene fece bottega dell’arte oratoria pigliando denari, et scriuendo l’accuse a Formione, et Appollodoro auuersari et fù condannato di furto. et spesso spesso haueua in uso di dire.
O Ciues ò Cives querenda pecunia prius
Virtus post nummos.
Scriue Ouidio, che Mida Re di Frigia fù tanto auaro, che volse impetrar gratia da Bacco che ciascuna cosa ch’egli toccasse si conuertisse in oro, et diceua a Bacco:
—-effice quidquid.
Corpore contigero fuluum uertatur in aurum
O che contento, ò che allegrezza inaudita.
Vixque sibi credens, non alta fronde virentem
Illice detraxit virgam: virga aurea facta est.
Tollit humo saxum: saxum quoque palluit auro.
Contigit et glebam: contactu gleba potenti
Massa fit. arentes Cereris decerpsit aristas
Hurea Messis erat. demptum tenet arbore pomum
Hesperidas donasse putes. si postibus altis
Admouit digitos, postes radiare videntur.
Ille etiam liquidis palmas ubi lauerat undis
Unda fluens palmis Danaen eludere possit.
Vix spes ipse suas animo capit aurea fingens
Omnia
Et piu sotto quando le viuande si conuertiuano in oro, et che mescolò l’acqua col vino, il qual tocco dalla bocca si trasmutò in oro.
Effugere optat opes, et que modo nouerat odit,
Copia nulla famem releuat, sitis arida guttur
Vrit, et inuiso merito torquetur ab auro.
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O quanti huomini sono nel tempo presente, iquali soportarebbono di farsi per auidità dell’oro una statua d’oro; però questi auaroni vengono assomigliati a Tantalo figliuolo di Gioue, che da Poeti è posto nell’inferno perche lo scelerato diede Pelope suo figliuolo in un conuito a mangiare a’ Dei, et è oppresso da fame, et da sete: ha le acque limpidissime come christallo infino al labbro di sotto, et dolcissimi pomi, et altri varii frutti pendono si che giungono al labbro di sopra; Ma piegandosi fuggono l’acque, alzandosi fuggono i pomi, laqual cosa intrauiene all’auaro, ilquale benche sia in grandissima abondanza, non si caua mai la fame, et la sete d’oro. Onde si può a ragione esclamare con l’Ariosto e dire.
O essecrabile auaritia, ò ingorda
Fame d’havere, io non mi meraviglio!
Ch’ad alma vile, e d’altre macchie lorda
Si facilmente dar possi di piglio:
Ma che meni legato in una corda,
E che tu impiaghi del medesmo artiglio
Alcun che per altezza era d’ingegno
Se te schiuar poeta d’ogni honor degno.
Et più sotto:
Altri d’altre arti, e d’altri studi industri,
Oscuri fai, che farien chiari e illustri.
Ma che diremo noi di Pigmalion auarissimo, et crudelissmo Tiranno, ilquale senza hauer rispetto alla parentela cosi empiamente uccise il marito della sorella Didone, come si legge nel libro primo dell’Eneide.
Ille Sicheum
Impius ante aras, atque auri cecus amore
Clam ferro incautum superat securus amorem.
Ne voglio lasciar Polimnestore, ilquale di auaritia non si lasciò ponere il piede inanzi ad alcuno, a cui l’infelice Re Priamo hauea dato il caro Polidoro a nutrire con gran somma d’oro, et l’iniquo huomo spinto da questo enorme vitio uccise il misero Polidoro, ilquale chiamaua in testimonio huomini, et Dei, con tanti strali che lo coperse, et però lo fa dir Vergilio nel libro terzo ad Enea.
Heu fuge credeles terras, fuge litus auarum
Nam Polidorus ego: hic confixum ferrea texit
Telorum seges iaculis increuit acutis.
Fù nella Città d’Arezzo di Toscana un gentil’huomo della anticha famiglia de Vespucci, assai commodo di beni della fortuna, hauendo duo milla scudi l’anno di entrate. Ma oltre modo auarissimo: percioche datosi ad accumolar denari andaua sempre fra se stesso pensando qualche nouo modo, con ilquale potesse accrescere le sue richezze. Onde primieramente cominciò a scemar le proprie spese: perche hauendo una casa assai buona, et grande la diede ad affitto, et egli si ritirò in una casetta uicina
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alla stufa di un fornaio: accioche in un medesimo tempo li fosse casa, et fuoco, fuggiua le serue, et i serui, piu che non si fa il ueneno; dicendo che la natura li hauea dato due mani, accioche lo seruissero, et che era un huomo da ben poco quello, che non si sapea acconciar il letto, scoparsi la casa, et cucinarsi il uitto. Un paio di scarpe non noue li durauano un anno. haueua una biretta, che fù di suo auo ritinta delle uolte ben uenti. portaua i capelli lunghi affermando, che gli huomini nella età dell’oro non si tosauano due uolte in sua uita per conseruarsi sani. Cuciua cosi bene, come un buon sartore. Beueua chiare uolte uino, et bene adacquato; percioche non uoleua contentar la gola. Mangiaua pane il piu nero di Arezzo, et di mezza farina, dicendo che si rouinauano gli stomachi con i cibi troppo delicati. carne egli non mangiaua, se non un poco di testa di pecora il dì di Pascua. mentre camminaua per la Città sempre guardaua in terra per ritrovar qualche cosa buona per lui, et diceua, che era peccato lasciare andare a male alcuna cosa. Biasmaua l’otio, affermando che era peccato non de sette mortali, ma nello Spirto santo. Onde egli continuamente ò cucciua guanti, ò faceua bottoni. Stupiua fra se stesso, come alcuni huomini spendessero quattro scudi in un paio di fagiani, et li hauea per huomini di poco intelletto: andaua a dormire a hore ventiquattro; dicendo che era di gran sanità, et la mattina nel uscire del sole leuaua di letto. Non portaua camiscia, ma solamente alcuni colari di tela assai grossa. Vestiuasi di pelli di camoccia, lequali si conseruano gli anni non punto unte; non toccando egli cosa alcuna, che bruttar le potesse. Andaua spesso a disinar con questo, et con quello gentilhuomo, lasciandosi uscire di bocca, che teneua piu conto di un’amico, che di un parente, et che con il tempo lo uederebbono, et cosi credendo, che lo volesse lasciar heredi, lo inuitauano spesso, et egli allegro accettaua l’inuito; percioche un disinare li scusaua per tre pasti, stando la sera inanti senza cena, et ancho la sera del giorno, che hauea mangiato con i suoi amici. Daua ad usura cinquanta per cento con il pegno in mano. Spesso chiamaua la natura mancheuole; percioche hauea fatto l’huomo igniudo, et goloso, non mangiando, come fanno gli altri animali berbe [herbe]. Non haurebbe fatto una elemosina, anchor che fosse stato sicuro di dar la uita a tre persone con un quattrino, dicendo che si nutriuano poltroni, et ladri: riputaua superflue le cose, che ornano la casa, però non haueua altro, che uno stramazzo senza lenzuola. Nel freddo si intrateneua dal sopradetto fornaio, et in segno di gratitudine mouea con un piede la culla, oue era un bambino del fornaio, hauendo sempre occupate le mani, et diceua gran male di certi superboni, che sdegnano la pratica de galant’huomini. Se uoleua pigliare alcuna ricreatione, cosa che rade uolte accadeua, caricauasi di varie cosette buone per gli huomini di villa, et se ne andaua a buon passo a un suo podere lontano d’Arezzo delle miglia ben dieci, et poi la sera ricreandosi nel vendere quelle bagaglie se ne ritornaua a casa. Affitava i
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suoi luoghi di villa a denari contati inanti il tempo un anno. Hauendo accumulato gran quantità di denari non si partiva piu di casa in alcun tempo dell’anno: dubitando che non li fossero furati. Venuto il tempo di morire s’infermò di una passione di stomacho acerbissima, et essendo andato un suo amico a visitarlo li disse. Signor Cosmo, voi pagaresti ben due milla scudi, et essere sano: uorebbi hauere altro tanto mele soggiunse l’auarone, et hauerne cento appresso questi, ch’io ho. Disse l’amico voi morireste, et egli, che importarebbe a me, piu tosto desidero esser riccho morto, che uiuo pouero. In questo tempo mangiaua qualche ouo, et un poco di pane grattato con l’olio: uitello mai non ne volse comprare: la notte poco dormiua hauendo il cuore a’ denari, sopra quali giaceva. Auicinandosi l’ora della morte chiamò un notaio, et fece testamento, che voleva essere sepolto co i denari. Onde i parenti, i quali mai non si approssimavano a casa sua li mandorno un Padre di Santo Francesco, accioche si confessasse, et gli uscisse del capo questo suo desiderio. Il Padre fece l’ufficio suo, ma indarno; percioche adirato disse, a Dio buon compagno. Ma essendo poi venuto alla cosa di lasciar i denari, piu non li volse parlare, ne volse in modo alcuno, più confessarsi. Dicendo finalemente, che i denari non si acquistauano con fatica per lasciarli dietro di se, et cosi con le mani al sacco de quelli, et gli occhi verso loro morì dicendo. ò quanto ho speso misero me in questa malatia. Ma certo Nabide Tiranno uinse questo auarissimo huomo; perche egli non rubbaua, ne toglieua per forza, come faceua questo tiranno, il quale spogliò tutti gli huomini soggetti delle lor richezze, et danari. Sforzò la moglie ad andare in Argo, et fece, che mettesse in esecutione una astutia, che le insegnò, et è questa, ch’ella inuitasse le più nobili, et ricche donne di Argo, et poi con lusinghe, et con minaccie togliesse gli ornamenti loro, et le vesti pretiose, et ella il fece per comandamento dello scelerato huomo. Et un grande auarone fù Don Robles Spagnuolo, il quale essendo al governo d’Vtrec con molte rapine, come dice Mambrino Roseo, accumulò molti danari. Achille, non accade ch’io il dica, era tanto auaro, che uendè il corpo morto di Hettore. Si può sentire la piu scelerata auaritia? Onde Vergilio dice.
Exanimumque; auro corpus vendebat Achilles.
Auarissimo etiandio fù Barnaba, che scorticaua i popoli del suo Stato per accumolar danari, come scrive Mons. Paolo Giouio. Et il Tarcagnota mostra nelle sue Historie del mondo, che auarissimo fù un capitano de caualli Traci, ilquale nella ruina di Thebe entrò in casa per forza di Timoclia sorella di Teagene nobilissimo Thebano, et doppo che l’hebbe violata, la cominciò a tentare parte con minaccie, parte con piaceuolezze, doue hauesse l’oro, et l’argento ascoso, et ella, che prudente era, rispose, che poi che la sua fortuna le hauea lui dato per Signore, et difensore, non voleua celarli, come hauea in un pozzo senza acqua molti vasi d’oro, et argento, et molte vesti pretiose: egli come udì questo di allegrezza non sapeua che si
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facesse, et subito fattosi mostrare il luogo, benche di notte fusse, discese lentamente nel pozzo in giubbone, et ella come al fondo giunto il vide, tirandoli molti sassi l’uccise, et cosi riceuette il premio della sua auaritia. Auarissimi furno i Corintii, i quali tolsero nella lor naue Arione musico eccellentissimo; et accorgendosi gli scelerati che Arione haueua molti denari seco, lo voleuano gettar in mare, et restar padroni. Il musico, come questo intese, tentaua con l’oro, che seco hauea, et con preghi, ricomprar la vita. Ma il tutto fù vano, solamente ottenne con molti preghi di poter cantare, et suonare con la sua chitara, ornato delle sue pretiose gioie, et su la prua cantò si dolcemente, che gli humidi pesci ne presero diletto, et poi si gettò in mare, et un delphino portollo a saluamento nell’Isola di Tenaro, et egli andò a Corintho dal Re Periandro, ilquale diede castigo a quelli auari marinari come meritauano.
Sono questi gli essempi de gli huomini auari, che già furno Illustri, et famosi, percioche s’io narrar volessi tutti gli huomini, che di tal natura sono, poco spatio di tempo sarebbe un’anno intiero, gia che non si ritroua mercante, ne gouernatore di Stato, ne professore di alcuna arte, che non sia da l’ingorda auaritia stimulato, e spinto. Bene è vero, che hanno sempre con essi loro un continuo dolore. Cedano adunque gli huomini innumerabili di tal vitio ammacchiati a due, ò quattro donne poste per essempio d’auaritia da Giuseppe Bassi, il qual merita gran lode; perche io credo, che si habbi affaticato in ritrouarle molto.
De gli Inuidiosi. Cap. II.
E Di tanti mali, et inconuenienti cagione la maledetta, et rabbiosa inuidia, che si può con ragione concederle il primo luogo doppo l’auaritia, come vitio, che precede a tutti gli altri seguenti, et colui, che inuidia ò richezze, ò dignità d’altrui non si può dire, se non che habbi un animo scelerato, et iniquo; percioche non è altro l’inuidia che uno interno dolore, ò dispiacere delle prosperità altrui; cosi la descriue Speusippo Platonico nelle diffinitioni di Pla. dicendo. Invidia est tristitia ex amicorum bonis sive presentibus, sive futuris, vitio certo di un animo cattiuo. Ma non è tanto il danno, che ben spesso suole agli altri apportare, quanto ne sente, et proua l’istesso inuidioso. Onde lasciò scritto Oratio nel libro primo delle Epistole, che i Tiranni di Cicilia non trouauano il maggior tormento dell’inuidia, et dice.
Inuidus alterius rebus macressit opimis.
Inuidia siculi non inuenere Tiranni.
Maius tormentum.
Et in vero, l’inuidia distrugge l’inuidioso istesso, anchor che goda dell’altrui male. Onde Annibal Caro ne’ suoi sonetti, cosi la descrisse.
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Vibra pur la tua sferza, e mordi il freno
Rabbiosa inuidia, habita ò speco, ò bosco.
Pasciti d’Idre, e mira bieco, e losco,
E fa d’altrui tempesta à te sereno:
Et il Sannazaro volendo mostrare, che l’Inuidia è una peste, che consuma se medesima dice:
L’ inuidia figliuol mio se stessa macera,
E si dilegua come agnel per fascino,
Che non li gioua ombra di pino, ò d’acera.
Ma con miglior modo la manifestò, Ouidio nelle Metamorphosi; ma per concluderla io porterò i versi d’uno Epigramma attribuito à Vergilio, nel qual si scuopre una perfettissima descrittione dell’Inuidia, et è questo.
Liuor tabificum malis venenum
Intactis uorat ossibus medullas,
Et totum bibit artubus cruorem,
Quo quisque furit, inuidetque sorti,
Vt debet, sibi pena semper ipse est.
Testatur gemuit graueis dolores,
Suspirat, gemit, incutitque denteis,
Sudat frigidus intuens, quododit,
Effudit mala lingua virus atrum,
Pallor terribilis genas colorat.
Infelix macies remudat ossa.
Non lux, non cibus est suauis illi.
Haec potus iuuat, nec sapor Liei:
Viuit pectore sub dolente vulnus,
Quod chironia nec manus leuarit.
Nec Phoebus sobolesve clara Phoebi.
Et è tanto potente l’Inuidia ne’ cuori de gl’huomini, che molti uolendo inuitar i Regi, et Principi à nuoue discordie, et guerre, pongono dinanzi à gl’occhi loro i titoli illustri, l’antichità del regnare, i trionfi, la grandezza de gli stati altrui, et l’ubbidenza de’ feudatari, dalle quali cose stimulati prendono ben spesse uolte l’armi contro ad ogni ragione, et di questo ne fa fede il Guicciardini, et Monsignor Giouio. et tralascio per ora gli Historici antichi: Di questo potentissimo mezo finge il diuino Ariosto, che se ne seruisse Alcina nella persona di Gano, il quale conoscendo la potenza, et i danni, che sempre guida seco questa peste de gli animi, fa che Alcina l’honorasse con queste parole.
O de gli Imperatori Imperatrice,
(Comincio Alcina) S de. i Re Regina,
O de’ Principi inuitti domitrice,
O de’ Persi, e Macedoni ruina,
O del Romano, e Greco orgoglio ultrice,
[page 111 folio 52]
O gloria, à cui null’altra s’auuicina,
Ne mai sarà per appressarsi s’anco
Il fasto leui à l’altro imperio franco.
Fra gl’huomini celebri, che da questa signoreggiati furno, anchor ch’io creda, che molti fossero da tal vitio infetti; latè enim patet, hoc vitium, & est in multis inuidere, scilicet: Come scriue Cicerone ad Appio Pulcro: Voglio dare il primo seggio à Caligula Imp. accioche egli non inuidiasse ad alcun’altro, che à lui proponessi: era tanta l’inuidia, ch’egli portaua à gl’huomini, che si distruggeua dolendosi, ch’essi hauessero statue, et honorate memorie de’ loro antichi. però ne fece sprezzar molte, et gettare à terra. Oltre questo procurò con ogni suo potere, che si estinguessero i gloriosi poemi di Verg. e d’Homero. diceua, che Verg. era stato un’huomo di poco ingegno, Tito Liuio un parabolano, Seneca, ch’in quel tempo era in grandissima stima, arena senza calce. levò l’insegne, et gl’adornamenti a molti illustri gentilhuomini Rom., ch’erano segni delle loro antiche nobiltà. S’abbassò ancora la sua inuidia à cose più leggieri; percioche non v’era persona di cosi vile conditione, à cui non inuidiasse alcuna cosa, et faceua infino tosar gli huomini, i quali vedeua, ch’auessero belle, et lunghe zazzere, et faceua macchiar il volto ad alcuno, ch’à lui pareua bellissimo. Io non mi ricordo mai hauer letto, ch’in una donna fosse tanta inuidia, e tanta rabbia de gl’honori, et delle bellezze altrui, com’io leggo di quest’huomo. Non merita d’esser lasciato a dietro Cesare, che leggendo l’imprese d’Alessandro, piangendo si doleua, vedendo che le sue non erano eguali a quelle del Macedonico. Mi souuiene di Marco Crasso, ch’era sempre punto dalla venenosa sferza dell’inuidia per gl’honori di Giulio Cesare, et di Pompeo. Fù anco stimulato grandemente da costei Isaccio Commeno, come narra Niceta Acominato da Chone, c’hauendo tolto l’Imperio al crudele Andronico, per inuidia ruinò superbissime fabriche, et un’alta Torre, et altre bellissime habitationi uicine a una fontana, le quali cose Andronico con grandissime spese hauea inalzate, et per ornamento della città fatte, nelle quali cose si vedea essere ornamento, utilità, et piaceri. Mi souuiene d’Alessandro figliuolo di Filippo, ch’era inuidiosissimo della gloria d’Achille. Però dice il Petrarca.
Giunto Alessandro à la famosa tomba
Del fiero Achille, sospirando disse;
O fortunato, che si chiara tromba
Hauesti, che di te si alto scrisse.
Et Carneade fù tanto inuidiato, che nulla più, fiorì nel tempo di Catone, come scriue Valerio Massimo, pose lo suo studio in accordar le differentie, et varie sette di Filosofanti, Peripatetici, Epicurei, et Stoici; ma non lo potè far, come dice il Petrarca per l’inuidia altrui.
La lunga vita, e la sua larga vena
D’ingegno pose in accordar le parti,
Che’l furor letterato à guerra mena,
[page 112]
Ne’l poteo far, che come crebber l’arti
Crebbe l’inuidia, e col sapore insieme
Ne i cori enfiati i suoi veneni sparti
Fù un famoso inuido Tito Flaminio, come dice Plutarco, che tutto giorno si rodeua fra se stesso di dolore per gli honori di Filipomene. Ne voglio tacere di Temistocle, che molte notti non dormiua; perche i trofei di Milciade lo teneuano desto. Ne d’Aristotile, che inuidiaua la gloria di Theodetto. Ne di Carlo Utinense, che udendo le vittorie di Giulio Cesare s’ammazzò, et fece bene, che facendo cosi mostrò quello, che meritaua uno inuidioso, ilquale cerca di uccidere la fama, et la gloria altrui. Asinio Pollione haueua tanta inuidia a Cicerone, che fuggiua udendolo nominare. Doue lascio Adriano, che inuidiò tanto il buono Imperator Traiano, che i ponti fatti con gran spesa fece gettar a terra, et minare? come narra Plutarco, Scipione Africano fù etiandio molto inuidiato da i Tribuni, e da principali della Città di Roma, et egli conoscendo la loro inuidia se ne andò à Linterno villa a far il rimanente della sua vita: et Tito Liuio come narra il Petrarca era inuidioso verso Crispo Salustio, onde dice.
Crispo Salustio è seco, a mano a mano
Uno che gli hebbe inuidia, e vide il torto
Ciò è il buon Tito Liuio Padoano.
Torquato Tasso dice nel suo Poema veramente degno d’ogni lode, che Gernando era pieno di questo mostro diabolico per la virtù di Rinaldo.
Tal che’l maligno spirito d’Auerno,
Che in lui strada sì larga aprir si uede
Tacito in sen li serpe, & al gouerno
De suoi pensieri lusingando siede.
Che dirò di Senofonte, che impugnò i libri della Repubblica di Platone per inuidia? che di Gano che cercaua per inuidia di distruggere la potenza di Carlo Magno come dice l’Ariosto, ilquale scoprendo ad Alcina il petto colmo d’odio, e di rabbia verso il Re Carlo dice?
Ma se più tosto odiate, chi li è amico
E di sua volontà vuol seguitarlo,
Mè non haurete in odio, ch’io non l’amo,
Ma il danno, e’l biasmo suo piu di voi bramo.
Et da questo si può comprendere di qual astio, et di qual veneno hanno pieno il cuore questi inuidiosi, che odiano, et opprimono le virtù, et però il Petrarca, esclamando dice.
O inuidia nemica di virtute.
Et basti di questi pochi; perche se tutti ponere volessi, non mi bastaria ne la carta, ne il tempo.
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Degli incontinenti, cioè golosi, ubbriachi, & sfrenati. Cap. III
NUMERORNO gli antichi, et morali Filosofi tra i più graui, et segnalati vitii la sordida incontinenza; percioche offuscando la ragione i diletti de sensi uengono in un certo modo à priuar l’huomo del suo proprio essere; che ella interturbi la ragione per il mezo del diletto sensuale, lasciò scritto Speusippo dicendo Incontinentia est affectio trahens ad ea, que iucunda videntur, praeter rectae rationis iudicium. Le quali cose benissimo conobbe Aristo. nel lib. 2. delle grandi Morali al cap. 7. nel 3. delle Morali à Nicomacho dicendo, Incontinens est, qui honestorum tenet scientiam, sed eam non exercet, imo indulget corporis uoluptatibus, quae uituperandae sunt & circa has magis, quam par sit, versatur. Se adunque l’incontinenza è tale, ch’ella offuschi la ragione dominando i sensi del gusto, et del tatto come dice Aristo. imprudente, et lo dimostra con queste parole, Prudentem verò incontinentem esse non contigit. Et di questo non è merauiglia; percioche antepone a’ diletti tutte l’altre attioni, anchor che nobili, et laudabili. Et si duole, e lamenta, quando ch’egli non ottiene il bramato fine, come si legge nel 3. delle Morali à Nicomacho al cap. undecimo. Fù incontinentissimo in ogni sorte di cosa Nerone, il quale à freno sciolto si diede in preda à tutte le vanità, et lasciuie, che mai imaginar si possino, et l’Autor, che descriue la sua vita, dice i suoi vitii furno tanto horribili, che per non offendere l’orecchie di chi legge, ha proposto di non volerli scriuere consumando egli in quelle dishonestà la maggior parte del tempo et tutto il rimanente spendeua in giuocchi, et in altri vitiosi essercitii, e spesso in conuiti, iquali durauano tutto, il giorno et parimente tutta la notte: ne a questo scelerato Imperatore cede pur in una minima parte Silla, il quale sempre si dilettò di facetie, di pratiche di buffoni, et di persone ridicule et dishoneste. Ma come fù posto a reggere lo stato, ragunandosi con huomini sfacciatissimi, venuti dalle scene, et da gli spettacoli staua a bere, et a mangiare con loro, et a dire parole molte sconcie, et vituperose. anchorche fosse persona attempata; et per attendere alla gola trascoreua molte attioni, lequali haueuano bisogno di gran consideratione et diligenza. Scriue Suetonio, che Vittelio Imperatore era tanto goloso, che trouandosi in uiaggio entraua per tutte le osterie, et mangiaua le cose,
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che vi trouaua calde, et fumanti, et tal volta le reliquie del giorno inanti, et sempre comandaua hora a uno, hora ad un altro, che lo conuitassero. Sergio Galba fù anchor egli tanto mangiatore, et bevitore, et sfrenato in mille altre dishonestà, che è più noto per loro, che per alcuna virtù, che fosse in lui. ma che diremo noi di domitio Afro? che per troppo mangiare si soffocò a tauola alla presenza di molti. che di Catone Uticense? ilquale era tanto amico del vino, che à lui si haurebbe lasciato abbruggiare che continuaua beendo con gli amici infino a l’Alba. Che di Comodo Imperatore? ilquale consumaua il giorno, et la notte per le tauerne in conuiti, in tracannare, et in mille altri vitii enormi, et brutti; in bagni, in lasciuie. Alessandro Magno fù oltre modo amator del uino, et facendo un conuito, promise la corona a chi più beueua: quegli che in quel contrasto si mostrò più invitto fù Promacho, ilquale tracannò quattro cantari di vino, et acquistò la corona; et la uitoria. ma perche il pouero huomo douea hauer beuuto troppo poco, se ne morì da li a duo giorni, et ne morirno per l’istessa cagione quaranta altri. Mentre Alessandro attendeua a perseguitar Dario faceua alcuna volta grandissimi conuiti, et godeua nelle ebbrietà, et nelle Crapule. un giorno ch’egli era benissimo ubbriaco, si li fece inanzi una donna, per nome chiamata Thaide Ateniese, laqual piaceuolmente lodando Alessandro, diceua ch’ella hauea riceuuto in quel giorno grandissimo frutto delle fatiche ch’ella hauea sofferte a venire in Asia veggendosi tanto accarezzata nei i superbissimi pallazzi de Persiani, et ch’ella haurebbe molto dilettose per ispasso, anchorche hauesse potuto caciare il fuoco nel pallazzo di Serse, ilquale hauea già abbruggiata Atene sua patria. Stando Alessandro ad udirla, non li dispiacque quel pensiero, et cosi caldo dal vino fatto accendere una facella, andò inanzi a tutti con lei, et cacciorno fuoco nel pallazzo di Serse. Tutte queste cose narra Plutarco. Ne ad Alessandro cede Tiberio Imperatore, che fino dalla sua fanciullezza li fù posto nome Beuiero Mero, che dinota beuitore de miglior vini, et nella sua vecchiezza staua tutta la notte, et parte del giorno dando premi a chi più beuea. Ma doue lasciò Dinocrate Messenio, che era più giotto del vino, che l’orso del mele. Et facendosi un gran conuitto in Roma, et essendo ebro si vestì da donna, et quiui saltò, et ballò, e fece mille altre pazzie, et l’altro giorno poi domandò aiuto a Tito; perche tentaua di ribellar Messana a gli Achei, ch’era cosa di grande importanza, come dice Plutarco. Io non so come bene si conuenissero insieme l’ebrietà, i salti, i giuochi con la grauità quasi di Principe. Non merita silentio la voracità di Massimino, ilquale, come scrive Capitolino, mangiaua quaranta libre di carne al giorno, et beueua un’anfora di vino. Per quanto mi pare, era molto sobrio etiandio. Claudio Imperatore era tanto disordinato nel mangiare, et nel bere, et nell’altre sceleratezze, che li parea di non hauer mai nè luogo, nè tempo bastante da satiarsi la gola, mangiaua à corpo pieno,
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et poi si prouocaua il vomito, cosa più tosto da uno imperator de porci, che d’huomini. Et Cambise essendo stato corretto da un suo domestico, che lasciasse l’ubbriachezze, egli subito con una saetta l’ammazzò. Nè voglio, che resti disgiunto da questi golosi mangiatori Epicuro Ateniese figliuolo di Neode, da cui hebbe origine la setta Epicurea, il quale ponendo il sommo bene nelle voluttà, et piaceri del corpo si armò con sottili argomenti contra Phiricide Filosofo. A costui piacque con tutta la sua compagnia il mangiare, il bere, et il solazzarsi; perche diceva.
Post mortem nulla est voluptas.
Onde il Petrarca di lui parlando, dice:
Contra il buon sire, che l’humana speme
Alzò ponendo l’anima immortale,
S’armò Epicuro; onde sua fama geme
Ardito à dir, ch’ella non fosse tale,
Cosi al lume fu famoso, e lippo
Con la brigata al suo maestro eguale.
Leggesi ne gli Epigrammi di Possidonio, et di Theodoro, d’alcuni huomini, che mangiauano fino un bue: ò come male sarebbono stati sotto Pitagora, che non uoleua, che si mangiasse carne: non è giusto, che io lasci à dietro il Re Antiocho, il quale giorno, e notte attendeua alle crapule, et al uino: nè giusto è, che io lasci Trasimarco Macedone, il quale illustra Timacreonte, dicendo di lui:
Plurima edens, per multa bibens, mala plurima dicens:
Scriue Aristotile nell’Etica, che uno desideraua di hauere il collo di grue per poter lungamente gustar il uino, ch’io penso, che non li piacesse punto. Epicarmo nel suo Busiride della ingordigia loda Ercole dicendo.
Intus sonat guttur, sonantque maxillae
Simul dentes, dens caninus instrepit,
Exibilant nares, et ipsam aurem mouet.
Non uoglio lasciar da parte Sardanapalo, ultimo Re de gli Assirii, huomo deditissimo a tutte le voluttà. Costui di mangiare, e di bere non cedeua al più famoso huomo dell’età sua. Spesso si uestiua da donna, et staua anchor egli ritirato con le altre donne: In questo Arbace capitano de Persi, intendendo la uita di questo famoso huomo uenne, et assediollo, et il galante huomo disperando la salute fece accendere uno grandissimo fuoco, gettoui dentro le cose più care, et anco molte cose da mangiare, et finalemente se stesso. Et fece queste parole sopra la sua sepoltura. Mangia, beui, et giuoca, che doppo morte niente piace. Che dirò di Ciacco, che in lingua Fiorentina vuol dir porco, parlando il Bocca, di lui dice. Essendo uno in Firenze da tutti chiamato Ciacco, huomo giottissimo quanto alcuno altro fosse giamai, et con quello che segue. Dante lo po-
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ne ne l’Inferno, et lo fa dire cosi:
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco
Per la dannosa colpa de la gola,
Come tu uedi à la pioggia mi fiacco.
Furno tanto mangiatori, e golosi i compagni d’Vlisse, come racconta Homero nell’Odissea, nel libro duodecimo, che rapirno i buoi del Sole, et con grande auidità cercauano i più grassi, nè fecero alcuno profitto i ricordi d’Vlisse. Et i versi Greci tradotti da Girolamo Bacelli così suonano:
Sei giorni intieri i miei compagni amati
Mangiar gli armenti del lucente Sole,
Sempre scegliendo i più grassi, e megliori,
Ma ben portorno la pena della lor golosità tanto accesa, quando Gioue ne prese vendetta, che vibrando il fulmine ardente, percosse la naue, et si può dire,
Che sol foco per foco allhor si spense.
Cioè il fuoco della gola co’l fuoco celeste. Moschino era un gran beuitore, quando non era ubbriaco li pareua d’esser morto, et però dice l’Ariosto parlando di lui, quando uien gettato da Rodomonte nell’acqua.
Getta da’ merli Andropono, e Moschino
Giù nella fossa il primo è Sacerdote,
Non adora il secondo altro, che’l vino,
E le bigonze à un sorso n’ha già vote,
Come ueneno, e sangue uiperino,
L’acque fuggia, quanto fuggir si puote,
Hora qui more, e quel che più l’annoia,
E’l sentir, che nell’acqua se ne muoia.
E Grillo, forse, che ancor egli non era un bello, e buon beuitore? come dice il medesimo:
Poi se ne vien, doue col capo giace,
Appoggiato al barile il miser Grillo
Hauealo uoto, e hauea creduto in pace
Godersi un sonno placido, e tranquillo,
Troncogli il capo il Saracino audace
Esce co’l sangue il vin per uno spillo,
Di che n’ha in corpo più d’una bigoncia,
Di ber si sogna, e Cloridan lo sconcia.
Gio. Bottero Benese, nelle sue relationi d’Europa, dice, che i Germani son dediti fuor di modo alla gola, et all’ebrietà; onde segue, che dificilmente diuentano prudenti: percioche non è cosa, che più offuschi l’intelletto, et imbestii l’animo, che la crapula, et il vino, et per la gola patiscono molte infirmitadi. Et dice
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che nella guerra la caualleria Tedesca è di spesa, e d’impaccio, anzi che di giouamento, et di utilità, et la ragion è questa; che i caualli si togliono dall’aratro, et gli huomini dalla stalla. I Siracusani si ubbriacauano fino quattro giorni intieri. perche credete voi, che Mezentio porgesse aiuto à Toscani? solamente, perche haueuano buon uino: non voglio che il tempo mandi nel fiume d’obblio la memoria di un gentilhuomo d’uno città di Lombardia, chiamata Pauia, che sapeua qualche cosa circa le lettere; ma pouero, et goloso, come un gatto: se alcuna uolta era inuitato a disinare da qualche gentilhuomo, il quale hauesse fatto disinare da huomo temperato, e sauio, doppo incontrandosi in qualche suo amico, dal qual dimandato li fosse, oue hauesse mangiato, rispondeua piangendo: in inferno leccardorum; Ma quando mangiaua con qualche gentilhuomo, il quale hauesse la tauola piena di molte varie, et diuerse uiuande, et dimandato doue mangiato hauesse da altri gentilhuomini, con faccia allegra, et una foce gagliarda, e chiara, rispondeua: Non in Apollinem, come Lucullo: ma in Epulonem: ancora che il misero fosse tanto goloso, haueua però del deuoto, di sorte, che ogni volta, che sapeua di non perdere l’inuito del disinare udiua messa; et dimandato, che gratia à Dio chiedesse, egli soggiungeua: Hanc unam peto: di godere, trionfar bene in questo mondo, et meglio nell’altro, et s’era ripreso da qualche amico, ò parente, di voracità, li rispondeua: Nescitis quicquam. Poi loro faceua uno argomento à primo ad ultimum, che sempre haueua in bocca; ma piu in opera, et diceua hauerlo imparato in Basilea in una tauerna da un Filosofo Tedesco, qui erat maximus doctor, dum potauimus, il quale argomento era di tal tenore: Qui bene bibit, et bene edit, bene dormit; qui bene dormit non peccat, qui non peccat vadit in paradisum. Ergo si uolumus ire in paradisum, bibamus, et comedamus egregie: et haec est scala coeli. Sono numerati fra gli ubriachi da Caristia, Filippo Re di Macedonia. Antigono, come scriue Philarco. Demetrio, come Polibio, et Agione Re de gli Mitii, morì ubbriaco, ò che felice morte. Racconta Phania, che Scotta figliuolo del Re Creonte si ubriacaua ogni giorno, et se per auuentura fosse stato un giorno sensa si stimaua piu che morto. Si faceua poi portare per la città sopra un seggio d’oro, come se hauesse trionfato per qualche illustre uittoria; ma udite questo bello Epigramma composto da Polemone sopra Hircadione Re de’ beuitori.
Hircadionis habet tumulus hic ossa bibacis,
Erectusque urbis proximus ille viae huic
Charmilus, et Dorei posuerunt mortuus est vir
Dum magni calicis ebibit iste merum.
I Siciliani erano tanto ingordi, et voraci, che alzorno un Tempio alla Voracità; accioche questa tale Dea non gli lasciasse mancare l’esca,
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et il vino, et non si può dire, che non fossero deuoti hauendo fatto opera tale. Era tanto giotto Hiperide, che auanti giorno correua fuori di casa, perche non fosse da qualche uno altro tolti i megliori bocconi, ne mai haueua tanto sonno la mattina, che la gola non lo potesse destare. Aristippo era tanto mangiatore, e goloso, che quando uedeua quelle parole di Platone, le quali sono queste. Quod in die aut semel, comedatur parcè, aut bis parcissime. Subito con tanta colera stracciaua quella carta, oue erano scritte, et l’abbrusciaua, che nulla più. Era una golosità astuta quella, che Crobulo Comico racconta di colui, che per timore, che gl’altri non mangiassero, diceua:
Ad haec ego certè nimis colentia,
Nunc frigidas habeo manus.
Io non voglio, che il silentio mandi in obliuione la nobile memoria d’un gentil Cortigiano, il quale non si dilettaua ne di pompa, ne di delicie, come sogliono fare molti gentilhuomini di simil sorte: in casa non hauea ne specchio, ne pettini, se non quelli, che teneua in [bocca], co i quali a tauola pettinaua come un paladino, nè adoperaua forchetta, ma con le dita, le quali con tanta prestezza, et celerità adoperaua, che alcun suonatore di liuto. Se mangiaua come un paladino; beueua come un gigante: Sempre voleua il vino Giudeo; perche diceua, che l’acqua era fatta per i pesci, et per le bestie, non per i galant’huomini pari suoi. Costui beuea bene, et tanto deuotamente, che ogni volta li veniuano le lagrime da gli occhi, et benche si hauesse posto un secchio di vino alla bocca, quando spiccaua il uaso da i labri, erano tanto asciuti, quanto se fosse stato di mezzo giorno al Sole, quando egli è in Cancro, ò in Leone. Se dormiua, dormiua commodamente bene; perche fra giorno, et notte non si riposaua meno di sedici hore, et questa era la sobrietà, la gentilezza di questo gentilhuomo. Margutte è tanto noto, che non accade, ch’io di lui scriua; ma in vece sua scriuerò di Erisitone, che mangiò tutte le sue facoltà, et vendè la figlia, come dice Ovidio nel lib. 8.
–tandem demisso in uiscera censu
Filia restabat, non illo digna parente
Hanc quoque vendit inops.
E così Eristone vendè la figlia più volte et, à l’ultimo mangiò se stesso; onde Ouidio disse:
Ipse suos artus lacero diuellere morsu,
Caepit, et infelix minuendo corpus alebat
I quali versi tradotti in ottaua rima dal Maretti suonano:
Le stesse membra incominciò col dente
Ad ammorsar la carne sua ingogiata,
Il nutrimento il misero porgendo
Al corpo, il corpo stesso sminuendo.
Questi sono gli essempi de gli huomini incontinenti, con i quali se si habbi da comparare il sesso donnesco ditelo, et consideratelo uoi; perciò che io credo,
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che commettessero più atti d’incontinenza Eliogabalo, et Nerone soli, che tutte le donne insieme: ancorche fossero tutte le morte, le uiue, et uenture unite. Io tralascio di raccontar, che l’osterie siano sempre piene di questi continenti maschi, et cosi tutti i luoghi, oue si uende uino, essendo queste cose à tutti notissimo, si come anco è chiarissimo, che donne non si ritruouano in simili ridutti, et luoghi.
De gl’iracondi, bizzari, et bestiali.
Cap. IIII.
E tanto detestabile, et uituperato il uitio della fiera, et precipitosa iracondia, da ogn’uno, che sempre senza dubbio merita riprensione, et spesso castigo, nè meno ella oscura il lume della ragione di quello, che facci l’incontinenza, ancorche alcuni l’ira, incontinenza chiamassero. O di quanti homicidii ella è cagione; percioche essendo l’ira, come dice Speusippo: Prouocatio irascibilis animae partis ad ulciscendum. Spinge souente gl’huomini adirati à commettere simili eccessi per vendicarsi, et ben spesso per leggierissimo oltraggio vien leuata la cara vita al altrui, et questo accadde; percioche l’ira il più delle volte accieca affatto la ragione, come si legge nel lib. 5. della Politica, al capitolo decimo; et ch’ella offuschi l’ingegno, è cosa certa; percioche si uede non rare volte un carissimo amico, un’obbediente figliuolo in un subito lasciarsi trasportar tanto dalla colera, che offende ò l’amico, ò il caro padre, et dipoi auuenendosi piange il commesso errore, la qual cosa osseruando l’Ariosto disse nel Canto trigesimo, stanza prima.
Quando vincer da l’impeto, e da l’ira
Si lascia la ragion, ne si diffende,
E che’l cieco furor si innanzi tira,
O mano, ò lingua, che gli amici offende,
Se ben dapoi si piange, e si sospira,
Non è per questo, che l’error si emende;
Lasso io mi dolgo, e affliggo in van di quanto
Dissi per ira al fin dell’altro canto.
Per il più s’adirano gl’iracondi con quelli, co i quali meno si dourebbono adirare, o di cose lieui, e sprezzabili, et molto piu di quello, che deurebbono, cosa certo indegna, et con bestemmie, et con gridi horribili assordano il mondo; onde si può dire con Ouidio:
Crimina dicuntur, resonat clamoribus ether,
Inuocat iratos est sibi quisque deos:
Pertinet ad faciem, rabidos compescere mores:
Candida pax homines, trux decet ira feras:
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Ora tument ira, nigrescunt sanguine uenae;
Lumina Gorgonio seuius angue micant.
Ad Alessandro Re di Macedonia io darò il primo honore accioche non auuampasse d’ira. Era tanto estremamente agitato da questa furia infernale, che non sapeua frenare la sua natura. Però fece molti atti indegni, come uccider Clito, et altri Illustrissimi huomini di grandissima auttorità, come Plutarco racconta; et però dice il Petrarca.
Vincitor Alessandro l’ira vinse.
Ma che dirò io di Valentiano Imperator di Roma, Ungaro di natione? il quale si adirò tanto fieramente contra certe legioni, che li si ruppe una vena nel petto per lo gridare, et poi versando l’anima, e’l sange si morì pieno d’ira. Che di Catone? che entraua in tanta rabbia, che non si po[t/r]ca ne con preghi, ne con altra cosa placare. Ma di più crudele, et fervente ira fù pieno Perso Re di Persia, che uccise dui, i quali amicheuolmente lo consolauano. Si può uedere il più brutto essempio di costui? poi che priua di vita, chi con dolci parole cercaua di mettere allegrezza nell’animo melanconico di lui. Ma doue lascio Cambise, ancor esso Re di Persia? che non potendo hauere la figliuola del Re d’Egitto viua, fece tirarla fuori della sepoltura, et fece col ferro piagarla, et batterla, et dipoi abbrusciare, come dice Battista Ful. ben rabbia veramente irrationale, incrudelire contra un corpo essanimato. Herode Re de’ Giudei, figliuolo d’Antipatro, essendoli detto, che la moglie li voleua dare il veneno amatorio, senza cercar più oltre, preso da una feruente ira la fece ingiustamente uccidere. Ma dopo essendosi scoperta la verità, et raffredato quello acceso furore irrationale piangendo la chiamaua. Onde parlando di lui il Petrarca dice;
Vedi com’arde prima, e poi si rode,
Tardi pentito di sua feritate
Mariane chiamando, che non l’ode.
Ezzelino, che per l’ira commise tante crudeltà, non lasciaremo già a dietro? però lasciarò à dietro quello, che per ira fece verso gli altri, et solamente voglio descriuer quello, che fece verso se stesso: essendo ferito fù preso in battaglia, et fù medicato, et consolato assai, ne in lui mai si potè spegnere l’ira; et non hauendo armi, con che ferirsi tenendo sempre gli occhi fissi in terra pieno d’una ostinata iracondia si slegò la ferita, et la stracciò, cosi finì la vita, come scriue il Sabellico, et di lui dice l’Ariosto;
Ezzelino immanissimo Tiranno,
Che fia creduto figlio del demonio.
Valerio Pubblicola per colera renunciò tutti i gradi honorati. I Francesi, come dice Tito Liuio sono di natura iracondi. Ira grandissima fù quel-
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la di Tideo come narra Statio nella sua Thebaide, ilquale hauendo fatto amicitia con Polinice andò con gli altri regi contra Thebani, et essendo in battaglia s’incontrò in Menalippo, ilquale era in aiuto de Thebani, et da lui fù grauemente ferito, et Tideo pieno di grande ira l’uccise, et dapoi vedendo che la sua ferita era mortale, si fece portar la testa di Menalippo, et con grandissima ira rodendola si morì. onde il Petrarca ragionando dell’ira dice;
L’ira Tideo a tal rabbia sospinse,
Che morendo ei si rose Menalippo.
Solimano fù anchor egli pieno di una cholera irrationale come dice Torquato Tasso; perche dopo che hebbe ucciso Argillano, fece oltraggio al morto corpo.
Nè di ciò ben contento: al corpo morto
Smontato dal destriero, ancho fa guerra;
Quasi Mastin, che’l sasso; onde a lui porto
Fù duro colpo, infellonito, afferra.
Et Marganor arrabbiato d’ira contra Drusilla, come l’Ariosto dice.
Tal Marganor d’ogni mastin, d’ogni angue
Via piu crudel fa contra il corpo essangue.
E Granponio fù molto cholerico, per quel che dice l’Ariosto;
Si che senza poter replicar verbo
Volta il destrier con colera, e con stizza.
Aiace figliuolo di Telamone, quando che i Greci giudicorno degno Ulisse dell’armi d’Achille, et priuorno lui, n’hebbe tanta ira, e dispetto, che diuentò matto, et furioso; et finalmente s’uccise; però udite quello, che dice Ouidio di lui.
Hectora qui solus, qui ferrum, ignesque iouemque
Sustinuit toties, unam non sustinet iram:
Inuictumque virum vicit dolor. arripit ensem,
Et meus hic certè est: an et hunc sibi poscit Ulisses?
Hoc ait utendum est in me mihi: quique cruore
Saepe Phrigium meduit: domini nunc cede madebit
Ne quisquam Aiacem possit superare, nisi Aiax
Dixit: et in pectus tum demum Vulnera passum
Qua patuit ferro, lethalem condidit ensem.
Hor pensate voi, se questa doueua essere ira da giuoco. Ma di Achille, che diremo noi? che quando Agamenone dice di torli la figliuola di Briseo, tanta è l’ira, et il furore, che auampa come dice Homero nel primo libro dell’Odissea, che tradutto in ottaua rima da Luigi Grotto cosi suona;
Qui tace, e siede il Re. Ma un furor folle
Tanto il figlio di Theti in questo auampa
Che’l sangue intorno al cor, s’accende, e bolle
[page 122]
E un fortissimo duol nel sen s’accampa.
Et più sotto, quando si era alquanto placato, hauendo veduto Minerua; però non mancando di usare parole oltraggiose ad Agamennone, le quali son queste:
Achille, che de l’ira anco riserua
Nel cor qualche reliquia al Re proteruo,
Conuerso grida in uoce acra, et acerba:
O de Greci signor del vino servo,
Di mente puerissima, e superba
Re, ch’ai faccia di cane, e cor di ceruo,
Come per guida sua questo bel campo,
Elesse un’huomo più timido, che un tampo.
Considerate un poco, se l’ira in costui era gagliarda non hauendo rispetto più al Re Agamennone, che hauesse hauuto à un suo minimo seruo. Ma che diremo di Gìa? che come si vidde Cloante vicino nel giuoco delle naui, arse di tanta colera, che senza hauer rispetto al suo decoro, prese Minete nocchiero, e guida della sua naue, e l’auuentò nel mare: come dice Verg. nel lib. 5. dell’Eneide:
Tum verò exarsit iuueni dolor ossibus ingens,
Nec lachrymis caruere genae, segnemque Menatem,
Oblitus, decorisque sui sociumque salutis,
In mare praecipitem puppi deturbat ab alta:
Ipse gubernaculo rector subit: ipse magister.
Questi versi tradotti in lingua volgare dal Caro, tali sono:
Grand’ira, gran dolor, et gran vergogna
Ne sentì il fiero giouine: et piangendo
Di stizza non mirando il suo decoro;
Nè che Menete del suo legno seco
Fosse guida, e salute; in mezzo il prese,
Et da la poppa in mar lungo auuentollo,
Poscia ei nocchiero, e capitano insieme,
Diè di piglio al timone.
L’ira è uno distruggimento di tutto le virtù, come dice il Trissino;
Ma se tu lasci dominarti à l’ira,
Quale eccellenze haurai, che non ti guasti?
[page 123 folio 58]
De’ Superbi, et Arroganti.
Cap. V.
Lo stimarsi, et il giudicarsi più degno, et più nobile de gli altri senza dubbio è atto di superbia: non essendo la superbia altro, che una falsa estimatione di se medesimo, per la quale si crede di hauere una libera superiorità, et imperio sopra ogni persona, ancorche magnifica, et grande; et l’huomo alleuato da questo pensiero ne diuiene arrogante , insolente, sprezzatore di Dio, et de gli huomini, vantatore, ostinato, ambitioso, et ingrato nelle sue attioni, et per concluderla è una radice, et origine di grauissimi errori, come lasciò scritto il sauio Salomone nell’Ecclesiastico al capitolo decimo. Furono molti gli huomini superbi, ai quali, come dice Pub.
Citò ignominia fit superbi gloria.
Io incominciarò da Giulio Cesare, accioche godi la superiorità de gli altri superbi. egli haueua pensieri tanto alti, et eleuati, che non ui era cosa tanto grande, che non li paresse di meritarla; udiste voi la maggior arroganza di questa?
E Plutarco racconta di Camillo, che hauendo hauuta uittoria contra Veii, tanto era in costui grande l’allegrezza, et il fasto, che facendo il trionfo trapassò tutti i riti ordinarii, et sdegnando le solite pompe salì sopra una carretta, la quale era solamente riseruata al Re, et al padre de gli Dei: segno euidente di un’animo gonfio d’una estrema superbia: nè merita già silentio l’arroganza di Catone, per la quale fece meravigliare il Re Tolomeo, il quale volendoli parlare, non li andò incontro, non si mosse di camera, nè pur dal [;] seggio, segno (dice Plutarco) du un’animo rusticale, et superbo. Tito Liuio vitupera l’alterezza grandissima di Annibale, ilquale doppo la vittoria riceuuta di Canne, si alzò in tanto fasto, che venendo i suoi Cittadini, non si degnò ragionar con loro, se non per il mezo d’interpreti. Et Caligula fra gli altri suoi pessimi vitii, fece uedere la sua alterezza, e superbia, della quale era tanto pieno, ch’io mi merauiglio, come non gli scopiasse il cuore, non guardaua alcuno con dritto occhio, sprezzaua le altrui virtù, nè le sue amaua; perche in lui non haueuano albergo. Non lasciarò Domitiano superbo, quanto imaginar si possi, che senza scoprirla, mai non operaua cosa alcuna. Et Roboam figliuolo del sapiente Salamone, essendo succeduto nel regno del padre, venne in Sichen, doue era unito tutto il popole d’Israele, et usò grande alterezza; perche pregandolo il popolo, che allegerisse il giogo, che posto hauea suo padre, sprezzando il consiglio d’ogni uno, rispose queste superbe parole, che’l suo minimo dito era più grosso delle spalle paterne, et che se lui li percosse con la verga, egli li percuoterebbe col bastone. Superbo al possibile fù etiandio
[page 124]
Nicanore, al quale essendo detto per opprimere la sua alterezza, che’l signore, et padrone del tutto sta nel Cielo, egli rispose, et io sono in terra potentissimo signor della guerra, et dell’armi. Non voglio, che questa compagnia di superbi resti senza Nabuchodonosor, che à me parerebbe di fargli un grandissimo torto; egli fù si altero, che Dio per punirlo gli tolse l’ingegno; Onde andaua per campagna come un bue mangiando il fieno, et di lui ragionando il Petrarca dice,
Che superbia condusse à bestial vita.
Et il superbo Seuitione non voleua se non cose grandi, voleua seruitori grandi, destrieri grandi, et per maggior pazzia essendo egli grende [sic! grande] assai, caminaua in punta di piedi per dimostrarsi più grande. Come dice Apuleio gli Egini sono per natura superbi. Timeo Siculo si pensò di superare nell’istoria Greca il famoso Thucidide, della qual cosa ride Plutarco. Ne voglio tacere l’ardire temerario di Nembroth, che per contrastar col Cielo, edificò l’alta torre di Babele, che come scriue il Petrarca.
Che fù sì di peccati, e d’error carca.
Iuuenale Poeta vitupera la Romana alterezza; oue lasciò Senapo Imperator dell’Ethiopia, che era tanto superbo per la richezza, che come dice l’Ariosto:
Diuenne come Lucifer superbo,
E pensò muouer guerra al suo fattore,
Con la sua gente la uia prese al dritto,
Al monte, ond’esce il gran fiume d’Egitto.
Inteso hauea, che su quel monte alpestre;
Ch’oltre le nubi verso il Ciel si leua,
Era quel paradiso, che terrestre
Si dice, oue habitò già Adamo, et Eua.
Con camelli, elefanti, e con pedestre
Essercito orgoglioso si mouea
Con gran desir, se v’habitaua gente
Di farla à le sue leggi ubbediente.
Et Dio ottimo Massimo per farli in parte deponere la superbia, lo privò del lume de gli occhi, et gli mandò l’arpie alla mensa; ma prima gli hauea fatto uccidere l’essercito dall’Angelo; cosi veramente meritano questi fastosi, insolenti, et superbi huomini, che vogliono pigliare guerra con Dio; ma perche tanta superbia, ò huomini fratelli?
Non v’accorgete voi, che sete vermi, come narra Dante? Rodomonte, come dice l’Ariosto, non cedeua punto à Nembrotte, come mostra in quella stanza, canto 14.
Rodomonte non già men di Nembrotte
Indomito, superbo, e furibondo,
Che d’ire al Ciel non tardarebbe a notte,
Quando la strada si trouasse al mondo.
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Et Torquato Tasso mostra Gernando nel suo Goffreddo, essere un superbo huomo in quei versi, mentre inuidia à gli honori di Rinaldo, dicendo:
Mentre in questo superbo i lumi gira,
Et al suo temerario ardir pon mente.
Et tanta fù la sua superbia, che Rinaldo spinto da giusto sdegno, l’uccise meritamente, et Guelfo parlando a Goffredo, scusando Rinaldo dell’homicidio, dice:
Dunque à ragione al tumido Gernando
Fiaccò le corna del superbo orgoglio.
Menecrate Medico, era tanto superbo, che uoleua esser chiamato Gioue da gli ammalati, nè altro premio lor chiedeua. Essendo un gentilhuomo di Ragusi à Venetia da maritare, di casa Babala, et domandogli un suo amico se pigliarebbe una Cittadina Venetiana, con dote di diece mila ducati, li rispose in colera, ch’egli hauea poco ceruello, et che era poco prattico della nobiltà della sua città; l’amico non li rispose altro: ma soggiunse, pigliaresti una gentildonna Venetiana? egli li rispose; accioche non vi affaticate in propormi nuoui maritaggi, ui dico, che se il Re Filippo volesse darmi una sua figliuola, io ui pensarei à pigliarla. Che ui pare, udiste mai la maggior arroganza di questa? Ma non voglio tacere un’altro atto simile à questo. Era nella istessa città un gentilhuomo, il quale si nomaua Nicolò di Primo. Lasciò costui morendo à una sua figliuola sessanta mila scudi di dote, et perche discerneua il vero dal falso, hauea determinato, che fosse data per moglie à un gentilhuomo Venetiano. Per il qual testamento fu chiamato huomo di poco ingegno; percioche stimauano non ui esser persona degna di lei nelle altre città. Et se con questi nobilissimi Ragugei alcuno ragionasse delle Republiche, et domandasse loro, quali sieno più grandi, et nobili, subito dicono, che quella di Ragusi passa ogni altra, et che è eguale alla Romana. La Venetiana dicono, che alquanto se gli accosta; ma la Genouese le è molto inferiore.
[Page 126]

De gli Otiosi, Negligenti, & Sonnachiosi
Cap. VII.

NON è dubbio alcuno, che couli, il quale desidera di menar uita Politica, e ciuile, ò che di fama sia desideroso, & di viuere secondo la ragione, deue fuggire in tutto, & per tutto l’otio, come pestifero veneno; veneno à punto, che ammazza l’huomo, anche viuo, come si legge in Seneca, che lo chiama Viui hominis sepultura; Percioche l’huomo non si essercitando in operationi honorate, né dell’animo, né del corpo si può dir morto al mondo. Rende l’otio senza dubbio l’huomo priuo d’ogni uirtu, & lode. Onde il Petrarca disse à ragione:
La gola, e’l sonno, e l’otiose piume
Hanno del mondo ogni virtù sbandita.
Et lo pose in compagnia della gola, & del sonno; percioche queste sono due doti, & eccellenze dell’otio goloso, & sonnachioso, & in somma d’ogni incontinenza cagione; Onde Mercurio Trimegisto, quel grande disse, hauendo considerate tutte queste cose, che l’otioso diuiene una bestia imprudentissima, & d’ogni sceleraggine albergo, con il corpo languente, e debole: Aggiungi, che la fama à un tale di può dir morta; percioche chi non si affatica, indarno aspetta di essere per le bocche de gli huomini inalzato fino al Cielo. Et però Oratio considerando questo, lasciò scritte parole tali:
Dii nobis laboribus omnia uendunt,
Qui foelices aliquando esse uolunt laborare debent,
Qui studet optatam cursu contingere metam:
Multa tulit, fecitque puer, sudauit, & alsit.
Et chi è colui, che per il mezo dell’otio si facci immortale, come ben dice Sallustio, & Dante,
Che feggendo in piume.
In fama non si vien, ne sotto coltre.
Certo non si può uedere la maggior infelicità di uno ingegno otioso, il quale non può sentir questo verso di Dante:
Ratto ratto, che’l tempo non si perda.
Et io spinta dalle sue parole, uoglio esser breue circa questi otiosi, i quali non uogliono affaticarsi un’hora, se credessero di uiuere eternamente gloriosi. Torquato Tasso volendo mostrare, che l’otio non è la scala da salire à gli honori, fa dire questa parole a Rinaldo da quel saggio ueccio.
Signor non sotto l’ombra in piaggia molle,
Trà fonti, e fior, tra Ninfe, e trà sirene;
Ma in cima a l’erto, e faticoso colle

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De la uirtù riposto è il nostro bene.
Chi non gela, non suda, e non s’estolle
Da le vie del piacer là non peruiene.
Hor vorraitu, lungi da l’alte cime,
Giacer quasi tra valli augel sublime?
Horuù Voglio venir a gli essempi. In tal vitio famoso il primo sarà Attalo, il quale diede l’imperio ad vn’altro per non fare cosa alcuna, come dice Celio, huomo in vero degno d’ogni lode, ne a lui fù molto dissimile Vativa Seruilio, che tanto li piacque tenere le mani alla cintola, che passò in prouerbio. Come scriue Volate. Vincislao per la sua negligentia fù scacciato dall’Imperio. Plato scriuue, che Scipio fù sonnolento, & si può ben pensare, che compagnia ha il sonno, & chi non lo sa, legga questi quattro versi dell’Ariosto;
In questo albergo il graue sonno giace,
L’otio da vn canto corpulento, e grasso
Da l’altro la pigritia in terra siede,
Che non può andare, e mal si regge in piede.
Tra questa nobile compagnia staua Scipio sicuro, & senza stanchezza veruna, diceua che la guerra vccideua extra tempus & che il sonno, & la placida quiete conseruaua la uita lunga, & corpo grasso. Non accade, ch’io parli de Lucani, et de Massimiliens, che haueano piu in odio gli eserciti, & l’operationi, che il Diauolo infernale. Ma non voglio tacere l’otio di Domitiano imperatore, che lasciando le attioni di consideratione attendeua con gran solicitudine a pigliar mosche, e doppo che erano prese le infilzaua in vn stilletto bene aguzzo, & vno dimandando vn giorno se alcuno era in camera con lo Imperatore li fù risposto, che non vi era pue vna moscha, questo era il pensiero, che si pigliaua del Regno questo sollicito Imperatore. Mon voglio, che resti a dietro Dauid Comneno gouerator di Tessalonica, Città Illustre, laqual essendo assediata da l’essercito Siciliano staua in contuno riposo: i nemici hauendo condotte le machine, & altri istrumenti bellici alle mura, egli era come spettatore. In tutto il tempo di questo assedio non mandò mai soldato alcuno alle mura, ne egli stesso voleua sentir la grauezza delle armature, dicendo che il ferro cinto intorno per una certa sua qualità abbreuiaua la vita. Saliua spesso sopra vna muletta, & andaua solazzando per la Città con gli stiualletti trapunti d’oro, & la veste allacciata di dietro, lo negligente gouernatore, che haueua oiu bisogno della balia, che mai rideua con i suoi amici, mentre i nemici percoteuano le mura, & cadeuano in pezzi, & diceua. sentite il muggire della vecchierella, & questa era una grran machina, che percoteua la Città. Cosi in poco tempo fù presa Tessalonica per la inuitta virtù di questo veloroso gouernatore, come scriue Niceta Acominato da Chone.

 

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De gli Huomini Tiranni, & vsurpatori de Stati
Cap. VII.
IO non credo, che fra tutti gli huomini pessimi del mondo vi sia il pegiore del Tiranno: non essendo egli da legge alcuna gouernato, come si legge nel libro quarto della Politica al capitolo decimo: anzi si come de gli altri regi l’oggetto, & il fine di operare è l’honesto, & il giusto, cosi del Tiranno è il proprio l’utile, & il commodo, che li serue, come scriue Aristotile nel quinto della Politica per ragione, & per legge vn placet, ciò è la propria volontà, dicendo fit pro lege voluntas, la quale è sempre pessima: percioche procurano con ogni uiolenza di leuare i potenti, & di uccidere le persone saggie, e prudenti. Miseri coloro, che sotto vn Tiranno conuitassero, & praticassero per cagione di scienze, o d’altro, & fanno questo, accioche in tutto si estingua l’amicitia de’ popoli; non mancano huomini scelerati, che uanno spiando quello, che fanno, & dicono i Cittasini. cerca il Principe Tiranno, di eccitare discordie tra i piu potenti, & i plebei con la nobiltà, et alhor gode, percioche tutto il loro hauere a se tirano. Aggiunge, et pone ogni giorno noui triburi per succhiare il sangue a i popoli infelici, et cosi fece Dionisio, che in cinque anni priuò tutti i sudditi del prorpiro hauere: et per concluderla il Tiranno ha questi tre pensieri, come dice Aristo. di render gli animi de’ Cittadini timidi, et uili; il secondo in procurar, che vno non si fidi del’altro; il terzo, che non possino per la pouertà operare alcuna cosa di momento, ne tentarla. Dio buono, che horrido mostro è al mondi il Tiranno? gia che procura tutte queste cose uerso il suo popolo, volendo che la sua volontà sia legge, et piu che legge. Quanto ella sia pessima, ogni giorno si uede con miserabili essempi de popoli: poi che tanti innocenti sono da loror della robba, et della vita priuati, et in somma che si sogna il Tiranno. Sei tenuto a metterlo il giorno in essecutione: percioche Tirannus imperatur ciuitati non secundum honestum, sed secundum propriam sententiam, come dice Speusippo, et però ingiusto, auaro, crudele è sempre il Tiranno, riguarsandolo solo a l’utile, et non a quello de’ sudditi suoi: sempre brama uccisioni, perche semore ha sospetto. Capo de’Tiranni uoglio, che sia Alessandro, ilquale essendo regnato in Giudea sette anni fece morire cinquantacinque milla di quelli già uecchi solamente per hauerlo ripreso delle sue tiranniche crudeltà. Oltre ciò dimandò ad un suo amico, come farebbe a riconciliarsi col suo popolo, egli rispose con la morte, et egli fece appiccare per la gola su la piazza di Ierusalem ottanta huomini maritati, et i figliuoli, et le mogli fece miseramente morire. Da questo si comprende, che il tiranno non opera giustitia, non legge, ma solo un placet. Vdite questo, che scriue Plutarco, tutti gli antenati di

 

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Antigono, & di Demetrio ammazzauano i figliuoli, i fratelli, & le mogli per timore, che alcuno di loro si impatronisse, volendo soli regnare. però i tiranni sempre auelenano, et vccidono senza ragione alcuna. Ma il Tiranno Niceforo oue rimane eli? non hauerà forsi luogo appresso gli altri par suoi? voglio che habbi luogo honorato, & luogo degno di vn tanto perfido tiranno, che non facendo questo son certa, che se li farebbe grandissimo torto, & potrebbe sospettare di non essere tenuto cosi fiero Tiranno, come era. Sotto l’imperio di questo pessimo huomo molti piangeuano alle sepolture de morti chiamandoli con lagrimose parole felici, & fortunati, poi che non erano sotto la Tirannide del crudel Niceforo, altri si impiccorno da se stessi per vscir fuori delle ribalde mani. tutti i loro haueri furno volti da costui. commandò poi che i poueri fossero scritti nella militia, & che s’armassero poi contra à suoi compatrioti, & fossero tenuti a pagare al fisco diciotto monete isnieme con tutto il suo parentado, per tributo publico. Diede ancjora questa afflittione a gli habitatori delle case di rispetto, de gli orfani, de gli hospitali Serocomii, delle chiese de monesteri, facendo porre i censi per ciascun fuoco. comandò anchora, che tutte le cose migliori fossero portate alla corte Imperiale. Fece una altra tirannia, comandano a i gouernatori, che guardassero quelli, che erano creati Senatori, tutto che fossero in grandissima pouertà. Voleua, che sa essi si scotessero denari, come se fossero stati ricchissimi, & trouatori de thesori. Oltre questo voleua, che tutti coloro, che passuano venti anni, a’ quali fossero stati trouati dogli, ouero altri uasi fossero priuati di tutti i loro denari. Constringeua poi i marinari, che habitauano alla marina a comprare le cose, che ricoglieua dalla terra per quel pretio, che a lui pareua. Oltre questo fece che i marinari famosi di Costantinopoli dessero quattro misure di moneta a vsura, & che pagasseo dodici libre d’oro l’anno. Voglio scriuere questo atto fra tanti di auaritia di questo crudel Tiranno. Era in diazza un certo Cerolatio, che viueua delle sue fatiche, & non haueua bisogno di cosa alcuna, il fece chiamare questo diuoratore dell’hauere altrui, & li disse, metti la tua mano sopra la mia testa, & giurami quanti denari hai, ricusaua il misero parendoli cosa indegna; nondimeno lo constrinse a giurare, & dirli come haueua cento libre d’oro: subito il pessimo Imperatore fece portarsi quel oro, dicendo che bisogno hai tu di quest’oro? pigliane diece libre, & uattene contento. Oltre questo sempre mandaua spie, a uede come si faceua, & uiueua nelle case, & mandaua secretamente alcuni serui maligni per far danno a’ padroni. Dubbitaua nel principio di tutte le cose, che li erano dette, & dapo affermaua le false accuse. Ma sono tante, & tali le crudeli, & scelerate Tirannie di Niceforo, che io sarei troppo lunga,se io ne uolesse raccontare la minima parte, & offenderei le orechcie altrui; queste scriue Niceta Acominato. Ma che diremo

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noi di Seleuco? a cui essendo morto il Padre, per regnar solo uccise il fratello. che di Aristobolo Re della Giudea? il quale priuò di vita il fratello Antigono. antonio Caracalla Imperatore Tiranno crudele uccise in braccio alla madre Geta suo fratello; perche dubitaua, che crescendo non li leuasse l’Imperio. Onde a ragione Torquato Tasso chiama i Tirani purpurei; perche sono aspersi del sangue de gli inocenti. Tito Liuio racconta di Heronimo Tirnno. Costui disprezzaua, & faceuasi beffe d’ognuno. Era inuentore di noue crudeltà, & tormenti. Onde era nato uno spauento tra popoli, che molti huomini con la morte uolontaria, ò con la fuga schiuauano il pericolo de gli aspri tormenti, ne si fidaua di alcuno, che questo è proprio sospetto del Tiranno. Ma fuggiua ogn’uno, come faceua Dionisio, il quale per grandissimo sospetto si faceua tosare alle proprie figliuole, mentre erano fanciullette; ma come furno grandi, si abbrucciaua la barba, & i capelli con scorze di noci per non si lasicar approsimare alcuno. Isaccio Comneno anchor egli fù un poco amoreoole Tiranno, et oltre le altre cose da lui fatte malamente uoglio scriuere questa. Hauendo hauuto una uittoria contra Brana, che nella guerra fù ucciso, essendo giunta l’hora del mangiare fece il Tiranno aprir tutte le porte; perche potesse come uincitore esser ueduto da ogn’uno, et essendo già per dar delle mani nelle uiuande, ordinò, che fosse portato la testa di Brana uiuanda in uero poco conueneuole, et facendosene scherno sgarbatamente, la fece gettare in terra con le labra, e gli occhi ciusi, et le daua de’ piedi, et alcuno altro per piacere al Tiranno le gettaua delle pietre, poi la fece appresentare alla moglie la quale staua dolente rinchiusa nel palazzo, et domandolle s’ella conosceua la testa di chi fosse. La ualorosa donna girando gli occhi a quel compassioneuole, et non aspettato spettacolo, sì rispose, et sono infelicissima, et tacque, ne altro disse, et per la sua tanta uirtù, con la quale sapeua sofferire patientemente le percosse di fortuna, ueniua chiamata honore delle matrone, et ornamento della propria famiglia.
Io potrei addurre molti essempi de gli huomini Tiranni; Ma percioche sotto li crudeli gli ho posti, non mi affaticarò intorno a questo molto; solamente io dirò, che Phidone fù Tiranno de gli Agri, Phalaride di Iona, Panetio de Leontini, Cippsello di Corinto, Pisistrato di Atene, Periandro di Ambraccia, Archelao, Gelone, et infiniti altri de Lacedemoni, e de Siracusani, i quali tutti hebbero, et a ragione un tristo fine, come racconta Aristoti. nel libro quinto della Politica. Barnaba, come scriue il Gioio, tiraneggiaua stranamente i sudditi suoi; hauendo sette figliuoli maschi cominciò a pensare, come potesse fare ad aggrandire l’Impero, pensò di priuare di uita Glaeazzo figliuolo di un suo fratello, ilquale era stimato un huomo d’ingegno addormentato, et contra l’ordinario della giouinezza non si pigliaua alcun piacere. Onde accordatosi con i figliuoli, cercaua commodità di mettere in essecutione una cosi scelerata, et ingiusta opra. Ma Dio che

 

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talhora non vuol, che i suoi deuoti patiscono, che uno di questi si potea dire Galeazzo; essendosi nella età giouinetta dato alla religione, dece che alcune spie l’auisorno della malignità de’ parenti: tosto che questo intese, finse di uolere andare per sua deuotione à visitare la Chiesa di Santa Maria Vergine, la qual è in montagna: come fu in uia, gli vscì incontra Barnaba suo zio, & Galeazzo con un squadrone d’huomini armati lo prese, & enteando nella città diede al popolo la casa del zio, accioche la spogliasse, & in unpunto ruinò il principato, & tante sue ricchezze si annullorno: ne ui fù alcuno, che essendo rpeso, ardisse di soccorrerlo. Pochi giorni dapoi lo cacciò in prigione, oue finì la sua uita. Et Francesco MAndredi, quasi merauigliando, che nella sua uecchiezza hauesse tanto desiderio d’Imperio, dice:
Qual di mosse furor Barnaba allhora,
Ch’eri nel colmo della tua uecchiezza?
Qual d’Imperio amarissima dolcezza
De l’honesto sentier ti trasse fuora?
Ciò spiacque al mondo, & à Dio spiacque ancora,
Che l’opre triste in su’l principio spezza;
Però cadesti tu da tanta altezza
In cosi basso stato in poco d’hora.

 

De gli ambitiosi, & Cupidi di gloria.
Cap. VIII.
BEnche l’ambitione sia tra le vitiose passioni: nondimeno quando ella sia alquanto rimessa, & accompagnata da piaceuolezza, & modestia, si rende laudabile: come insegna Arist. nel 4. dell’Etica al c.2. ma quando ella stia nella sua propria natura, non è forsi la piu cruda, et horrida fiera al mondo di lei; percioche essendo ella un ardentissimo desiderio d’honore, come si legge nel lib.2. dell’Etica, c.2. spesse uolte per uolerlo conseguire induce gl’huomini à far mille iniquità, & sceleraggini. Laqual cosa osseruando Cicernoe a’ suoi tempi nel desiderio de’ magistrati, & delle dignirà, disse nel lib. ii. de gli Offic. Facilissime ad res ingiustas impellitur, vt quisque est altissimo animo, & gloriae cupido, hinc enim iustitiae obliuio, & inimicitiae. Et percioche, come dice Speusippo, l’ambitioso diuien prodigo per ottener li bramati honori: Spernit enim sumtus honoris gratia: Et mancandoli spesso i danari è spinto à farsi uno iniquo, & scelerato tiranno. Aggiungiamo à tutte queste cose, che per il piu l’ambitioso desidera quelle dignità, che a lui non si conuengono, ò in tempo, ò in luogo poco conueniente. Onde si fa odioso appresso ogni uno, & riputato imprudente, & sfacciato. Voglio porre alcuni essempi di huomini illustri. Il primo sarà Caligula; perche so, che egli he haura sommo

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vedendosi tenere il Principato sopra gli ambitiosi, si come quegli, che li parerà d’hauer conseguito quel che desideraua, cioè di seprarare ciascun huomo, ma non solo gli huomini, ma li Dei come raconta Plinio. In quel tempo usauano i romani tenere le statue de Dei co i capi postici; perche seruissero a diuersi Dei; egli fece leuargli le teste, & metterne delle altre, che haueuano la sua sembianza. Oltre ciò fece fabricare un tempio, & consecrarlo al suo nome, & porre in questo una statua con la sua imagine naturale, ordinando à Sacerdoti, che in quello amministrassero; & faceua la ciascun giorno uestire come uestiua egli faceua anco, che nel suo tempio si sacrificassero pauoni, fagiani, papagalli, & altri uccelli, come si faceua à i Dei: ma udite questa altra ambitiosa inuentione, che farebbe mouer le risa à un corspo estito: andaua etiandio Caligula alcuna uolta nel tempio di Gioue, & fermandosi appresso alla sua statua, fingeua di ragionar seco, hora accostando la sua bocca à l’orecchia di gioue, hora ponendo la sua orecchia alla bocca di Gioue, come se fauellassero insieme, alcuna uolta mostraua, che il longo ragionamento l’hauesse infastidito, & lo minacciaua che lo farebbe portar ein Grecia: fingeua poi di placarsi, & di esser contento, che rimanesse iui appresso di se. Dio immortale, potreste uoi udir cosa più ridiculosa di questa? Alessandro etiandio ambiua tanto gli honori, che si sdegnaua esser chiamato figliuolo di Filippo: ma godeuain sentirsi chiamar figliuolo di Gioue; & come dice Plutarco fidandosi molto nell’essere figliuolo di Dio, era molto insolente uerso i Barbari: & quando quel Sacerdote nel tempio di Gioue Hammone uolendolo chiamar figliuolino in lingua Greca, ma perche era Barbaro, fallando nell’ultima lettera, lo chiamò figliuolo di Gioue, egli ne prese sommo contento. Oltre ciò uoleua dominare tutto il mondo, & hauendo inteso, che ui erano più mondi, si chiamaua misero, & infelice. da wuesto si può comprendere, che gli huomini sono sono satiabili, perche se anco hauessero tutto il mondo, vorrebbono poi il Cielo, né ancora à loro parrebbe forsi assai. Pausania fu desideroso di glorioa in modo tale, che non sapeua, come operare per farsi immortale, & domandò ad Hermode, come egli farebbe per farsi nominare; egli rispose, che vccidesse vn’huomo illusre, & egli udita questa parola corse, & uccise Filippo. O quanto può questo appetito di gloria ne i cuori de gli huomini. Ma che ui pare di colui, che abbrusciò il tempio di Diana Efesa? Né voglio lasciar fuori Nerone, come quello, che desideraua, gli honori, non solo delle cose grandi, ma delle picciole, ancora, come nelle cose del cantare, uoleua sempre hauere i primi honori, fece leuare tutte le statue della città, facendosi porre lui solo, accioche si conseruasse la memoria di lui, & mancasse quella di tutti gli altri. Et Lisandro Lacedmone spinto da desiderio di gloria, haueua sempre Cherilo Poeta, accioche egli celebrasse i suoi fatti, come dice Battista Fulg. Empedocle spinto da gloria, inuidiando un altro, si gettò nel fuoco,
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per rimanere, ancora egli gloriosi. Ma che dirò di Domitiano Imperatore, il quale uoleua, che in tutti i testamenti, che si faceuano, essere notato come nome di Dio. Che del superior Africano, che honoraua molto Ennio Poeta non già per bontà, che in lui fosse, ma solamente accioche celebrasse i suoi fatti, & quelli d’altrui si estinguessero; ma udite questa, che fece Sertorio, il quale uoleua acquistar gli animi delle genti, facendosi credere caro a li Dei. Fù un certo plebeo, per nome detto Spano, il quale cacciando uidde una ceruetta tutta bella, & bianca, inuaghito di si fatto animale, li tenner dietro, & la prese, & donolla à Sertorio. Sertorio hauendola riceuuta, subito à poco à poco la cominciò a vezzeggiar, & in processo di tempo la fece tanto domestica, & amoreuole, che egli chiamandola, lo intendeua, e gli andaua dietro senza paura alcuna nello strepito dell’armi, fra le grida de’ soldati, & il suon delle trombe; volendo poi dare a credere, che l’animale hauesse in se diuinintà, a poco a poco cominciò a diuulgare fra quegli huomini barbari, & affettionati alla religione, che Diana gli hauea mandato à donare quella ceryetta, & che l’auisaua di molte cose secrete. Ogni uolta, che intendeua i nemici esser poco lontani, ò per spie, che posto hauesse, ò per altra cosa, subito fingeua, che la ceruetta lo hauesse fatto auisato, & che li hauesse detto in sogno, che l’essercito si douesse tener in arme, & tutto faceua per parere caro à li Dei, & che ne hauessero particolar cura. Et Scipione Africano doppo che hauea presa la toga virile per farsi tener diuino, ogni giorno saliua in Capitolio, & entraua solo nel tempio, accioche gli huomini credessero, come gà molto prima era creduto di Numa Pompilio con la Ninfa Egeria, cosi acnor egli imparasse nel Tempio alcuni secreti, i quali non si potessero sapere da ogn’uno: & con queste cose uoleua ingannare i popoli, accioche l’honorassero. Torquato Tasso mostra, che Boemondo hauesse un tal desiderio, dicendo.
E fondar Boemondo al nouo regno
Suo d’Antiochia, alti principii mira,
E legge imporre, & introdur costume,
Et arte, e culto di verace Nume.

 

Scorgete voi l’ambitione di costui. Ma ancor, udite la vanagloria di Nerone; che si uantaua delle sue crudeltà, hauendo fatto morire infiniti huomini illustri, diceua, che niuno delli Imperatori stati innanzi lui haueuano conosciuto quanto essi poteuano, eccetto egli. Et dicendo vno cosi per prouerbio commune dapoi, che io sarò morto vada il mondo in ruina, tosto rispose il fiero: Piacciaà Dio, che auanti, che io muoia, questo auuenga. Non uoglio, che Hannone Cartaginese resti fuori di questi uanagloriosi, poiche oper quanto uedere si può, fu il piu cupido, e desideroso di gloria, che forse al mondo fosse. Li uenne in mente un desiderio di sopra auanzar gli altri ne gli honori, et di essere riuerito,

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et adorato per Dio. sopra questo pensaua giorni, et notte; et lascò molti negotii, che importauano, et si affliggeua, perche non trouaua, modo, ò se lo trouaua, era difficile, et spesso si chiamaua huomo di poco ingegno, et di poco cuoro: di poco ingengo; perche non trouaua il modo facile, di poco cuore; perche non ardiua di metter in opera il difficile, temendo di palesarsi; occorendoli in mente l’essempio d’alcuni, che donando denari al sacerdote, si faceuano d’Oracolo chiamar Gioue, et altri figliuoli, et parenti di Bacco. Onde erano poi dalle genti stimati di poco ingegno, et turbati cercaua adunque di ritrouare uia di essere chiamato Dio, ma non da gli huomini, accioche non cadesse in cuore alle genti, che ò per oro, ò per forza, ò per altra cosa con tal nome lo nominassero. Dopo molti giorni, et mesi ritrouò un nuouo modo senza l’interuenimento di persona con tanta sua allegrezza, et giubilo, che huomo mai gustasse. Il modo era questo, cioe di farsi chiamar Dio da gli uccelli, che cantassero, et fossero atti a parlare se ne fece ritrouar molti, et de migliori, ogni giorno poi chiudendosi in una camera lontano dalle genti, fingendo di dormire, ò di fare altra cosa di consideratione, insegnaua con grandissima patienza a quelli uccelli, che dicessero Hamone è Dio, et molte uolte si occupaua tanto in questo, che lasciaua di mangiare i giorni intieri, per non perdere tempo. ò quanti n’uccideua spinto da l’ira, ò lor sterpaua la lingua parendoli, che ò tardi, ò malamente pronunciassero il suo nome. Finalmente dopo molte uigilie, et fatiche imparorno con grandissimo suo contento, sicuro di ottenere il fine tanto da lui desiderato. aperse adunque tutto lieto i luoghi, ouer erano rinchius, accioche usciti che fossero uolando per la città e per altri luoghi dicessero Hamone è Dio, ma sprigionati che furno gli auenturati augelli, non cominciorno a parlare, ma uolando in questa parte, et in quella a godere la cara libertà. Se restasse maleconico, et afflitto Hamone non accadde, ch’io lo conti (pensatelo uoi) uedendosi priuo di quello, che credeua al sicuro di ottenere. Tutti gli uccelli, che dopo questa cosa li uennero in mano, crudelmente uccideua; pestandoli il Becco, et il capo con sassi, uendicandosi in parte della ingiuria da loro riceuuta.

 

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E LA Vanagloria uno immoderato desiderio di manifestar ad ognuno le proprie operationi ben spesso falsamente narrate con la propria bocca, ouer scritti. Ma di palesarle in modo, che per minime, che sieno parino grandi, & lodeuoli. Però sono sempre ispiegate con grandissima copia di parole, con certi modi dire esclamatorii, & con gesti di tali, che pare che ui uogliano porre inanti fatti merauigliosi non mai per l’adietro accaduti. Anchor che disprezzabili, ouer fittitii. Dissi fittitii, percioche per il più sono attribuiti, & falsi, & però Speusippo cosi la descriue. Est obstentatio affectio, quae sibi uendicat ac bona, quae minime ad sunt. Biasimò questo diffetto Arist. nel lib. 4. dell’Ethica. non essendo cosa sa huomo prudente il lodar se medesimo. sono questi per il più bugiardi, & odiosi alle genti. Onde Cicerone in Ver. dice, Omnis arrogantia odiosa, tum illa ingenii, atque; eloquentiae multo molestissima. Ma non sol partorisce odio, ma disprezzo il usntstore, cosi legge nel lib. I. de gli offitii, Deforme Est de se ipso praedicare falsa praesertim, & cum irrisione audentium imitari militem gloriosum. Di costoro, iquali con false lodi si inalzano, io credo cche si possa dire con Oratio.
Parturient montes, & nascetur ridiculus mus.
Et che ueramente sieno huomini di poco ualore, credere si può, costoro, che magnificano le cose loro. Ma accioche si possi uantare di esser stato il primo fra i uantatori Catone maggiore li si darà il primo luogo che come dice Plutarco spesso spesso si uantaua, & oltre mille altri uanti, che à se daua, diceua, che il Senato ne i tempi pericolosi della republica riuolgeua gli occhi in lui, come fanno i passaggieri al tempo della borasca uerso il nochiero. & diceua, che in alcun conto Catone non era obligato al popolo Romano quanto il popolo Romano era tenuto a Catone. Et Cicerone uedendo, che l’essercicito delle armi era honoratissimo, egli che armi non maneggiaua, uolse deprimere la gloria militare, & alzar le lettere suora lei uolendo mostrare, ch’egli acquistaua maggior fama, disse Cedant ò Ciues, cedant arma togae. Et Domitiano quando fù fatto Imperatore si uantò in Senato, come egli hauea dato à suo Padre, & à suo fratello l’Imperio, laqual cosa era falsissima; cosi fanno gli huomini, che non curano l’honor de’Padri, come Domitiano, che diceua che à lui haueua dato l’imp. costoro se stessi inalzando, si uogliono mostrare amici anzi compagni de gli Dei, & si danno ad intendere, che gli altri non uedano i suoi diffetti achille era un gran uantatore, coem si legge nelle Metamorphosi d’Ouidio che mentre chiede à Cigno il suo nome si uanta onde l’Anguillara dice.
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Non ti sdegnar, che ti sia honore eterno
Che solo il grand’Achille habbia potuto
Donando al corpo tuo perpetuo uerno.
Far l’ombra ignuda tua passare à Pluto.
To sol potrai uantarti entro l’inferno
Ch’al primo scontro mio non sei caduto
Doue farai stupir mille altri forti,
Che son la giù, ch’al primo scontro ho morti.
Ma questo uantarsi, ò gloriarsi è tanto uostro proprio ò fratelli cari, che io non posso alzar carta d’un libro, che io non troui qualche uno di costoro, la qual cosa è molto biasimata. Che ui pare di Guidon seluaggio, il quale essendo domandato da Marfisa il suo nome, cominciò con grandezza di parole à far più grandi l’opere di quello, che erano, come dice l’Ariosto nel canto 20.
L’altro comincia, poi che tocca à lui,
Con puù proemio à darle si se conto,
Dicendo, io credo, che ciascun di vui
Habbia de la mia stirpe il nome in pronto,
Che non pur Francia, Spagna, e i vicin sui,
Ma l’India, l’Etiopia, e il freddo ponto,
Han chiara cognition ci Chiaramonte,
Onde uscì il cauallier ch’vccise Almonte.
Et uà seguitando ancora una stanza, e meza, vantandosi, scoprendo, e magnificando l’opere sue. E di feraù, che dice l’Ariosto? Gloriandosi di essere di maggior ualor d’Orlando. Le cui parole sono:

Il vantator Spagnuol disse già molte
Fiate, e molte ho cosi Orlando astretto,
Che facilmente l’armi gli haurei tolre,
Quante indosso n’hauea, non che l’elmetto,
E s’io no’l feci, occorrono alle volte
Pensier, che prima non s’haueano in petto,
Non hebbi già tal uoglia, hor l’haggio, e spero,
Che mi potrà succeder di leggiero.
Et in mille luoghi sopra il Furioso si potran leggere le parole di questi vantatori, & nell’Eneide non si legge spesso d’Enea, che si gloriaua hora delle opere, hora del lignaggio, & come fù approdato a i lidi Tirii, parlando con sua madre si uantò, dicendo à lei, che richiedeua il suo nome.
Sum pius Aeneas raptos ex hoste penates,
Classe veho mecum fama super ethera notus,
Italiam quaero patriam, & genus ob Ioue fumo.
Omero nell’Odissea nel libro nono, mostra che Vlisse era uno di questi
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uanagloriosetti, mentre risponde al Re Alcinoo, che chiedeua il nome, & l’esser suo. I versi d’Omero tradotti in volgar lingua da Cirolamo Bacelli tali sono:
Io sono Vlisse figlio di Laerte,
Che tra tutti i mortali il primo honore
D’essere astuto porto, e d’alto ingegno,
Tal che la gloria mia giunge a le stelle.
Et Ouidio non loda l’opera sua, & per lei non si promette eterna v*** dicendo nel lib. 15.
Iamque opus exegi, quod nec Iouis ira, nec ignes,
Nec poterit ferrum, nec edax abolere uetustas.
Cum uolet, illa dies, quae nil nisi corporis huius
Ius habet: incerti spatium mihi finiat aeui:
Parte tamen meliore mei super alta perennis
Astra ferar, nomen erit indelebile nostrum.
Che vi pare, che ancor che fosse nobile, & ingegnoso Poeta: nondimeno priuo di questa uanagloria non era. Et il Petrarca nella seconda parte de i suoi Sonetti si fa gloriare per bocca d’Amore nella canzone che incomincia.
Quel antico mio dolce empio signore.
Con queste parole:
Si l’hauea sotto l’ali mie condutto,
Ch’à donne, & cauallier piacea il suo dire:
Et si alto salire
Il feci, che tra caldi ingegni ferue
Il suo nome, e de’ suoi detti conserue,
Si fanno con diletto in alcun loco.
Ma questo gloriarsi è tanto proprio de gli huomini, che io non uoglio più estendermi in raccontarne. Ma Herodiano Principe d’Arcadia non sopporta, che io la lasci à dietro, & onde per è forza, ch’io lo accetti nel numero de’ vantatori, il qual uoleua la palma di nobiltà, come dice il Trissino di lui ragionando;
Il qual di nobiltà uolea la palma,
E dicea, che gli antichi suoi maggior
Nacquero in Grecia, auanti che la Luna.
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De gli homini fieri, ingiusti, & homicidiali.
Cap. X.

SONO chiamati da ogn’uno gli huomini con questo horribili aggiunto, ò epiteto de fieri, quasi che dalle fiere hauessero trouato questo modo di operare; cosa in vero falsa, come ben lasciò scritto Aristotile nel libro secondo delle grandi morali al capitolo settimo: dicendo; Rursum, vt supra mentionem fecimus de feritatis uitio, non est ipsum in fera spectare, sed in homine, feritatis si quidem nomen adeptum estt id uitium ob singularem improbitatem. Sed cur in fera nihil§? nempe, quod improbum in fera principium non sit. Est siquidem ratio principium. Quis uero improbior, flatitiosiorque fuerit, incertumque, Leone, an Dionysius, an Phalaris, an Clearchus, vel horum quispiam insignis cuiusfam immanitatis. Certum autem est malum in his principium illustria facinora coniectasse, & in fera nullum prorsum initium. Non si conuiene adunque alle fiere la crudeltà; percioche non è in quelle alcuna improbità, essendo esse priue di ragione, nella quale l’improbità risiede. Et se alle fiere non conuiene, non è adunque cauato questo epiteto sa loro, ancorche noi, l’huomo ammacchiato di crudeltà, chiamiamo una cruda, & horribile fiera. Non è altro la crudeltà, che uno insatiabile desiderio di offendere altrui. AM quando alle facultà si estende, più tosto si ha da chiamare una tirannica auaritia, & però gli antichi chiamorno la crudeltà con questo aggiunto: Cruentam, cioè sanguinosa. Onde Cicerone dolendosi delle persecutioni disse: Ij, quorum crudelitas nostro sanguine non potest expleri. Et in uero un acerbo, & atroce huomo, ancorche vegga correre i fiumi di sangue, non si sente satio, anzi più s’inaspra, & fino contra morte incrudelisce, & però Cicerone disse; is suam insatiabilem crudelitatem exercuit non solum in uiuo, sed etiam in mortuo. Ma veniamo à gli essempi, & udire parole veramente degne di un animo crudelissimo, le quali furno dette, come scriye Suetonio, & Cornelio Tacito da Aulo Vitellio. Caualcando questo scelerato Imperatore verso Roma, & passando per il luogo, doue i suoi capitani haueuano hauuta una vittoria conrea i soldati di Ottone, trouò i campi pieni d’huomini morti, i quali ancora non erano stati seppelliti, & alcuni sentendo noiaa dal fettore, che da quei corpi usciua, Vitellio lor risponeua, dicendo, che non era il più soaue odore di quello del nemico morto, e molto più del cittasino; parole inhumane, & empie. Costui mai non rimaneua di vsare grandissime crudeltà, & cercaua di vgguagliare Nerone: egli fece uccidere molti à torto, dandoli false accuse, et il simile faceua à quelli, i quali erano stati suoi carissimi amici: & essendo ammalato un suo
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amico, & egli andandolo à uisitare li porse il ueneno di sua mano nell’acqua fredda, che colui hauea dimandata per bere. una altra uolta questo Clemente Imperatore fece uccidere duo fratelli: perche lo pregauano, che perdonasse la morte al Padre: io non credo, che le furie infernali sieno tanto crudeli: perche à i prechi di Orfeo piangeuano, come dice Ouidio, che pregaua per la moglie con queste parole.
Tunc primum lahcrimis uictarum carmine fama est,
Eumenidum maduisse genas.
Da questo si può comprendere, che più pietà si ritroua nell’Inferno, che in questi crudeli. Appresso costui uoglio ponere Andronico Comeno, ilquale cercaua giorno, & notte, come potesse ritrouare noue sorti di immanità & credeua di rimaner morto quel giorno, che non ahuesse fatto morire qual che dotto, & eccellente huomo, ò almeno fatto cauar gli occhi, ò con una faccia diabolica non l’hauesse spauentato: & era molto simile a un Pedante, che tratto, tratto batte i fanciulli co’l flagello. Onde auueniua, che le persone, che erano tutto il suo Impero, uiueuano meste, & scontente, ne dormiuano mai un sonno cheto. MA spesso si risuegliano spauentate, pensando che Andronico fosse lor sopra per ucciderli quando era in una casa marito, & moglie faceua morire il maschio, & la moltiere faceua mettere in prigione, et ad alcuna altra cauar gli occhi. Oltre questo faceua, che patissero fame, sete, & battiture. Alhora i Padri poco apprezzauanp i figliuoli, & figlluoli poco i Padri; percioche l’iniquo Andronico hora uccideua i Padri, hora i figliuoli. Se erano cinque persone in una casa, le due si inimicauano con le tre. molti fuggiuano à uele, & a remi lo sdegno di questo crudele, & scelerato, come il fuoco di sodoma. Costui faceua segar gli huomini per il mezo, & altri abbrusciaua, & faceua altre crudeltà. Questo racconta Nicera Acominato dicendo, che era peggio di un lupo, bestiale, crudo, inessorabile, & fiero. MA che dirò io di Antonio Conte di Monferato, il quale fece abbrusciare un suo ragazzo inuolto il solfo, perche non l’hauea destato all’hora solita, come dice Batista Ful. ò che impietà,ò che rabbia di fiera. Timone Ateniese accarezzaua oltre modo un fanciullo, il quale haueua ad essere gouernator de gli Ateniesi; percioche giudicaua, che’egli hauesse ad essere crudele, & aspro. crudelissimo fù Asdrubale inuentor di mille sorti di tormenti, & di morti, ò che inuentiue scelerate, nemiche à Dio, & à l’humana generatione. Alberto Imperatore mentre si apparecchiaua de andar contra Francesi, fu da suo nepote ucciso, ne hebbe rispetto alla parentella, ne ad alcuna altera cosa. Come narra Batista Fu. Tigrane era crudelissimo, ma fra le altre crudeltà fece questa, caualcando un giorno Tigrane, & essendo caduto da cauallo; perche subito un suo figliuolo, che hauea seco non l’aiutò, subito lo fece crudelmente uccidere. Ma che diremo di Asuncassano che menò in ceppi un suo figliuolo fino alla morte? Che fi Federico Imperatore, che fece con gran miseria morire in prigione
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un suo figliuolo? perche li parea, che inclinasse alla parte di Gregorio Pontefice. Il Re di Bisalcidi nella tracia fece cauar gli occhi a’ suoi figliuoli, pensate un poco, perche lieui cagioni incrudelire fino contra i figliuoli, contra i quali le fere d’incrudelire s’astengono. Io stò dubbiosa, se io ui debba mettere Nerone, le crudeltà del quale sono tanto note che non ui è alcuno per ignorante, che sia, che non sappia, che Nerone fù crudelissimo. Io uoglio lasciar tutte le altre sue crudeltà, & solamente uoglio dire, come uccidesse Seneca famoso, & Lucano Poeta. A Seneca, perche era stato suo maestro, volse fare questo piacere, che si eleggesse qual morte più li piaceua; il misero Seneca pensando, che tutte le morti sono non grate, essendo la morte ultimum terribilium, si smarriua: pure alla fine disse, che li fosse tagliata una uena, & fosse posto in un bagno. Vdite che scelerataggine, gli fece tagliare la uenea, & lo fece mettere in vn bagno auenenato. Si può sentire meglio: fra queste opere nefansiaaime si compiacque di vedere fuochi, & facendo accenderlo ne gli edificii di Roma, niuno ardiua di ammortzarlo per paura di Nerone: egli montaua sopra una alta torre, per rallegrarsi la vista di sì horribile, & spauentoso spettacolo, del quale ne prendeua sommo piacere, & cantaua quei uersi di Omero, che contentauano l’incendio di Troia. E tanto fù il distruggimento, che fece in Roma il fuoco acceso da questo diauolo, che di quattordeci grandissime regioni, le quali erano in Roma, solo quattro rimasero libere dallo incendio, & furono arse (ah miserabil veduta) le case, i tempii, le spoglie delle hauute vittorie, & ricchezze infinite: Tutto questo scriue Suetonio, Eusebio, Eutropio, Paolo Orosio, Isisdoro, & Cornelio Tacito. Ma doue lascio Caligula Imperatore crudelissimo, che fece delle sue crudeltà merauigliare gli scrittori. Condannaua a morte gli huomini a torto, con tormenti non mai più uditi; alcuni faceua mettere uiui fra le fiere, che teneua per cagion delle feste, & alcuni altri faceua sbranare a i suoi carnefici, & uoleua, che fossero presenti i padri, & tutti gli altri parenti; poscia inuitaua loro a mangiar seco, & faceuali ragionar di cose allegre, & piaceuoli. Tutto lo suo ingegno poneua in pensar, come potesse trouar nuoue fonti di tormenti. Onde era tanta la paura, ce molti si uccideuano, prima che fosse data la sentenza, si distruggeua; perche tutto il popolo Romano non haueua un solo collo per poterlo tagliare in un sol colp, & teneua per isfortunati i suoi tempi, & si ramaricaua della loro infelicità; perche non u’erano pestilenze, terremoti, diluuii, fame, incentii, & altre simili disauenture; Hor che vi pare di costui, il quale haueua animo si pietoso, & amoreuole uerso i suoi Cittadini? Né voglio lasciare Alessandro Fereo, il quale era un mostro di crudeltà nell’età sua. Costui non contento di dare à gli huomini le solite morti, faceua sotterrare gli huomini viui, perche diceua, che moriuano troppo presto, altri erano posti in cuoi di cinghiali, & d’orsi, & li faceua sbranare à i cani da caccia, per darsi piacere. Si può
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pensare peggio? certo nò: Vn giorno essendo ragunati insieme gli huomini della città Melibea, & Scotusa, come amici all’huomo scelerato, egli che fece? mandò i suoi sergenti, & li fece tutti uccidere e grandi, & piccoli. Questo afferma Plutarco. Ma à chi non mioue le risa Tiberio Imperatore, che se fosse stato un fanciullino; perche gli era stato tolto un frutto del suo giardino, fece cercar colui, che tolto l’hauea, & lo fece uccidere per dispiacere, che haueua del pomo tolto? ma questo era nulla, per leuissime cagioni condannò a morte i più illustri cittadini romani, & confiscò loro tutti i beni. Per opera di Roberto Re di Sicilia fu dato ad Henrico, (disegnato Imperator da Papa Clemente) il veneno nella Eucaristia, e nel sangue di Giesù Christo, & cosi finì la sua uita, come scriue Egnatio. Si può sentir peggio? io mi merauiglio, come il Cielo non fulminasse questi scelerati. Orcane Re de’ Turchi, figliuolo di Celapino diede se medesimo al zio, confidandosi nella sua fede. il perfido homo lo spogliò del regno, & della uita. Vettor Pontefice, doppo un’anno, che fù assnto alla suprema autorità del Pontificato, mortì non senza sospitione di Enrico, che mentre sacrificaua, li hauesse porto il ueneno nel calice, come racconta il Volaterano. Marullo scriue, che Bilioto Astrologo morì per fonghi aspersi di veneno à simiglianza di Claudio. onde dice:
Dum cauet Astrologus perituris sidera nautis,
Dum boletis sibi non cauet ipse perit.
A diocletiano non giouò il rifiutar l’Imperio, che cosi priuato, li fù dato da i suoi clienti il ueneno, & il medesimo fù fatto à Lodouico Balbo mentre imperaua Crasso suo fratello. O quante forti di veneni usano questi scelerati: auenenano con fonghi, co’l Sacramento, & in mille altrimodi. Ma che diremo noi di Settimio Seuero il quale pien di una rabbiosa crudeltà corse con un furioso cauallo sopra il corpo morto di Albino? O che mostri, vsciti fuora delle più tenebrose cauerne che habbia l’Ircania. Non uoglio già lasciare l’Arciuescouo Rugiero, il quale fece morire di fame il Conte Vgolino, ma voglio lasciar l’istoria, & mettere i uersi del nostro Dante, il quale fa cosi dire al conte Vgolino nel canto 55. dell’Inferno.
Che per l’effetto de’ suoi mal pensieri,
Fidandomi di lui, io fossi preso,
E poscia morto dir, non è mestiere.
E più sotto dice, per non essere troppo lunga, la qual cosa non mi piace.
Già era io desto, e l’hora s’appressaua,
Che’l cibo nedoueua essere addotto,
E per’l suo sogno ciascun dubitaua,
Et io sento chiauar l’vscio di sotto,
A l’horrisbile torre, iodio guardai
Nel viso a i miei figliuol senza far motto,
Io non piangeua, sì dentro impetrai;
Piangeuano elli, & Anselmuccio mio
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Disse, che guardi si padre, che hai?
Però non lagrimai, ne rispos’io
Tutto quel giorno, ne lanotte appresso,
Infin che l’altro Sol nel mondo vscio:
Come un poco di raggio si fù messo
Nel doloroso carcere, & io scorsi
Per quattro uisi il mio aspetto istesso,
Ambe la mani per dolor mi morsi,
E quai pensando, ch’io’l fessi per uoglia
Di manicar, di subito leuorsi,
E disser, padre, assai ci fia men doglia
Se tu mangi di noi, tu ne uestisti
Queste misere carni, e tu le spoglia.
Quietaimi allhor, per non farli più tristi
Quel d, e l’altro stemo tutti muti;
Ahi dura terra; perche non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gettò disteso a i piedi,
Dicendo, padre mio, che non m’aiuti?
Quiui morì, e come tu mi uedi
Viddi io cascar li tre ad uno ad uno,
Fra il quinto dì, e’l sesto, ond’io mi diedi
Già cieco à brancolar soura ciascuno,
E tre dì li chiamai, poi che fur morti,
Poscia più, che’l dolor potè il digiuno.
E sotto escamando Dante, mosso a misericordia di tanta impietà, dice:
O Pisa, vituperio delle genti,
Che se’l Conte Vgolin hauea tal uoce,
D’hauer tradito te delle castella,
Non douei tu i figliuoli porre à tal croce.
Et il crudelissimo huomo lasciò morire ilmisero Conte con quattro figliuolini innocenti. Io non uoglio lasciar Baciano, il quale fece uccidere Alessandra sua moglia fidelissima, & castissima; perche era uenuta alla fede di Christo, per le sante parole di Beato Gregorio. Ne Mezzentio, chefece crudelmente decaputare Faustina sua moglie per l’istessa cagione. Attila, che per lasua crudeltà, fu chiamato flagello di dio, come scriue Paolo Orosio, fu huomo auidissimo d’Imperio, & sitibondo oltremodo di sangue humano, Acquileia con ferro, e fuoco ruinò, disfece, & saccheggiò molte illustri Cittadi, assediò Firenze, né potendola per forza hauere, si uoltò a gli inganni, & con molte false persuasioni indusse i Cittadini à riceuerlo nella Città, et egli sotto specie di honore fece conuocare à se i principali Cittadini, & mentre passauano da una camera all’altra, facena lor crudelmente
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uccidere, e gettare in una gora deriuata dall’Arno. Inteso il popolo la fiera, & spietata uccisione, & uedendo l’acque della Gora sanguigne, tumultuò; onde Attila mandò i soldati per la terra, & fece, che uccidessero tutti, grandi, piccioli, huomini, & donne: né alcuno si saluò, se non quelli, che fuggirono. E ben mostraua nel feroce, e terribile aspetto la immanità, & impietà dell’animo scelerato: come dice il Tasso in quei uersi al Canto decimosettimo.
Che con gli occhi di drago, par che guati,
E la faccia di cane, & à uederlo,
Dirai, che ringhi, e vdir credi i latrati.
Et Phalari, il quale fu Re di Agrigento, per la sua grandissima crueltà proponeua premio non di poca stima à chi hauesse trouato nuouo tormento contra gli huomini, Era Perillo in quei tempi famosissimo artefice, et di grande ingegno. Costui di sottilissime piastre formò un Toro di bronzo, nel qual uoleua, che entro lui si mettesse, chi hauesse ad essere ucciso, & se li accendesse intorno un fuoco grande; onde quando per souerchi ardore l’huomo gridasse, vscisse una horribil uoce, che paresse muggito di Toro. Per tale opera Phalari li rendè degno premio; percioche uolse, che fosse il primo, che prouasse, se il tormento era conuenientemente grande, & fù cosa giusta, che l’inuentione di tanta crudeltà, quella medesima patisse: & benissimo espresse questo Ouidio:
Non est lex equior ulla: quam necis artificem fraude perire sua.
Et Propertio dice di Perillo.
Et gemere in tauro saeue Perille tuo.
Silla in essere crudo, e spietato non cedeua ad alcuno, et uenendo un giorno à Preneste, & quiui facendo i giudicii priuati, puniua i Cittadini à uno per uno; ma quasi, ch’egli non hauesse tempo di ucciderli uno per uno, fece ragunarli tutti in piazza, & comandò, che fossero tagliati à pezzi dodici mila huomini. Et solamente donò la uita à colui, che in casa l’alloggiaua. Ma colui contentandosi di morire con gli altri Cittadini, domandò di esser leuato di uita; & egli lo fece vccidere. Oltre questo fece uccidere seimila nemici nel tempio di Bellona. Furono amazzati per lieui cagioni assaissimi huomini di gran conto: essendoli domandato da un certo Metello, quali huomini uoleua lasciar viui: rispose Silla, che ancora si era ben risolto, quali che uoleua saluare. Subito Metello soggiunse, dacci ad intendere almeno, quali deuono essere puntiti, senza dimora la crudele bestia prescrisse ottanta persone senza communicare il suo pensiero con alcun senatore, & hauendo ciò tutti per male, postoui uno giorno in mezo, ve ne aggiungse altri dugento, & uenti. La terza uolta ne aggiunse altri tanti, & ragionando egli in publico sopra di questa cosa, disse, che prosciuea tutti coloro, di cui si ricordaua, & che un’altra uolat haurebbe proscritto coloro, che all’hora non gli ueniuano in mente. Era pena di morte,
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se alcuno per humanita perdonaua la morte à quei, che erano proscritti: à colui, che quelli ammazzaua, daua duo talenti, ancorche il seruo hauesse amazzato il padrone, ò il figliuolo il padre. Ma quel che parue ingiustissima cosa, priuò d ogni honore, & i fligliuoli, & i nepoti de i proscritti. Né solamente in Roma, ma in tutte le città d’Italia si faceuano le proscrittioni; tal che né le habitiationi paterne, né le case delli amici, né i tempii de i Dei erano sicuri dagli homicidii. I mariti erano amazzati in seno alle misere mogli, i figliuoli in braccio alle madri. Furono morti molti per colera, molti per inimicitia, ma molti più per danari; perche gli huomini fea tanti uitii che hanno in se stessi; nell’auaritia quasi auanzano ogni altro; ma notate questa crudeltà. Vi fu un certo huomo dato all’otio, il quale non si credendo di correre pericolo di queste sciagure, uenne in piazza mosso da compassione di quelli infelici, & quiui si mise à leggere le proscrittioni, fra i quali trouò se medesimo, & andando un poco innanzi fù morto da i persecutori. Se io uolessi scriuere le crudeli attioni di questo pessimo huomo son certa, che mi mancarebbe il tempo, & forsi la carta, et l’inchiostro; ma basti questo poco, appresso almolto, che io tralascio. Dionisio Siracurano Signore di Sicilia, fu crudele, aspro, ingiusto, & i sudditi suoi uiueuano in miseria grandissima, altro di lui dir non uoglio; perche sono troppo lunghue le sue crudeltà, & sceleraggini; ma ueniamo ad Azzolino da Romano, castello di Treuigi; benche Musato Padouano lo finga in una sua Tragedia figliuolo del Diauolo; Costui crudelmente signoreggiò Padoua, Vicenza, verona, Brescia, & per la sua rabbiosa uoglia di continua uccisione fece uccidere molti huomini, & alcuni altri mandò in esilio; ma dapoi che i Padouani si furono ribellati, rinchiuse nel prato di PAdoua dodeci milla, & più huomini, & tutti li fece ardere, & hauendo preso sospetto d’un suo cancelliere, & hauendo determinato farlo morire, li domandò se sapeua, che erano rinchiusi nel pala cato, rispondendo il misero Cancelliere, che , che li hauea notati tutti, ho determinato, disse Azzolino, di volere presentare le anime di costoro al Diauolo per molti beneficii, che io ho riceuuto da lui: però, che andasse à l’Inferno co’l quaderno, insieme con loro, & da sua parte glielo appresentasse, & cosi lo fece ardere con gli altri. Ma questo, che di lui ho scritto, è un giuoco appresso le altre scelerataggini, & le altre crudeltà. L’Ariosto tiene, che costui habbi auanzato tutti i crudeli: dicendo di lui questo:
Che pietosi appo lui stati saranno,
Silla, Mario, Neron, Gaio, & Antonio.
Creonte fu crudelissimo infino uerso i corpi morti, come dice Stati nella sua Tebaide, la quale tradotta in uolgare lingua da Erasmo Valuasone, cosi dice di lui parlando:
Vuole il crudele, ch’à le pruine, e al Sole
Marciscan le reliquie della terra,
Et ch’errin d’ogni stanza escluse, e sole
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L’ombre, i cui busti alcun marmo non serra,
Fatta la legge in scritto, & in parole,
A circondar và l’occupata terra.
Et Medoro nel Furioso dell’Ariosto, cosi dice a Zerbino di lui.
Et se pur pascer uuoi i fere, & augelli,
Che in te il furor sia del Teban Creonte.
Et Mario il giouine, figliuolo di Mario il uecchio, come scriue Plutarco, fù oltre modo crudelissimo, fece tagliare à pezzi i più nobili cittadini di Roma. Teodosio Imperatore fece una horrenda, & nefanda crudeltà in Tessalonica, facaenco vccidere sette milas poueri, & innocenti cittadini senza alcun ordine di giustitia, ma solamente mosso da passione. Mezentio fu uno de Prencipi crudelissimi di Toscana, biasimato di nuoua, & inusitata crudeltà contra gli huomini: legaua i corpi uiui, con quelli de’ morti sanguinosi, & uccideua i miseri sudditi con questa sorte di tormenti; oltre ad altre sorti: però dice di lui ragionando Vergilio nel libro ottauo:
Quid memorem infandas cedes, quid facta tiranni
Effera? Dijs capiti ipsius, generique reseruent,
Componens manibusque manus, atque oribus ora
Tormenti genus, & sanie, taboque fluentes,
Complexu in misero longa sic morte necabat.
I quali versi tradotti in uolgare tali sono: & voglio mettere la traduttione di Annibal Caro, e lasciar quella d’altri:
A che di lui contar le sceleranze,
A che la ferità, Dio le riserui
Per suo castigo, & de’ seguaci suoi,
Questo crudele insino i corpi morti
Mescolaua co i uiui (odi tormento)
Che giunte mani à mani, e bocca a bocca
In così miserando abbracciamento,
Gli faceua di putredine, e di lezzo,
Viui di lunga morte al fin morire.
O quante sorti di tormenti trouano questi scelerati petti, la morte per se stessa non è tanto horribile, quanto la fanno parere questi pessimi atroci huomini; però dice il Petrarca nel cap.2. della Morte.
Silla, Mario, Neron, Gaio e Mezentio,
Fianchi, stomachi, e febri ardenti fanno
Parer la morte amara più che assentio.
Diomede Re di Tracia (vdite crudeltà) pasceua i caualli di corpi humani; però Ouidio nel lib. 9. fa così dire dilui ad Ercole, mentre era diuorato dal veneno di quella camiscia infettata dal sangue dell’Idra.
Quid? Cum Tracis equos humano sanguine pingues,
Plenaque corporibus laceris praesepia vidi?
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Visaque deieci? dominum, ipsosque peremi?
Che tradotti in volgare da Fabio Maretti tali sono.
Vid’io pur d’human sangue i corsier graffi
In Tracia, e pieni i lor presepi spesso
Di corpi in pezzi, e fei di uita cassi,
Ciò uisto quelli, & il padrone istesso.
Ma doue lascio Busiride crudelissimo Re de gli Egittii, il quale sacrificaua tutti i forestieri a Gioue, che finalmente fu vcciso da Ercole, il quale dice nel lib.9. di Ouidio:
Ergo ego faedantem peregrino templa cruore,
Busirim domui?
Fu etiandio crudelissimo Cambise: costui solamente, perche in sogno gli parue di uedere il fratello, che sedesse nel solio regio di Persia, li fece torre la uita, & a una sua sorella, che ripreso di tanta crudeltà l’haueua, diede tante percosse, che la vccise. Scriuono i Greci, che Cambise hauea fatto mettere, come in isteccato un Leoncino, & un Cagnolino, & perche il Leoncino uinceua, cordse un altro Cagnolino in soccorso del fratello, & ambedui uinsero l’auuersario Leone: onde lagrimando Meroe sorella di Cambise, il marito le domandò perche piangesse, rispose: io mi ricordo di Smerbia: ma questo cagnolino perdendo hebbe questo altro cagnoletto suo fratello, che uolentieri li ha dato aiuto. Questo intendendo lo scelerato tiranno Cambise, subito la fece crudelmente morire: ma vdite questa altra crudeltà: Domandò un giorno Cambise a un suo fauorito, & caro amico chiamato Presaspe in che riputatione fosse appresso i Persiani, esso rispose, che in suprema riputatione era, & che saria stato in maggiore, se non hauesse talora mostrato di bere con troppo auidità il uino: si sdegnò Cambise, ama dissimulando, disse, che li uoleua far uedere, che doppo che beuuto haueua, era sano di mente: percicohe voleua con una saetta accertare a punto nel cuore del suo figliuolo, & subito fece menarsi il fanciullo, & disse, se io non lo ferirò giustamente nel cuore, io sarò con ragione riputato ebbro. Detto che questa parole hebbe, si fece portare molto da bere, & beué copiosamente: trassen poi, come in un berzaglio, al fanciullo nel petto, essendo presente il padre del misero fanciullo, & poi lo fece aprire, & mostrare, come egli giustamente nel cuore percosso l’haueua. Ogni uno può pensare quanto fosse il dolore, che il misero padre sentir douesse, veggendo il caro, & innocente figliuolo senza cagione essere ucciso: nondimeno mostraua lieta, & serena faccioa, stringendo le lagrime, & i sospiri nel petto. Pochi giorni doppo questa atroce crudeltà, fece sotterrare viui col capo in giù molti nobili Persiani: oltre di questo fece scorticare vn giudice, & della sua pelle, uolse che si coprisse il seggio, oue hauea giudicato, & nell’istesso seggio fece sedere il figliuolo del giudice morti. In questo capo non credo che faccia bisogno di far comparationi tra le donne crudeli
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& gli huomini: percioche è di numero, & di qualità i maschi passaro, & eccedono senza comparatione le donne, le quali di natura sono vniuersalmente mansuete, & pietose, come tutti gli huomini dicono.