La nobiltà et eccellenze delle donne: et i diffetti, e mancamenti de gli huomini (1600) Part 4

by Lucrezia Marinella

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Title: La nobiltà et l’eccellenza delle donne, co’ diffetti et mancamenti de gli huomini
Author: Marinella, Lucrezia (1571-1653)
Date of publication: 1600
Edition transcribed: Venice: Giovanni Battista Ciotti, 1600
Source of edition: Scaffali Online, Biblioteca dell’Archiginnasio
< http://badigit.comune.bologna.it/books/marinelli/scorri.asp >
Transcribed by: Marco Piana, Lara Harwood-Ventura and Tanya Ludovico, McGill University
Transcription conventions: Page numbers have been supplied by transcribers.
Status: Completed and corrected, version 1, 2016.

Degli huomini fraudolenti, & ingannatori, perfidi, & spergiuri.
Cap XI.

ANCORCHE alcuni facciano non poca differenza tra fraudolente, ingannatore, & perfido; nondimeno ho posti tutti quelli sotto un medesimo capo, come nomi, che non uariano la natura della cosa, ma più, o meno dimostrano, ouero nelle circostanze. Sono tra loro diuersi, credo però, che il nome ingannatore sia communissimo ad ogni sorte d’insidia fatta in qualunque modo. La fraude è fatta con l’adulatione, & fintione, o di bontà, o di amicitia; ilo perfido allo inganno, aggiunge la fede simulata, & finta; lo spergiuro ui aggiunge i giuramenti falsi, & i testimoni de gli Dei da lui inuocati, atti tutti uitiosi, & enormi; percioche peggio non si può dire, che non un piaceuole uolto, & sotto una finta, & simulata pietà, ingannare altrui, ouer sotto la fede data , che dourebbe essere inuiolabile, ouero con giuramenti chiamando gli Dei per testimonio farti credere il falso di quello, che ti uien detto. O quanto è meglio esser sforzato a dare il tuo, che darlo con inganno, & fraude; ondeCicerone ciò conoscendo, disse. Aut vi, aut fraude fit ingiuria, fraus quasi vulpeculae, vis Leonis videtur, vtrumque altissimum ab homine, sed fraus odio digna maior. O quanti sono stati uccisi sotto una simulata, & fraudolente pace, & quanti sotto specie di amicitia, o finta bontà sono priui, o delle facultà, o dell’honore, o della uita; De’ fraudolenti, i quali continuamente fingono di amarti, & di essere fra buoni, & leali buonissimi, sono piene le misere corti, come ben scriue il Cauallier Guarini nel suo PAstor fido, introducendo à parlar Carino:
Gente di nome, e di parlar cortese,
Ma d’opre scarsa, e di pietà nemica,
Gente placida in uista, & mansueta,
Ma più del cupo mar tumida, e fera:
Gente sol d’apparenza, in cui se miri
Viso di carità, mente d’inuidia
Poi troui, e in diritto sguardo animo bieco,
E minor fede allhor, che più lusinga:
L’ingannare, il mentir, la frode, il furto,
E la rapina di pietà vestita,
Crescer co’l danno, e precipitio altrui,
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E far à fe de l’altrui biasmo honore
Son le uirtù di quella gente infida.
Cose raccontate etiandio da Torquato Tasso nell’Aminta. Et però molte uolte hai l’inimico in casa sotto specie d’amico, & questo accadde;
percioche sotto finto uolto stanno occulti i maluaggi, & pessimi pensieri, le cui effiggie leggiadramente ci appresentò l’Ariosto sotto nome della fraude nel canto 14. dicendo:

Hauea piaceuol uiso, habito honesto,
Vn humil volger d’occhi, vn andar graue,
Vn parlar sì benigno, e sì modesto,
Che parea Gabriel, che dicesse Aue:
Era brutta, e deforme in tutto il resto,
Ma nascondea queste fattezze praue,
Con lungo habito, e largo, e sotto quello
Attossicato hauea sempre il coltello.

Et Dante la desriue in questo modo hauendola ueduta nello Inferno;

Et quella sozza imagine di froda
Se’n venne, & al riuo la testa, e’l busto;
Ma’n su la riua non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’huom giusto,
Tanto benigna hauea di fuor la pelle;
Et d’vn serpente l’uno, e l’altro fusto.
Due branche hauea pilose, infin l’aselle,
Lo dosso, il petto, & ambedue le coste
Dipinte hauea di nodi, e di rotelle.
Con più color sommesse, e sopra poste,
Non fer ma’in drappo Tartari, ne Turchi,
Ne fur tai par Aragne imposte.
MA basti fin qui di hauer narrato quello, che tiene in se, & fuori di se la fraude, & ueniamo à gli essempi. al primo sarà Tolomeo, il quale tradì Pompeo, che hauea fatti grandissimi beneficii al padre di lui; il traditore senza hauer riguardo alle gratie riceuute, le fece uccidere à tradimento in questo modo. Essendo Pompeo uinto in Pharsalia da Cesare, ne sapendo tra gli amci regni oue ricorrere douesse, confidatosi ne i beneficii fatti al padre di Tolomeo, si indrizzò uerso Egitto, & subito mandò un suo messo al Re Tolomeo à fargli intendere, come era uenuto à ritrouarki; egli come questo intese si consigliò con i suoi consiglieri, uno d’ quali era Achilla Egittio, l’altro Teodoro da Chio, & tutti insieme conchiusero d’amazzar sotto uelame d’amicitia Pompeo. Andorno adunque molti à ritrouarlo, un de quali fu Settimio, l’altro Achilla, & Saluio; Settimio, tosto che lo vide
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con lusinghe lo chiamò Imperatore. Achilla lo inuitò a montare in su la scafa, & egli ui montò ma come fu uicino al lido, Settimio lo piagò mortalmente, doppo costui lo ferì Saluio, & Achilla; & così il misero Pompeo Magno fini la uita per l0inganno del traditore Tolomeo; onde il Petradi dice il traditor di Egitto, parlando di lui. Ma che ui pare di Bruto? il quale era intituito secondo herede da Cesare nel suo testamento, in cui haue agrand fiducia; & essendo uenuto il giorno di andare in Senato Giulio Cesare non ui uoleua andare, parte spinto dalle parole de gli indouini, parte dal sogno di Calfurnia sua moglie, come Plutarco racconta; ma il traditore Bruto sapendo quello, che uoleua fare, lo persuase ad andare in Senato, & pigliandolo per mano lo menò fuori di casa, & in Senato; come fu posto d sedere, parte de i compagni di Bruto si fermorno dietro il seggio di lui, & parte li stauano all’incontro. Tullio diede il segno di cominciare, ferillo Casia, che fu il primo, dopo lui Bruto li diede una ferita nella gola, dopo Bruto Cassio, & gli altri congiurati, cosi à tradimento vccisero iln buon Giulio Cesare. O che fiere scelerate,m già che uccideuano, chi lor portaua amore; ma che diremo noi del tradimento fatto da Lorenzo de’ Medici al Duca Alessandro de’Medici? che tanto si confidaua in lui, & li portaua tanto amore, che se fosse accaduto, che se egli fosse andato fuori di Firenze in suo luogo non haurebbe lasciato altri, che Lorenzo; & Lorenzo per acquistarsi quella fede appresso del Duca, che li pareua, non curaua di uenire in odio à gli amici, a i parenti, & pe fino alla madre istessa, non curaua di essere tenuto portatore di nouelle, ingannatore de gli amici, & un uero, e continuo spione del Duca contra tutto il mondo; & tutto questo faceua per tradirlo; & spesso diceua al Duca, che quando l’haueua seco, facesse conto di non l’hauere inquanto al uenire alle mani per diffenderlo; perche la natura non li hauea dato cuore da armi, & che cercaua ben di farsi immortale; ma per uia delle compositioni: & haueua composto una bella Comedia, & diceua che componea la più bella Tragedia, che forse sia stata ueduta da gli scrittori già molti anni, & cosi andaua il traditore facendosi amicissimo al Duca: A i quattro di Gennaro andò Lorenzo a leuar il Duca, & menollo à casa sua, la quale era molto uicina à quella del Duca, & gli entrato in ucna camera si pose sopra un letto; Lorenzo si partì, & andò nella stanza di sotto, & trouò uno sgherro chiamato Scoronconcolo, & lo menò alla camera, oue l’incauto Duca giaceua, & intrato andò al letto, & li disse; signor, dormite voi? & subito li tirò una stoccata alla schiena; il misero si gettò fuori del letto gridando. Ah Lorenzo, io non aspettaua questo da te, & il traditore rispondendo disse: Anzi troppo l’hauete aspettato; perche staua molto à uenire, & in poco tempo, con l’aiuto di Scoroncolo uccise colui, che lo amaua, come se medesimo; ma chi sarà colui, che si fidi di huomini, poiche tutti sono tanto ingannatori, perfidi, & simulati amici? Onde ben dice il Tasso, che non è fede in huomo, e dice il uero, ma ueniamo ad un altro
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essempio di un altro traditore: essendo andato Camillo per assediar la Città di Falerio, la quale Cittade era molto munita di tutte le cose necessarie alla guerra; Camillo considerando la città essere forte, & fornita di tutte le cose, li parue difficile da perdere; però non la faceua battere, ma faceua ogni giorno essercitare li soldati, accioche stando in otio non diuentassero tumidi, 6 uili; & dentro i Falerii simauano poco l’assedio & pochi faceuano le guardie alle mura, & tutti andauano disarmati per la città. Et cime esser suole usanza de Greci, teneuano un maestro salariato dal commune, volendo che i figliuoli si alleuassero, & s’ammaestrassero insieme; il maestro di scuola pensò di fare un tradimento a’ Falerii con il mezo delli lor fanciulli: & cosi cominciolli à menar à spasso intorno alle mura, & tal uolta fuori, & quando li hauea essercitati, li rimenaua dentro.
Finalmente hauendoli tutti con esso lui, li menò alle guardie de’ Romani, & volle presentarsi con essi à Camillo, & facendoseli innanti melanconico, & pieno di grauità, disse, come era il maestro di quei fanciulli, & che per il mezo loro hauea disegnato per acquistarsi la gratia di lui, di darli la città di Falerio nelle mani. Parue à Camillo quel atto molto uituperoso, & fece stracciare tutti i panni, che haueua intorno al traditore, & legarli le mani di dietro alle spalle, & dar in mano a i fanciulli alcune sferze, accioche battendo il traditor lor maestro, il conducessero nella città. vhe ui pare? questo fu egli un tratto da un uero traditore, ò nò? mi souuiene ancora di Sinon Greco, il quale mostrando di fuggire i Greci, da i quali haueua riceuute molte ingiurie, come egli fingeua, & diede ad intendere a i Troiani con finte paeole, che i Greci haueuano edificato quel cauallo, & consacratolo à Minerua, & l’haueano fatto tanto alto, accioche i Troiano lo guastassero, & non lo potessero mettere intiero in Troia; perche i Fati uoleuano, che se lo guastauano, Troia hauesse à cadere; ma se fosse intiero condotto dentro la terra i Geci hauessero ad essere uinti da i Troiani. Era traditore, & spergiuro, perche giuraua, & chiamaua in testimonio li Dei, come dice Virgilio nel libro secondo dell’Eneide:
Sustulit exustas uinclis ad sydera palmas
Vos aeterni ignes, & non uiolabile uestrum
Testor numen (ait) vos are enfesque nefandi,
Quos fugi, vitteque Deum quas hostia gessi,
Et altroue parlando di lui a Didone dice:
Accipe nunc Danaum insiedias, & crimine ab vno
Disce omnes.
Volendo mostrare, che tutti i greci sono fraudolenti, & ingannatori.
Gano di Maganza oue rimane egli? il quale fu traditor di Carlo, & de’ suoi Paladini, fu tanto ingannatore, che l’Ariosto il chiama padre de tradimenti, dicendo
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Tutto seguì, ciò che haue a ordito Gano,
Chera d’insidie, e tradimenti il padre.
Infedelissimo fù Bireno, che haueua riceuuti tanti beni da Olimpia, & in guiderdone la lasciò su il nudo scoglio, come dice l’Ariosto, che uolendo narrare la sua infedeltà, dice quasi merauigliandosi:

Io ui vò dire, e far di merauiglia
Stringer le labra, & inarcar le ciglia.

Et fra mille tradimenti, che racconta il Gouio; raccontarò solamente quello, che fecero i capitani de’ Suizzeri fingendo occasione, che’l dì destinato al pagamento non si numerauano i denari: il Duca di Milano correndo al tumulto con parole benignissime, che generauano non poca compassione; poi donò a loro tutti li suoi argenti; ma i Capitani infedeli temendo di non mettere in essecutione il tradimento disegnato, operorno, che l’essercito Francese si accostasse à Nouarra per torre al Doca, & à gli altri la uia di fuggirsi verso Milano, hauendo fatto il Duca vscire le squadre, i Capitani Suizzeri diceuano, che senza licenza de i lor Signori non uoleuano uenir alle mani con parenti, & con i proprii fratelli, & con gli altri della loro natione, & mescolandosi con l’essercito nemico, come se fosse stato un solo essercito, finsero di uolere andare alle lor case; il Duca non poté, ne con preghi, né con lagrime, né con infinite promesse piegare la loro perfidia: Si raccomandò à loro, che almeno lo menassero in luogo sicuro: ma perche erano d’accordo con i Capitani Francesi di partirsi, & non menarlo seco, negorno di concederli la dimanda, ma consentirno, che mescolato fra loro in habito di fante venisse, la qual cosa fu accettata da lui per vltime necessità, ma questo non fù sufficiente alla sua salute: perche caminando per mezo l’essercito Francese fù insegnato da i Suizzeri à coloro, che haueuano la cura di prenderlo; cosi fu sybitamente tenuto in prigione. Spettacolo si miserabile, che commosse le lagrime infino à i nemici, & questo non fù egli vn gran tradimento? Cleomente hauendo affidati gli Argiui li assaltò di notte, & parte ne amazzò, & parte fece prigioni. Calicute uccise sotto colore di amicitia Dione Siracusano. Annibale il uecchio, chiamato figliuolo di Asdrubale, inuitato da Cornelio Asira, sotto pegno di pace, fù vcciso. Francesco, & lodouico Gonzaga ammorno il fratello Vgolino, inuitandolo sotto bhona fede, & amoreuolezza à disnar con loro. Cesare ancor egli fu traditore, perche in tempo di tregue guerreggiò co i Germani, & fece tagliare à pezzi trecento mila persone. Et Alessandro Magno tradì vna terra, con la quale hauea fatto una conuentieone: ma subito, come l’hebbe nelle mani tagliò a pezzi quasi tutti gli habitatori. Onde si può ben dire co’l Tasso:
O cielo, ò Dei, perche soffrir questi empi.
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Et sedechia Medico Ebreo pessimo traditore, diede il veneno à Carlo Caluo Imperator de Galli, ancorche da lui non hauesse riceuuto altro che cortesia, & cosi se ne morì il misero Imperatore per l’ingano del perfido huomo.

De gli Ostinati, & Pertinaci
Cap. XII.

NON è l’ostinatione altro, che una ferma perseueranza nella medesima opinione, ancor che falsa, & irragioneuole, & però dice Cicerone nel 4. A cad, Plerique errare malunt, eamque sententiam, quam adamauerunt pugnacissime difendere, quam sine pertinacia, quae constantissime dicatur, exquirere. Segno sicuramente di mente poco sana: percioche, che cosa si può pensare più stolta, che haueare le cose incerte per certe, le false per uere, & le non conosciute per conosciute, & notissime? & questi sono a punto i lodeuoli effetti dell’ostinatione. Pertinacissimo, & ostinatissimo fù Saul nello oltraggiare, & offendere David; benche da lui udisse dlcissime parole, & riceuesse segnalati fauori, i quali riceuuti non haurebbenon dico da uno amico, ma ne anco dal fratello. Ostinato, pazzo, & ritroso fù Filippo figliuolo di Filippo Imperatore, come scriue Sesto Aurelio, dicendo: che era di sì rigida, & ostinata natura, che non fu mai alcuno, che per grande astutia, che facesse, l’inducesse a ridere. Duro, e pertinace quanto imaginar si può fù Faraone, che per la sua peruersa, & ritrosa natura si simmerse nel mar rosso con tutto lo essercito suo per uolere della diuina giustitia. Ma che dirò io di Giustiniano Imperatore? al quale essendo tolto l’Imperio, & dapoi essendoli detto, che facilmente lo ricuperarebbe, montò in naue, & essendo scorso sopra Necropola henne una tempesta maritima, fiera, & pericolosa; onde Maice familiare di Giustiniano, disse: Ecco signore, che noi siamo uicini alla morte, fa qualhe uoto a Dio per la salute tua, & questo sia il tuo uoto, che se tu ricuperi l’Imperio, non farai uendetta di alcun tuo nemico. Rispose allhora Giustiniano con gran furore. Se io perdono ad alcuno di loro, che Dio mi faccia hora hora affogare. Tanto era ostinato nel uoler far uendetta, che ancor che fosse stato sicuro di sommergersi, più tosto uoleua con la sua ostinata opinione annegarsi, che saluarsi, & perdonare à uno solo de suoi nemici. Ma doue rimaneAntioco ostinatissimo contra il popolo di Giuda? che mai si tenne di oltraggiarlo, fin che di tanta ostinatione non ne prese uendetta l’eterna bontà, mentre egli andaua a dritto nella ruina di Gierosolima.
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De gli huomini ingrati e discortesi.
Cap. XIII.

A [corrected as è] L’ingratitudine una obliuiona, ò dimenticanza ben spesso simulata di non render gratie, ò altra cosa, per il beneficio riceuuto, & però Aristo. nel lib. 9. dell’Ethica al cap. 9. lasciò scritto, che è cosa propria dell’ingrato il riceuere il beneficio, ma non già il renderlo. Ingratus est, qui suspicere appetit, & non benefacere. Cosa inhumena, fiera, & cruda: come ben disse cicerone pro Planco. O quanti ne sono, che hanno riceuuti non solamente aiuti con le facultà altrui, ma con la uita, & con li honori, & venendooccasione nonuolgiono render alcun fauore a chi loro ha beneficiato, & negano di hauer riceuuto alcun beneficio, o fingono di non hauerlo hauuto, ò se li scordano. Però Plauto parlando de’ suoi Cittadini, disse:
Ita sonto isti nostri Ciues,
Si quid benefacias, Laeuior pluma gratia est,
Si quid peccatum est, plumbeas iras gerunt.
Parlano pur de gli huomini, & non delle donne, come apertamente si uede, come lor proprio uitio, il quale è pur cagione di infiniti mali, dicendo il Trissino nella sua Italia liberata:
E l’empia ingratitudine, ch’è sola
Causa, e radice d’infiniti mali.
Et questa sentenza si confermarà con gli essempi. Ingratissimo furno gli Ateniesi, come scriue il Sabelico, i quali diedero à l’innocente Socrate il veneno. Ingratissimi furono i Siracusani uerso Dione, il quale lor liberò la patria, & essi in premio di questo beneficio lo sbandirno, come scriue lo istesso Autore, & dapoi lo chiamorno, & lo fecero morire: questa non fu ella una grandissima ingratitudine? I Thebani non furno ingrati uerso Epaminonda, & Pelopida? gli Ateniesi non furno sconoscenti, & ingrati verso Solone? he a loro diede le leggi, & fu cagione egli solo, che la patria restasse libera della Tirannide di Pisistrato, & dapoi lo sbandirno, come dice Valerio Massimo. Gli Ateniesi, scriye il medesimo Autore, messero in carcere Milicade vincitor de’Persi, & non uolsero, che doppo morte fosse sepelito, se prima non haueuano in prigione Cimone suo figliuolo. Ma che diremo di Temistocle? che di Demetrio Re, che fu tanto afflitto da gli istessi Ateniesi? I Romani non furnoingratissimi a cacciare Camillo in essilio? che haueua fatto tanto, e tanto bene per il popolo Romano, come racconta il medesimo. Caligula era di cosi peruersa natura, che odiaua a morte chi li uolea bene. Ma che dirò io de’ Spartani? i quali lapidorno molte uolte Licurgo, il quale haueua dato tante leggi, & hebbe
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tanto amore uerso la patria, & essi finalmente li cauorno gli occhi, & lo cacciorno della Città. O che sconoscenti, ò che ingrati; Mi souuiene di Scipione Africano, che liberò si può dir Roma, uinse Cartagine, & à l’ultimo gl’ingrati Romani lo sbandirno; ond’egli spinto da giusto sdegno fu sforzato a dire: Ingrata patria non habebis ossa mea. Ingrato fù Giustiniano imperatore verso Bellissario, cheera stato così giudicioso capitano, lo priuò d’ogni suo hauere. Ingratissimo, & sconoscente quanto imaginar si può fu Filippo di Arabia contra Gordiano Misetto Prefetto, & Capitano suo elesse Filippo in luogo di Misetio, il quale era pouero, et di stirpe dishonorata, & uile: Tosto che l’ingrato si uidde assiso a tanto grado, subito cominciò à pensare, come potesse runnar l’Imperio à Gordiano. Fece prima nascere nell’essercito mancamento di uettouaglia, & non lasciaua correre le paghe al suo tempo à i soldati, i quali si sdegnauano, & egli diceua, che tutto procedeua da poca cura, & prouedimento dello Imperatore, et tanto fece, che eguale à Gordiano nell’Imperio diuenne; come se li uide uguale, cominciò à disprezzarlo apertamente, & ordinaua ogni cosa come se stato fosse solo Imperatore: il misero Gordiano uedenedo che non potea nulla nell’Imperio, pregò Filippo, che almeno lo hauesse in luogo di Cesare, il che non ottennendo chiese di essere suo Prefetto, ne questo impetrò, à l’ultimo pregò di potere essere uno de suoi Capitani, questo li concesse. Ma come pensò, che Gordiano era amato, lo fece uccidere miseramente, ò che ingrato, non meritaua egli, che il Cielo lo fulminasse, ò che la terra uiuo nelle sue interne parti l’accogliesse? Ma che diremo noi della ingratitudine di Teseo? alquale la cortese Arianna insegnò il modo di uscire fuori dell’intricate strade del cieco Laberinto, che in premio di tanta cortesia l’abbandonò, & lasciò sola su il diserto lido, come dice Ouidio nel lib.ottauo parlando dell’ingrato Teseo.
Vtque ope virginea nullus iterata priorum,
Ianua difficilis filo est inuenta relicto:
PRotinus Aegydes rapta Minoide Diam.
Vela dedit: comitemque suam crudelis in illo
Littore destituit.
I quali uersi tradotti in volgare dal Maretti tali sono.
Ma poi, che per verginea aiata data
Trouò la porta, e la difficil via
Mai da nissun fino a quel dì trouatam
Lasciando il filo, subito s’inuia
Theseo, e rapita a Min la figlia amata,
Diè le vele ver l’Isola di Dia,
Doue il crudel nel lido a la campagna
Abbandonò la fida sua compagna.
Ingrato fù Enea uerso la cortese Didone, che tanto amoreuolmente l’hauea
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riceuuto nelle proprie case, & egli la lasciò non curando ne le lagrime sue, ne preghi, & scordatosi affatto della miseria, nella quale era quando Didone l’accolse, come egli stesso disse alla presenza sua.
O sola infandios Troiae miserata labores,
Quae nos reliquias Danaum, terreque, marisque
Omnibus exaustos iam casibus, omnium egenos
Vrbe, domo socias grates persoluere dignas
Non opis est nostrae Dido, nec quicquid vbique est
Gentis Dardaniae, magnumque sparsa per orbem.
Et uno sbandito, vn vagabondo non si astenne di mostrare la sua ingrata natura alla cortese Elisa, laquale rimprouerando la sua ingratitudine disse;
Nec tibi diua parens, generis nec Dardanus auctor
Perfide, sed duris genui te cautibus horrens
Caucasus; Hircaneque admorunt vbera tigres.

De gli Huomini incostanti, & volubili

E’ Segno certissimo l’inconstanza di vna mente poco saggia, & auueduta; percioche s’ella s’impiega, senza dubbio non andarebbe ella vagando intorno a diuerse cose, non risoluendosi di appigliarsi ad alcuna di loro, & se pure ad alcuna si accosta per lo piu alla peggior dà di piglio; essendo ella sorella carissima dell’ignoranza, & però con grandissima prudenza disse Cicerone, che niuna cosa è più degna di biasmo dell’incostanza, mobilità, & leggierezza di animo, che ancho leggerezza chiamò, nome denotante una spetie di pazzia. Incostante, & oltre modo volubile fù Caligula Imperatore, alquale hora piaceua la compagnia, hora la fuggiua, come veneno. Faceua alle volte le cose con tanta prestezza, che pareua il piu accorto huomo del mondo. Altre volre con tanta lentezza, & trascuragine, che mostraua di essere tutto il contrario. a molti, i quali haueano commesso grandissimi misfatt, non daua castigo alcuno. Et molti altri faceua amazzare senza colpa alcuna. Hoggi lodaua una cosa, domani chi ne diceua bene voleua taglaire a pezzi, & finalmente era tanta l’inconstanza, & il mutamento di costui, che non sapeuano i sudditi, ne che fare, ne che dire, & era il medesimo ne’ vestimenti, & in tutti gli altri fatti suoi. Sergio Galba fù anchor egli instabile, & senzo fermezza. Faceua tutte le sue cose vna contraria a l’altra, hora si mostraua aspro, hora mansueto, & piaceuole, hora condannaua le genti senza cagione, alla morte. Hora quei che al meritauano, lasciaua assolti. Questovitio in ogni persona è brutto,
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& biasimeuole. Ma in un principe non si può imaginar peggio. Et amore fù inconstantissimo, hora era preso d’amore, hora da orio, come dice il Petrarca di lui parlando.
Vedi quel che in vn tempo ama, e disama.
Et Aladino Tiranno, per l’imagine tolta, come dice Torquato Tasso era tanto pieno di rabbia, come mostra in questi versi contra i Christiani.
Tutto in lor d’odio infellonissi; ed arse
D’ira, e di rabbia immoderata, e immensa.
Ogni rispetto oblia: vuol vendicarsi
(Segua che puote) e sfogar l’alma accensa.
Morrà (dicea), non andrà l’ira a vuoto
Ne la strage commune il ladro ignoto.
Vdite, che instabilità, & inconstanza solamente per quella honesta bellezza di Soffronia, che a pena si può dire, che veduta hauesse:
A l’honesta baldanza, a l’improuiso
Folgorar di bellezze altere, e sante:
Quasi confuso il Re, quasi conquiso:
Frenò lo sdegno, e placò il fier sembiante.
S’egli era d’alma, ò se costei di viso
Seuera manco diueniane amante;
Rodomonte era instabile, & uolubile come foglia: che hauea fisso nella mente di odiar tutte le donne, & a pena vedde Isabella, che subito si muta di proponimento, come dice l’Ariosto di lui nel Canto. 28.
Tosto, che il saracin vide la bella
Donna apparir, mise il pensiero a fondo,
C’haua di biasmar sempre, e d’odiar quella
Schiera gentil, che pur adorna il mondo:
E ben li par dignissima Isabella
In cui locar debbia il suo amor secondo,
E spegner totalmente il primo in modo
Che da l’asse si trahe chiodo con chiodo.
Onde considerando l’Ariosto la maschile incostanza esclamò dicendo;
O de gli huomini inferma, e instabilmente,
Come sian presti à variar disegno:
Tutti i pensier mutiamo facilmente,
Più quei, che nascon d’amoroso sdegno,
Io uiddi dianzi il Saracin sì ardente
Contra le donne, e passar tanto il segno
Che non che spegner l’odio, ma pensai,
Che non douesse intepidirlo mai.
Et i Greci tutti sono insabili, vdite quello, che ne dice Iamblico nel lib. de misteriis. Graeci namque natura rerum nouarum studiosi sunt,
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ac praecipites usquaequaquae; feruntur instar nauis saburra carentis nullam habbentes stabilitatem, neque conseruant, quod ab aliis aceperunt sed & citò diminunt, & omnia propter instabilitatem, nouaeque inuentionis elocutionem transformare solent. Et che diremo noi di quei buoni campioni di Christo, che à pena haueuano ueduto Armida, che si lasciauano raggirar à i lor uani appetiti, & però dice il Tasso, che
Goffredo spesso hor di uergogna, hor d’ira
Al uaneggiar de Caualier s’accende.
Ma che si dirà di Vincilao già uecchio instabile, come mostra il medesimo poeta
Vincilao, che graue, e saggio inante
Canuto pargoleggia, e uecchio amante.
Io non credo che fosse punto dissimile da quelle Girandole, che ad ogni poco di uento si mouono.

De gli huomini maligni, & che portano odio. Cap. XV.

AFFERMANO tutti gli ottimi scrittori l’Odio essere una inuecchiata, & raffreddata ira, la quale difficilmente si può cancellare, & solamente la morte di far questo è un ottimo, & eccellente rimedio, & però si dice odio tenace, lungo, & mortale, & è più uituperato dell’ira; eprcioche ella è un subito, & repentino moto dell’anima irragioneuole. Ma l’odio è un cattiuo effetto, & passione della ragione, & quelli tengono il primo luogo fra questi tali, che non lasciano l’odio ne per preghiere, ne per utile, ne per la lunghezza di tempo si mitigano, lequali tre cose sogliono mitigare, & annullare questa passione, come lasciò scritto Cicerone dicendo. Odium uel precibus mitigari potest, uel utilitate deponi, uel uetustate sedari. Ma lasciamo di ragionare della natura di questo pessimo uitio, & ueniamo à gli essempi. Annibale portaua cosi graue odio à Romani, che giurò di esserli sempre crudel nemico. Sergio terzo Ponteficie hebbe tanto odio à formoso Pontefice, che lo fece cauar fuori della sepoltura, & tagliarli la testa, & dapoi gettarlo nel Teuere. da questo conoscere si può, he non solamente contra uiui uiue l’odio, ma contranmorti anchora. grande fu l’odio, che hauea Cambise Re di Persia contro il fratello, & spinto da questa passione lo fece uccidere. Ma grandissimo fù quello, che hebbero i Genouesi contra i Pisani, percioche hauendo i Genouesi pigliate due galee di Pisani, impiccorno i Padroni, & uenderno tutti gli altri à una cipolla l’uno, come dice Batista Ful. Al tempo di Scipione Africano essendo morto il padre à duo fratelli, fra loro si odiauano tanto, che non si poteuano uedere, & si indussero à combattere insieme, & il più pertinace fu ucciso. Et Catalina uedendo che bisognaua prolungar le nozze di aurelia un giorno solo
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solo per cagion di un suo figliuolo, li prese tanto odio, che lo fece auenenare. questo narra Batista Ful. mi souiene di Amilcare, il quale essendo uenuto in Roma; percioche il popolo Romano inuitato l’hauea, et uedendo quattro figliuoli, disse questi fanciulli sarebbono buoni per alcuni miei Leoncini. Vi pare, che l’odio in costui fosse grandissimo?

De gli huomini ladri assassini, corsari & rapaci. Cap XVI.
E IL ladrocinio un possesso della robba altrui senza il consenso del proprio padrone nascostamente inuolata. Ma quando con vuolenza si toglie aspettando gli huomini alle strade assasinamento si chiama. Et finalmente se per mare alcuno se ne sta rubbando Corsale da ogn’uno uien chiamato. il furto quanto sua da ogn’uno biasmato, & uituperato non accade, che io lo racconti: percioche è cosa inumana il uolere posserdere l’altrui senza alcuna fatica, & quel che è peggio con la morte di colui, à cui è stato rubbato. Ne licurgo quel gran ligislatore instituì il furto à i giouinetti; perche godessero l’altrui hauere. Ma bene accioche si essercitassero & si facessero uigilanti, agguzzando l’ingegno nel rubbare, & nel conseruar la cosa rubbata. Onde non solamente si faceua accorto il ladro, ma anchora colui, a cui era la robba inuolata; & cosi pochi furti si faceuano, & tanto piu che era tanto la pena grande posta da Licurgo, & la uergogna di essere scoperto, che più tosto i ladri uoleuano morire, che essere conosciuti come tali, come intrauenne à un fanciullo, che rubbò un Volpacino. MA passati gli anni quattordici non poteuano più in modo alcuno rubbare. fù inuentore del furare, scondo che scriue Giustino, Nino Re dell’Egitto. gran ladro fu Arpalo, come scriue Cicerone nel lib. de natura Deorum il quale beffaua ogni giorno li Dei, dicendo che lo lasciauano pur uiuo, anchor che rubbasse ogni giorno. fu etiandio grande Caio Verre. non minor di lui Flacco Censore, come narra Tito Liuio, il quale tolse un tetto di marmo à Giunone Licinia per coprir la sua casa. fù etiandio ladro Arsace Re de persi, il quale nella giouentù apertamente rubbaua, e finalmente fu fatto Re de ladri. Ladro fu Dionisio di cose sacre, & similmente Nerone. Che diremo noi de gli Argiui che nasceuano ladri? onde naque un prouerbio. Argiui fures. Che di Ghino di Tacco, ilquale rubbò con suo Zio un Castello alla Republica senese detto Radicofani in maremma, costui essercitaua molto il ladrocinio, come dice il Bocca. di lui ragionando Ghino di Tacco per la sua fierezza & per le sue rubbarie huomo assai famoso era, essendo cacciato da Senesi, & dimorando in Radicofani à ciascuno che per le circostanti uie passaua, rubbar faceua à suoi masnadieri. Et pochi sono, iquali non sappino quanto gran ladro, & rubbator famoso, fù Cacco figliuolo di Vulcano, costui fù il primo ladrone
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habitaua sotto il colle Auentino di roma. Ma Ercole foppo lunghe prede fatte (perche anchor egli douea essere cosi ualente ladro quanto ogn’altro) uenne di Spagna in Italia, & seco guidaua le uacche tolte al Re Girione, & prese alloggiamento poco lontano da Cacco. Ma Cacco, che era sempre auido di noua preda s’inuolò quattro uacche, & tirolle per la coda nell’antro suo: accioche per il segno delle pedate non si potesse imaginar oue fossero. Ercoole dolente della perdita, cercolle & ricercolle, & mai non potè ritrouare inditio, ò segno delle pedate, & finalmente si partiua hauendo perduta la speranza di ritrouarle; alhora sentì il muggio, & subito si accorse, oue erano, & leuando il sasso, che copriua la spelonca di Cacco saltouui dentro, & l’uccise, onde Vergilio nell’Eneide cosi dice di lui.
Cacus auentine scelus atque infamia siluae
Et Dante lo uide nello inferno. Onde dice nel can.25.
Lo mio maeastro disse quegli è Caco
Che sotto il sasso di colle Auentino
Di sangue fece molte uolete laco
Onde cessar le sue opre biece
Sotto la mazza d’Ercole, che forse
Gli ne die cento, e non sentì le diece.
Vanni Fucci, come dice l’istesso Dante era ladro, & ladro di cose sacre, come egli di se stesso dice nel can. 24.
Vita bestial mi piacque, e non humana
Si come à Mul, ch’io fui; son uanni Fucci
Bestia, e Pistoia mi fù degna tana.
E più sotto dice parlando pur di se medesimo il ladrone
Io non posso negar quel, che tu chiedi
In giù son messo tanto; perche fui
Ladro à la Sagrestia de belli arredi.
Et gran ladro, & capo de ladri assassini era colui, che teneua Isabella nella spelonca, come dice l’Ariosto, ilquale con i compagni fù da Orlando ucciso. come mostra con questi uersi.
Nella spelonca una gran mensa siede
Grossa duo palmi, e spatiosa in quadro
Che sopra un mal polito, e grosso piede
Cape con tutta la famiglia il ladro
Questa mensa gettò Orlando fra loro, & parte ne stroppiò, parte ne uccise affatto: di quelli che restorno uiui, udite quel che Orlando fece.
Poi li strascina fuor della spelonca
Doue facea grand’ombra un uecchio sorbo;
Orlando con la spada i rami tronca,
Et quelli attcha per uiuanda al Corbo
Anco Brunello era un cosi bello ladroncello, quanto alcun altro, che
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al mondo fosse, come dice l’istesso Ariosto che parlando di Frontino, che rubbò al Re Circasso dice.
Inanzi Albracca gliela hauea Brunello
Tolto di sotto quel medesimo giorno
Ch’ad Angelica anchor tolse l’anello
Al Conte Orlando Balissarda e’l corno
E la spada a Marfisa & c.
E però meritatamente.
Il manegoldo in luogo occulto, & ermo
Pasto di Corui, e d’auoltoi lasciollo.
Vfente cont tutto lo suo stuolo era ladro. Però di lui, e delli suoi compagni dice Vergilio.
Armati terram exercent; semsperque recentes
Ceonuectare iuuat praedas, e uiuere capto
Lequali paroli tirate in lingau uolgare da Anibal Caro, risuonano cosi.
Arar con l’armi indosso, e tutti insieme
Viuer di cacciagioni, & di rapine
Io non so per qual cagioni ui sieno tanti di questi huomini da bene, i quali non uogliono faar niuno essercitio, ma uogliono uiuere della robba alctrui, ne mai si castigano anchor che dinanzi à gli occhi si uedono impiccare un altro, ladro in quel medesimo tempo inuolano i denari à qualche uno, che lor è uicino. Ma che diremo noi di quei buoni compagni di Vlisse, i quali stimando, che nell’otre chiuso, che Eolo hauea dato ad Vlisse, fosse argento, scilsero l’otre, e ne uscirono i uenti, iquali lor diedero quel, che meritaua la loro auidità. Ancho il Sannazaro mostra, che Lacinio era un ualente ladrone in quei uersi, che fa dire à Serrano.
Tacer uorei, ma il gran dolor m’inanima
Ch’io tel pur dica: sai tu quel Lacinio
Ohime ch’a nominarlo il cor si esanima
Quel che la notte ueglia, e’ galicinio
Gliè il primo sonno, e tutti Cacco il chiamano
Però che uiue sol di latronio
E più sotto fa dire ad Opico, uolendo mostrare che quasi tutti gli huomini sono ladri, questi uersi.
O quanti intorno a queste selue numeri
Pastori in uista buon, che tutti furano
Rastri, zappe, sampogne, aratri, e uomeri
Et anchor Torquato Tasso udite quello, che dice di Albiazar.
Le terze guisa Albiazar, ch’è fiero
Homicida, ALdron, non Caualiero.
Et come afferma Plutarco ladri erano i soldati di Bruto, che se quel giorno, che attacò la battaglia Marc’Antonio, non erano occupati ne’ latrocinii degli alloggiamenti, haueua una felicissima uittoria. Ma tanta
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è ne gli huomini l’auidità de l’hauere altrui, che non lascia mai finire una opera bene, & non rioua, che ogni giorno si uegga nelle piazze principali qualche uno di questi uccelli grifagni, che habbi incautamente dato del capo ne lacci, né che sieno posti per nerui à mouere le ali alle galee, non curano honore, & non su ricordano di quello aureo detto di quel Poeta:
L’honore è di più pregio, che la uita.
Et di questa sorte ue ne sono molti; onde ogni giorno si odono latrocinii, à chi uen rubbato il mobil di casa, à chi le mercantie, à chi una cosa, à chi un’altra, fino à Calandrino, quei buoni compagni inuolorno il porco; ma lasciamo costoro; ancorche se io uolessi, ne farei un libro intiero; perche sono fuori di modo in quantità i ladri, & si può dire:
O quanti Cacchi al mondo hoggi si trouano
Ma ueniamo à quella altra sorte di latroni maritimi non manco scelerati de i ladri terrestri. Lucano Poeta nomina i furto di Basilio Pirata, li quali sono senza fine: il medesimo Lucano nomina Sesto Pompeo, per Corsale, dicendo:
Sextus erat magno proles digna parente,
Qui mox scylleis exul grassatur in undis
Polluit equoreos Siculus Pirata triumphos,
Cleomenide scorse il mare vintidoi anni, al tempo di Tolomeo. Clipanda al tempo di Ciro fù famoso ladro maritimo. Milia al tempo di Dioniasio Siracusano, che essendo condotto alla morte, confessò, che hauea fatto morire più di cinquanta mila huomini, à quali haueua ancao tolto la robba. Cleomente al tempo di Alessandro Magno fu gran corsale, & Alcanore al tempo di Giulio Cesare non cedeua a nessun corsale nell’essere un ualente ladrone, & cosi molti altri, che per breuità tralascio; ma forza è, che di nuouo io mi ritragga à riua; percioche ui è un ladro terrestre, che non vuol ch’io ponga fine à questo capitolo senza il suo nome, & questo è giouanni Lago, il quale era capitano della guardia del palazzo dell’Imperatore di Constantinopoli, nominano Alessio Comneno. Costui era il più bel ladrone di quanti sieno mai stati, & deliberò di mettere insieme molti denari per se, & per i suoi con quello ufficio: onde nel tempo di notte sprigionaua tutti i più eccellenti ladri, che fossero in prigione, & lor mandaua à rubbare per le case, & tutto il furto, che faceuano, lo facea portare a casa sua, & à loro porgeua una mercede, come à lui piaceua, nel uederlo nel suo vfficio, pareua il piu liberale, & iusto ministro, che al mondo fosse, & questo manto di lealtà celaua un’animo ladrone, & scelerato; ma udite quello, che dice l’Anguillara nelle Metamorfosi d’Ouidio, parlando di questi ladri, che sono lupi sotto sembianza di pecore,
Và ricco peregrino al suo viaggio,
Ecco un ladro il saluta, il bacia, e ride,
E fingendo amistà, patria, e lignaggio
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L’inuita seco à cena, e poi l’vccide,
Il cittadin piu cortese, che saggio
Albergo con amor persone infide,
Che scannan poi per rubarlo nel letto
Que, che con tanto amor lor diè ricetto.
Vede il genero graue hauere il seno
Della moglier, che sarà tosto madre,
E dando al ricco suocere il veneno,
Toglie alla fida moglie e il caro padre:
Vn’altro, la cui figlia il uentre ha pieno,
Con le sue mani insidiose, e ladre,
Dando al genero ricco occulta morte
Fa piangere alla figlia il suo consorte.

De gli huomini vili, paurosi, & di poco animo.
Cap. XVII.

LA paura è, come dice Speusippo: Concussio animi in expectatione mali. Ouero è un sospetto di un male eminente, come si legge nel libro 3. dell’Etica, il quale con la sua fredda presenza agghiaccia il sangue fino nelle più interne parti del cuore, & però i Latini le aggiungono spesso epiteto di freddo, dicendo: Gelidus timor: perchoche rende gli huomini freddi, essangui, tremanti, & pallidi, & l’Ariosto mostrò questi effetti del timore, & prima dell’agghiacciare, nel Canto 30. mentre combatteua Madricardo con Ruggiero dicendo:
L’aspra percossa agghiacciò il cor nel petto,
Per dubbio di Ruggiero a i circostanti.
Nel Canto vltimo lo mostrò accompagnato dalla pallidezza in questo modo:
Donne, e donzelle con pallida faccia,
ATimide à guisa di colombe stanno.
E grandissimo difetto il timore; percioche colui, che teme la morte poco stima, & pregia la buona fama, o l’honore; & però si legge nell’Etica, che il timore spinge, & sforza l’huomo à commettere cose uergognose. Timidus enim magis mortem fugit, quam dedecus. Et quel che è peggio, tanto alle uolte può questo timore, che il timido non fa alcuna resistenza à colui, che li vuol leuar la vita: la qual cosa osseruò l’Ariosto nel secondo dell’Etica, dicendo: Cunca fugit, & nulli restitit: Così fece
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Gradasso doppo la morte del Re Agramante, come scriue l’Aiosto in questi uersi:
Tremò nel core, e si smarì nel uiso,
A l’arriaure del Cauallier d’Anglante
Presago del suo mal parue conquiso;
Per scherno suo partito alcun non prese
Quando il colpo mortal sopra gli scese.
Fù adunque il timore cagione, ch’egli non fece alcuna resistenza ad Orlando, anchor che i poeti fingano, che i fati molte uolte siano di ciò cagione, sic enim fata volunt, dicono essi, ma appresso di me sono leggierissime scuse. ma ueniamo à gli essempi: racconta Orosio, che Eracliano gouernatore in Africa era timido, & di animo di coniglio, essendo uenuto à Battaglia con Honorio tanto si empi di parua, che pallido, tremante, & quasi agghiacciato nel cuore fuggì al mare senza aspettar, che’l nemico più si auuicinasse, & fuggi in Africa. ma non pote fuggir la morte; perche fù ucciso per la sua timidità. Marco Antonio, come scriue Plutarco, hauendo attaccata la Battaglia con Bruto, si nascose in un acera palude per timore, & ui stesse fino à tanto, che intese, che i suoi soldati erono uincitori, ma haurebbe fatto meglio à nascondersi sotto il letto, luogo più sicuro. L’imperator Honorio anchor egli fù timido, & di poco animo. Cesare Augusto fuggì per timore da i suoi alloggiamenti sotto la bandiera di Antonio, mentre erano nelli campi Filippici. Nerone anchor gli era di uile, & timido animo; perche quando si uide abbandonato dalle guardie, uoleua pigliare il ueneno, ma per timor della morte non sapeua come fare, all’ultimo pigliò duo pugnali, & hor con l’vno, & hor con l’altro si accennaua di amazzare, ma tanto la viltà che non si arischiaua di farlo, & perche haueua duo compagni fedeli, pregaua hor questo, hor quello, che li facesse la strada, ma quando si sentirno gli strepiti de Caualli, che mandaua il Senato per pigliarlo, allhora vno de suoi amici che era seco l’uccise. Turno figliuolo di Dauno fù timido, & di poco cuori, come mostra Vergilio nel lib.12. che quando vide, che contra Enea più non poteua, suplicando li domandò la uita, & cosi dice di Lui.
Ille humilis suplexque oculos, dextramque precantem
Protendens, equidem merui, nec deprecor inquit:
Vtere sorte tua miseri te si qua parentis
Tangere cura potest, oro: fuit & tibi talis
Anchises genitor: Dauni miserere senectae;
Et me, seu corpus spoliatum lumine mauis,
Reffe meis. viscti, & victum tendere palmas
Ausonii videre. tua est Lauinia coniux.
Vlterius ne tende odiis.
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I quali uersi tradotti in uolgare da Annibal Caro tali sono:
Gli occhi, & la destra,
Alzando in atto humilmente admesso,
E supplicante, io (disse) ho meritato
Questa fortuna, e tu segui la tua,
che ne uita, ne venia ti dimando:
Ma se pietà de’padri il cor ti tange,
(Ch’ancor tu padre hauesti, & padre sei)
Del mio uecchio parente, hor ti souegna;
Et se morto mi vuoi; morto chìio sia,
Rendi il mio corpo a’ miei; tu vincitore,
Et io son uinto, e già li Ausonii tutti
Mi ti ueggono a i piè, che supplicando,
Mercè ti chieggio, & già ALuinia è tua.
A che più contra un morto, odio, e tenzone?
Par che non cerchi la uita, & pur la dimanda il timido. Ormondo, ancorche facesse l’animoso, io non credo, che ualesse un bagatino, & lo mostrò quano uoleua à tradimento uccidere Goffredo, come mostra il Tasso, che essendo ferito mortalmente da Goffredo, fu assalito sa subita paura, & non fece diffesa alcuna, & così dice ragionando di lui:

Mortalmente piagollo, e quel fellone
Non fere, non fa schermo, non s’arretra;
Ma, come innanzi à gli occhi habbia il Gorgone,
(E fu cotanto audace) hor gela, e impetra.
Et il vil Martano, il quale uedendo il Signor di Seleucia, che uccise Ombruno, hebbe tanto timore, che non sapeua, che fare; però di lui dice l’Ariosto nel Canto 17.
Veduto ciò AMrtano, hebbe paura,
Che parimente à se non auuenisse:
E ritornando nella sua natura,
A pensar cominciò, come fuggisse,
Grifon, che gli era appresso, e n’hauea cura,
Lo spinse pur, poi che assai fece, e disse,
Contra un gentil guerrier, che s’era mosso,
Come si spinge il can al lupo addosso.
E ne i quattro ultimi uersi della stanza, che segue:
Quiui oue erano i principi presenti,
E tanta gente nobile, e gagliarda,
Fuggì l’incontro il timido Martano,
E torse il freno, e’l capo à destra mano.
Pur la colpa potea darsi al cauallo
Chi di scusarlo hauesse tolto il peso,
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Ma con la spada poi fe si gran fallo,
Che non l’hauria Demostene diffeso.
Di carta armato par, non di metallo,
Si teme d’ogni colpo essere offeso,
Fuggesi al fine, e gli ordini disturba,
Ridendo intorno a lui tutta la turba.

De gli bestemmiatori, & sprezzatori di Dio.
Cap. XVIII.

CHE più graue errore può essere commesso dal’huomo, che dir parole, cone le quali cerchi se possibil fosse di offendere la dìuina prouidenza? certo niuno, se non di chiamo quello essere maggiore, come ueramente credo che sia, che lo disprezza, e beffa, come cosa imaginaria, ò che punto non operi in questo mondo inferiore; percioche è cosa credibile, che coloro, che con parole cercano di uituperare o la potenza, o la natura diuina, credano, che ella si ritroui; ma coloro, che lo sprezzano, o non lo admettono, o se l’admettono, otioso, & impotente lo reputano. scelerati, & iniqui che sono, dalle donne sono lontane le bestemmie, & il disprezzo di Dio, & de’Santi, come quelle, che sono religiosissime, & deuotissime: cosa che non ha bisogno di proua; ma il buon maschio poco timoroso della diuina giustitia, & della sua potenza prorompe spesso in bestemmie horrende, & inique ingegnandosi imbestialito di ritruarne alcuna non più detta, che meglio bestemmia; però veniua trattato da un’huomo di poco conto vn gentilhuomo di Bologna, sauio, e discreto, il quale essendo andato alla corte di un Principe, & pratticando con gli altri cortigiani, quando bisognaua, che affermasse alcuna cosa conn giuramento, diceua al corpo della gallina, per la qual cosa da gli altri di corte ueniua reputato un buffone, & un’huomo di poca leuatura, & bisognò alla fine, che ancor egli cominciasse à trouar Christo, & i Santi, per non essere tenuto un’huomo da niente, Selucia, come narra Battista Ful. disprezzaua oggni culto diuino: onde mandò à spogliar il tempio in Gierusalem, ne conosceua altro Dio, che se stesso. Cambise ammazzò il sacro Bue, credendo di far uiolenza à Dio. Giuliano Imperatore disprezzò tanto la diuina bontà, che essendo ferito si empì una man di sangue, & gettollo uerso il Cielo, dicendo, satiati, & deponi la ira. Nicolò falso Eremita, & molti altri compagni suoi, erano grandissimi bestemmiatori, & ancho Niceforo Imperatore, & questo scelerato uoleua, che i primi della militia si seruissero de Vescoui
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come de gli altri Sacernoti di minor dignità, & delle loro entrare con ogni autorità; biasimaua quelli, che faceuano i calici d’oro, & d’argento, & perche erano sacri nonnuolauano adoprarli nelle cose profane; ma eglinon haueua questo rispetto. Sprezzator di Dio fu Dionisio tiranno di Siracusa, che spogliò il tempio di Proserpina, & doppo hebbe una buona nauigatione: onde egli con patole derisorie diceua, quanta bonaccia danno li Diià chi lor togli i suoi ornamenti. Haueua Hierone ornata la statua di Gione con un drappo d’oro, egli la tolse, & intorno li pose una ueste di lana, affermando l’oro essere inutile ad ogni stagione; perche il verno è troppo freddo,la estate è troppo graue: ma fece vn’altra sceleraggine non minore. Formauano gli antichi le statue ad Apollo, di età giouenile, & quelle di Esculapio senili, & barabate: il buon Dionisio leuò la barba ad Esculapio, dicendo, che non era cosa conueniente, che essendo il padre senza barba, il figliuolo si faceua barbato, & tutte queste cose le faceua ridendo delle superne potenze. Mezentio fù crudo tiranno, & gran sprezzatore de gli Dei, come dice Vergilio nell’Eneide:
Primus init bellum Tirrenis asper ab oris,
Comptor Deum Mezentius agminaque armat.
Et Giouano Giorio Trissino scriue come Arnolfo era un pessimo bestemmiatore dicendo di lui così:
Bestemmiatore scelerato, e ladro,
E quasi infamia del paese Goto.
Vn grande sprezzatore delli dei era Capaneo, come dice Statio nella sua Tebaide, mentre combatteua con quel gran serpente, che hauea ucciso, le qual parole tradotte in ottaua rima da Erasmo Valuasone, tali sono:
O se animal natio di queste piante.
O se pur sei sotto tal forma un Dio
Et ò fosti pur Dio, ch’io farei fede,
Se tanto può alcun Dio, quant’huom si crede.
E parlando Ouidio di uno bestemmiatore, il quale era in fauor di Fineo, dice:
Et quae ibi semianimis uerba execrantia lingua
Edidit, & medios animam spriauit in ignes.
Erisitone fu sacrilego, & gran sprezzator delli Dei, come mostra Ouidio nel lib.S.& mentre taglia la sacra Quercia, lo fa dire così:
Non dilecra Deae solum, sed ipsa licebit,
Sit Dea tanget frondente cacumine terram.
Et perche uno li hauea tenuta la bipenne, accioche non commettesse cosi scelerato eccesso, esso l’vccise, & ritornò a percotere la Quercia, dalla quale vscì una voce, che diceua:
Nympha sub hoc ego sum Cereri gratissima ligno,
Quae tibi factorum poenas instare tuorum
Vaticinor moriens.
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Ne perciò lo scelerato affrenò la destra, ma aseguì troncando:
Persequitur scelus ille suum.
Da questo si può comprendere, che non giuouano ammonitioni à questi bestemmiatori, & sprezzatori di Dio: l’Ariosto pone Rodomonte per uno di questi tali, dicendo:
Doue nel caso disperato, e rio,
Altrì fan voto, egli bestemmia Dio.
Et quando è sotto Parigi, ancor dice:
Ne uien sprezzando il Ciel, non che quel muro.
Et nelle sue satire, parlando di questi tali huomini giuocatori.
Bestemmian Christo gli huomini ribaldi,
Peggio di quei, che lo chiauaro in Croce.
Si racconta ancora di un certo gentilhuomo buon compagno; ma gran bestemmiatore, il quale si dilettaua del giuoco, & quando perdeuaun soldo ritrouaua tutti i Santi, & le Sante del Paradiso; & essendo questo bestemmiatore ripreso, li rispondeua; Caglia buen ombre de Dios, chi bien riniega, bien creye; cioè, Taci buon huomo di Dio, che chi ben bestemmia, ben crede. Non uoglio che resti à dietro questo altro essempio, essendo di un’huomo scelerato, & bestemmiatore. Fu nella città di Mantoua vno di natione Sardo, chiamato Fuluio de Raspi, huomo assai commodo de beni de fortuna, ma ricchissimo piu di ogni altro di uitii, & fra gli altri era cosi ualente bestemmiatore, che non cedeua al piu iniquo huomo, che natura prodotto hauesse. Costui non si degnaua di vituperar con la sordida bocca un sol santo alla uolta, ma tutti in un sol punto uoleua con empie, & dishoneste parole biasimare: doppo un certo tempo fù accusato al Duca, & preso, & condennato in prigione sei anni. Liberato ch’egli fu di prigione s’imaginò di ritrouare un nuouo modo di bestemmiare, ponendo un nome a ciascun bottone, che hauea nel giuppone, di Dio, de Santi, & della Vergine, & quando li ueniua qualche leggierissima occasione, diceua, ridendo, non uoglio già bestemmiare, sia maledettoil primo bottone, ò il secondo , & come più li pareua; Stupiuano le genti, che l’udiuano, & era ben spesso da molti udito, come hauesse lasciato in tutto quel brutto uitio. Giuocaua benissimo al pallone, & per questa eccellenza era meno odiato dal Duca,di quello, che sarebbe stato; seguitò con questo modo di bestemmia alquanti mesi, né mai per gran cosa, che contraria accaduta li fosse, diceua altro, che de’ bottoni; il Duca, che era sagace, & accorto Principe, pareua impossibile, che sotto questa copera, egli non bestemmiassea, e però a se chiamatolo, li promise sotto la sua persona di non offenderlo in modo alcuno, & egli li dichiarò la uerità; restò il Duca molto merauigliato della pessima natura di costui, & riprendendolo li disse; che lasciasse questo
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se non lo farebbe morire. Fuluio tolto licenza si partì, & uigilando la notte, pensaua fra se medesimo, come potesse trouare nouo modo di bestemmia; ma il diauolo, che non manca di aiutar i suoi seguaci, li mise nell’animo di ritruar una picciola carta, nella quale fosse stampato tutto il Paradiso, et porla in un buco oue si giuocaua al ballone bene occultata, in guisa, che non fosse possibile, che fosse ueduta, & cosi fece: Venuta occasione di giuocare, quando li pareau tempo di sfogar la sua bestialità, percotea fortemente col bracciale sopra il buco, oue nascoso haueua la carta. Staua il Duca spesso à uedere à giuocare, & osseruando questo molte uolte, & specialmente in certe occorrenze, lo fece chiamare, e doppo molte parole; percioche lo scelerato temeua, li confessò la uerità; il Duca tenutolo in prigione certi mesi, & fattoli tagliare una orecchia, lo lasciò liberò: percioche cosi li hauea promesso con questa conditione, che giuocasse, & se piu truaua nouo modo, subito fosse squartato uiuo, & abbrusciato. Se ne stette il galantuomo molti mesi fingendo di essere amalato senza comparere in luogo, oue fossero persone, parendoli impossibile seruar la promessa, al fine imaginossi un bellissimo modo, che non l’hauria trouato il Diauolo, che uoleua parere di laudare, & sotto questo bestemmiare. Adunque cominciò a giuocare, & quando era nel feruor della colera non diceua altro, se non, sia benedetto il primo di d’Agosto, con tante risa selle genti, che nulla più, considerando, che era un de piu allegri giorni dell’anno. Seguitò con questo modo tre, ò quattro anni senza dare sospitione ad alcuno di bestemmiare. Finalmente al giustitia di Dio, che non lascia andare impuniti questi empi, & ribaldi huomini, fece, che da un suo carissimo amico fu scoperto al Duca, come che Fuluio lodandolo lo bestemmiaua: à pena li diede fede il Duca, pur fattolo prendere, & dattoli varii tormenti, confessò, che lodeua il primo di d’Agosto; percioche in tal giorno nacque Giuda, che tradì Christo. il Duca udito questo ordinò, che fosse squartato, & abbruciato questo horribile mostro dell’Inferno. Ma che diremo noi di quello scelerato Alamano? il quale diede col ferro ne gli occhi all’effigie del Redentore del mondo? non doueua egli essere un grande sprezzatore di Dio? Onde contra di lui esclamando Sertorio Casoni, dice:
Ah perfido, che fai? qual cieco affetto
Ti guida à un tanto, e sì nefando errore?
Qual Megera crudel, qual empia Alletto,
Qual peruerso furore,
Così gli occhi t’adombra, che non miri,
Che contra il sommo tuo fattor t’adiri?
O vil Barbara mano,
Crudel ministra di pensier profano,
O pensier mostruoso infame, e rio;
Per allegrezza incrudelire in Dio?
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Et più sotto dice; E se de i lumi priui
L’effigie di quel Dio, per cui tu uiui,
Degno è, che la tua uita ogn’hor si stia
Nella sua pazza cecità natia.
Leone Imperatore fu crudelissimo, & sprezzatore di Dio. costui abbrusciò tutte le imagini de i Santi, ch’erano in Oriente, & mandò à dire al Papa, ch’ei facesse il simile in Roma; ma il Papamolto si merauigliò di un’huomo tanto scelerato, & empio.

De gli huomini Incantatori, Magi, & Indouini. Cap. XIX.

CHE i primi inuentori dell’arte Magica, & delle tacite inuocationi de’Demonii, ò con la sordida bocca espresse, siano stati gli huomini, è cosa appresso ad ogn’uno notissima, ne già si ritroua (leggansi tutte le istorie) che le donne simili arti inuentassero, & etiandio pochissime, che dopo, che furno da’maschi ritrouate, à quelle attendessero. fù inuentor dell’arte Magica Zoroastro, come si legge in titti gli ottimi Istorici, la qual cosa hauendo osseruato il Petrarca buonissimo Istorico disse: — e doue Zoroastro
Che fu dell’arte magica inuentore.
Et l’Ariosto disse, parlando dell’inuentor dell’arte Maga.
Ne quanta esperienza d’arte Maga,
Fece mai l’inuentor Zoroastro.
Scriue Giustino nel principio del suo Epitome, che Zoroastro fù re de’Battriani nella Persia, & inuentor dell’arte Magica: arte, come narra Plinio nel libro trentesimo apportatrice d’ogni sorte d’inganno, & però è maluagia, & pessima. Scrisse primo fra gli altri, come si legge nel detto Plinio, Hostane, & cercorno uarii paesi per impararla Pitagora, Democrito, Empedocle, & Platone; ma Democrito illustrandola, diuenne appresso alle genti di chiaro nome. L’augumento etiandio Simon Mago nella Città di Roma, la quale li eresse una statua in segno di honore; & tanto fù stimato da quelle sciocche genti per le sue merauigliose operationi, che fu detto di lui: Haec est virtus Dei, quae uocantur magna. Operò cose merauigliose Apollonio Tianeo, come racconta Filostrato, nella vita del detto, & nel lib.3. al cap.3. racconta, che Apollonio uidde nell’India doi vasi, ouero amphore, una, seruata per generar le pioggie, l’altra per eccitar, & generar i uenti; Onde se accadea, che l’India hauesse bisogno di humore per il troppo secco dell’aere, apriuano la bocca à quella destinata alle pioggie, & subito salitea le nubi pioueuano: & quando le pioggie troppo copiose erano, la chiudeuano. Similmente se il Sole col suo ardore troppo riscaldaua i corpi, aperto il secondo uaso, & uscendo i uenti refrigerauano lo aere dell’India. Fù tanto il ualore
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Ismeno, per quello che ne dice Torquato Tasso, era un gran mago, udite i versi:
Mentre il tiranno si apparecchia à l’armi,
Soletto Ismeno un dì se li appresenta,
Ismen, che trar di sotto à chiusi marmi
Può corpo estinto, e far, che spiri, e senta.
Insmen, ch’al suon di mormoranti carmi
Fin nella reggia sua Pluton spauenta,
E i suoi demon ne gli empi uffici impiega,
Pur come serui, e li discioglie, e lega.
Et piu sotto uolendo mostrare la peruersa natura di quegli maghi, che non hanno fede in Dio uero, ne anco in Macone interamente, dice nel Canto secondo:
Questi macone adore, e fu Christiano,
Ma i primi riti anco lasciar non puote,
Anzi souente in vso empio, e profano,
Confonde le due leggi à se mal note.
E più sotto mostrando, come sono empi, e scelerati, doppo che fece rapire ad Aladino nella Chiesa de’ Christiani il sacro simulacro, dice.
E portollo à quel Tempio, oue souente
S’irrita il Ciel co’l folle culto, e rio,
Nel profan loco, e fu la sacra imago,
Susurrò poi le sue bestemmie il mago.
Merlino fù si gran mago, & incantatore, che predicea fin doppo morte le cose, che haueuano a uenire, essendo con l’anima, & co’l corpo nella sepoltura, come dice l’Ariosto,
E la condusse à quella sepoltura,
Che chiudea di Merlin l’anima, e l’ossa,
Et poco innanzi dice ragionando di lui.
Che le passate, e le future cose,
A chi li domandò sempre rispose.
Atlante era grandissimo Mago, Negromante, & Incantatore; benche non preuedesse, che Bradamante lo douesse prendere, & farlo fare, come fece, cioè disfare il suo proprio palazzo, come si legge nel quarto Canto.
Di su la solia Atlante un sasso tolle,
Di caratteri, e strani segni sculto,
Sotto vasi ui son, che chiamano olle,
Che fuman sempre, e denti o han foco occulto.
Vdite quante cose fanno questi huomini peruersi per ingannar le genti, dando l’anima, & il corpo al Diauolo per potersi seruire di lui ne i loro piaceri, etiandio Malagigi era Negromante per quel che ne dice l’Ariosto.
Malagigi, che sa d’ogni malia,
Quanto che sappia alcun mago eccellente.
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Et Procopio per quanto mostra il Trissino era eccellentissimo in queste arti dicendo nel primo lib. della sua Italia liberata,
Procopio era uno Astrologo eccellente,
Cui per gratia del Cielo eran palesi
L’incogniti uiaggi delle stelle.
E le sagaci note de gli augelli
Onde sapea predir di tempo in tempo
Tutte le cose, che douean uenire.
Numera Hidraotte fra magi Torquato Tasso dicendo nel 4. lib.
Reggea Damasco, e le citta uicine
Hidraotte famoso, e nobil mago,
Che fin da i suoi primi anni à l’indouine.
Arti si diede, e ne fù ogn’hor piu uago:
Ma che giouar se non potè del fine
Di quella incerta guerra asser presago.
Ne d’aspetto di stelle erranti, e fisse,
Ne risposta d’inferno il uer predisse.
Che ualente stregone era costui non predicendo la uerità di alcuna cosa. Ne à costui cede Alfeo, che come dice l’Ariosto era pien d’Astrologia, et etiandio mago.
Medico mago, e pien d’Astrologia,
Ma pocco à questa uolta li souenne.
Anzi egli disse in tutto la bugia,
Predetto egli s’hauea, che d’anni pieno,
Douea morire à la sua moglie in seno.
Et piu sotto
E pur li ha messo il cauto Saracino
La punta della spada nella gola.
Ancho Ombrone era buono incantatore, et strigone, et Sacerdote, et Capitano, uenne in fauor di Turno nella guerra contra Enea, come dice Verg. nel lib. 7. dell’Eneide.
Quin, e Marrubia uenit de gente Sacerdos
Fronde super Galeam, et felici comptus oliua,
Archippi Regis missu, fortissimus Vmbro
Vipreo generi, et graviter spirantibus hydris
Spargere qui somnos cantuque manuque solebat,
Mulcebatque iras, et morsus arte leuabat.
Sed non Dardaniae medicari cuspidis ictum.
Eualuit:
Giacobo Sanazaro introduce nella sua Arcadia à parlar Serrano di quei maghi, ò stregoni, poiche li fù inuolato da loro parte del gregge dicendo.
Bel furto si vantò, poi c’hebbe hauutolo.
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Che sputando tre volte fù inuisibile
A gli occhi nostri, ond’io saggio reputolo.
Che se’l vedea di certo era impossibile
Vscir viuo da cani irati, e calidi
Oue non val, che l’huom richiami, ò sibile.
Herbe, e pietro mostrose, e succhi palidi,
Ossa di morti, e di sepolchri poluere
Magici versi assai possenti, e validi
Portaua in dosso, che’l facea risoluere
In vento, in acqua, in picciol rubo, ò selice
Tanto si può con arte il mondo inuoluere.
Narra Giouanni Botero, che gli huomini di Biarmia, et i Laponi viuono à un medesimo modo, et che questi popoli attendono alla Magia, et con i loro incantesmi offuscano l’aere, eccitano tempeste, rendono gli huomini immobili, vendono il vento à nocchieri, et si seruono de Demonii à prezzo, dicono cose auuenute in lontani paesi. (Dio buono) quanta inuidia douono portare a costoro certi stregoni delle nostre parti, che non vagliono un Bagatino. Tiresia Thebano fù indouino, come dice Ouidio ragionando di lui nel lib. 3. delle Metamor.
Ille per Aonias fama celeberrimus vrbes
Irrepraehensa dabat populo responsa petenti:
Euripilo fù etiandio Augure nel campo de Greci, Calcente ancor egli fù douino come dice Vergilio nel lib. 2.
Hic Ithacus vatem magno Calchanta tumultu
Protrahit in medios;
Etiandio Melampo fù grande indouino. Et Amphiaro, come scriue Statio nella sua Thebaide. Come mostra Lucano, Aronte era Augure della Città di Lucca, non manco famoso di quanti altri prima di lui haueuano fatto professione di questa arte. Asdente Parmegiano calzolaio huomo grosso, et idiota, si diede all’arte dell’indouinare, et però Dante lo pone nell’inferno, et dice.
-io vidi Asdente
C’haver arteso al cuoio, et à lo spago
Hora vorrebbe, ma tardi si pente.
Leone Imperatore, come scriue Niceta Acominato infino dalla sua prima fanciulezza godeua, et si dilettaua oltre modo delle inuocationi de demoni, et attese in tutta la sua vita à Magiche incantationi, facendo sanguinosi sacrifitii, et mille altre scelerate cose per far incantesmi. doue lascio io Philodemo incantatore famoso come dimostra il Trissino di lui ragionando?
Prima si chiuse in un secreto loco,
E poscia fece un cerchio su’l terreno,
E v’entrò dentro co’l libretto in mano,
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Poi messaui una Pentola nel mezzo,
Con certe ossa di morto, e certi segni
Di sangue humano, e di Ciuette e Gufi,
E mentre che leggea sopra il quaderno,
L’apparue un spiritel lungo una spanna
Su l’orlo de la pentola à sedere,
Poi crebbe in forma spauentosa, e fiera.
Horsu questi bastino; Percioche infiniti sono stati gli stregoni, i Negromanti, et coloro, che hanno dato fede ad ogni sorte de augurii, come si può leggere in tutte l’historie, et in particolare attesero à tutte queste arti i Persiani, ma più i superstitiosi Greci; ma ancor più de Greci i Romani, i quali non mangiauano una cipolla ò non beueuano, se non domandauano prima il consiglio all’oracolo, ò se non osseruauano il volo de gli ucelli, ò il lor garrire, credo, che à nostri tempi nella Magia, et Negromantia sia un grande huomo il Passi; percioche dottissimamente ne suoi scritti ne ragiona.
De gli huomini bugiardi, et mendaci.
Cap. XX.
Poco mi affaticarò intorno à i bugiardi, et mendaci; percioche costoro per il più sono nella compagnia de perfidi, et spergiuri, fraudolenti, et ingrati, i quali tutti sono veri alberghi delle bugie, dirò solamente, che il volere far credere ad altrui una falsità per una verità sia cosa da huomo scelerato, iniquo, et poco buono, per se enim mendacium prauum, et vituperatione dignum, et mentientes vituperio afficiendi sunt. Cosi insegna Aristotele nel 4. dell’Ethica al cap. 7. et perche la bugia è detta da alcuno solamente per diletto, ouero per desiderio di guadagno, ò di gloria, come nel medesimo luogo si legge, tanto il bugiardo, et mendace sarà stimato più cattiuo, quanto il fine sarà ad altrui più dannoso: ma veniamo à gli essempi, et non di una persona sola, ma di infinite insieme. Africa tutta è bugiarda, et vana, et pero l’Ariosto, ragionando di Rodomonte, che piùtosto, che dire una verità sarebbe morto, dice.
Et nel mancar di fede
Tutta à lui la bugiarda Africa cede.
I mercanti quasi mai non dicono una parola vera, De’ sartori non accade dirne, perche Mercurio diede a loro a beuere tutto il vaso pieno di bugie. i marinari poi sono, come dice il Boccaccio tutti bugiardi. Et Argrilupo, come narra il Trissino nella sua Italia liberta, era un gran bugiardo.
Simulator, bugiardo, e fraudolente
Persecutor del Padre, et de Fratelli
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Et il Tasso parlando de’ Greci dice.
La fede Greca à chi non è palese?
Tu da un sol tradimento ogn’altro impara:
Anzi da mille: perche mille ha tese
Insidie à voi la gente infida, auara.
De gli huomini gelosi. Cap. XXI
E LA gelosia una interna passione di animo nata per sospitione, che alcun’altro non godi la persona amata, descrittione di Cicerone nel lib. 4. delle Tusculane con queste parole. Obtrectatio est ea, quam intelligi zeloty piam volo, aegritudo ex eo, quod alter quoque potiatur eo. quod ille ipse concupiuerit. Laqual apporta tanta afflittione, et ramarico all’huomo, che lo rende ben spesso disperato, et di se stesso fuori, et percioche ella causa tante perturbationi d’animo, l’Ariosto la chiamò con questi cinque nomi tutti denotanti passione in quella stanza.
Quasi dolce più, qual più giocondo stato.
Cioè, Sospetto, Timore, Martiro, Frenesia, et Rabbia, inducendo ella ne gli huomini tutti questi noiosi, et spiaceuoli effetti: alle quali cose hauendo riguardo Torquato Tasso la chiamò d’amor ministra in dar tormenti à i cuori, et da lei fa dir queste parole.
Questa c’ho nella destra è di pungenti,
Spine, onde sferzo de gli amanti il seno,
Ben ho la sferza ancor d’empi serpenti
Fatta, e infetta di gelido veneno;
Ma su le disleali alme nocenti
L’adopro, quai fur già Teseo, e Bireno.
L’inuidia la mi diè compagna fera
Mia, non d’amor, la diede à lei Megera.
Di pianto ancor mi cibo, e di pensiero
E per dubbio m’auanzo, e per disegno,
E mi noia egualmente il falso, e’l vero,
E quel, ch’apprendo in sen, fiso ritegno:
Ne sì, ne nò, nel cor mi sona intiero,
E varie larue à me stessa disegno;
Disegnate le guasto, e le riformo,
E’n tal lauor mai non riposo, ò dormo.
Et segue:
Sempre erro, e ouunque vado i dubbii sono.
Et la descrisse etiandio Bernardino Tomitano in questo Sonetto.
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O maligna, ò crudele, ò di dolore,
E di tristi pensieri antico albergo,
O duro spron, che mi percuoti à tergom
Per far l’empio mio stratio ogn’hor maggiore.
O sferza di martir, nido d’errore,
Oue quanto io più mi rileuo, et ergo
In più profonda parte mi sommergo
Stimulo auezzo à tormentarmi il core.
O Gelosia crudele, ò mortal piaga,
Cui quanto procacciar salute io penso,
In più nobile parte all’hor t’interni.
Maligna Circe, e dolorosa Maga,
Che priui altrui del suo più chiaro senso,
Perche si crudelmente hor mi gouerni.
Et ancora Luigi Tansillo in questo modo parlò di lei.
O d’inuidia, e d’amor figlia si ria,
Che le gioie del padre volgi in pene,
Cauto Argo al male, e cieca Talpa al bene,
Ministra di tormento gelosia.
Tesifone infernal, fetida Arpia,
Che d’altrui dolce rapi, et auelene,
Austro crudel, per cui languir conuiene
Il più bel fior della speranza mia.
Fiera da te medesima disamata,
Augel di duol, non d’altro mai presago,
Tema, ch’entri nel cor per mille porte.
Se si potesse à te chiuder l’entrata,
Tanto il regno d’amor saria più vago,
Quanto il mondo senza odio, e senza morte.
Et Giovanni della Casa fece un Sonetto sopra questa fiera, che incomincia:
Cura, che di timor ti nutri, e pasci.
Il quale commentò Benedetto Varchi. Sicuramente, et à ragione sono tormentati più gli huomini da questa furia infernale, che non sono le donne; percioche le donne sono più belle de gli huomini; adunque et più amabili, et care, et se piu care, et amabili sono, senza dubbio saranno sempre con timore possedute, et guardate: accioche della medesima beltà non ne venisse alcun’altro amante, et vagheggiatore, et di qui auuiene, che non si ritruoua huomo, che non sia geloso; ma chi più, e chi meno, conoscendo la nobiltà, et eccellenza della donna: et però schiuano, et fuggono spesso di parlare, ò di scriuere della beltà della cosa amata, non dirò di lasciarla vedere, dubitando di una tanta perdita, et uno di costoro era Francesco Maria Molza, come egli stesso dice.
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Io son del mio bel sol tanto geloso,
Ch’io temo di chiunque fiso il mira,
Però, ciò che di quello amor m’inspira
Quanto più posso, vo tenendo ascoso,
Nè di scoprirlo in Rime altrui son’oso,
Che troppo di leggier’ in pianto, e in ira,
Poria tornarmi, e doue ne sospira,
Sol meco l’alma, starsi altri pensoso:
Cosi ne’ lacci posto da me stesso,
Miser cadrei, e’n perigli da guerra,
Che incontra à me medesmo hauessi ordita
Non è poco il tacer, che m’è concesso,
Anzi la gioia, ch’el mio petto serra,
Quanto è celata più, tanto m’aita.
Questa scelerata rabbia fù cagione, che Giustina Nobilissima Romana fosse dal suo Consorte pochi giorni dopo le nozze uccisa; perché ella sciogliendosi un calzare, egli mirolle il collo, alquale non sò, se la neue, ò il latte fosse buon paragone, essendo ella più d’ogni altra bellissima, et solamente mirando quella candidezza, si lasciò ingombrare il petto da una crudelissima Gelosia, et senza pensar più oltre troncolle il capo. Onde si legge questo Epigrama sopra il suo sepolcro.
Immitis, ferro secuit mihi colla maritus,
Dum propero niuei soluere vincla pedis,
Si può sentire la più siocca, e bestiale Gelosia di questa? Memmio Romano era tanto ingelosito di una Giouine in Terracina, che ritrouando un suo riuale chiamato Largio, et non hauendo armi assaltandolo coi denti e li morsicò un braccio. Onde nacque un prouerbio. Lacerat Lacertum Largii mordax Memmius, ò quante sono uccise à torto donne, benche pudiche per cagion di questa infernale Arpia. Alessio Comneno, come raconta Niceta Acominato, era Geloso della Moglie Eufrosina, et hauendone hauuto sospetto la priuò di tutti gli ornamenti, et titoli Imperiali, et la mandò uilmente in un Monesterio di Monache. Al fine hauendo ritrouata la uerità la ritolse, et li diede i primi ornamenti, et titoli di prima. Però l’huomo Geloso non fa bene à se medesimo, et manco à gli altri, et Clodione come scriue l’Ariosto era molto Geloso dicendo.
Ma Clodion, che molto amaua, e molto,
Era Geloso in somma si consiglia,
Che forestir, sia chi si voglia, mentre,
Ci stia la bella Donna qui non entre,
Et parlando di Rodomonte anchor egli geloso, dice:
A questo annuntio entro la gelosia,
Fredda come Apse, et abbracciò costui.
Et Eustatio come dice Torquato Tasso, era geloso, et à pena dir si
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può, che hauesse veduto Armida, che temeua la bellezza, et virtù di Rinaldo, come si legge nel canto. 5. à stanza 8.
No’l vorrebbe compagno, e a’l cor l’inspira,
Cauti pensier l’astuta gelosia.
Et Nel canto istesso, dopo che furno usciti à sorte Artemidoro, Serardo, et Vincilao, che dice de gli altri.
D’incerto cor, di gelosia dan segni,
Gli altri, i cui nomi auien, che l’urna asconda,
E da la bocca pendon di colui,
Che spiega i breui, e legge i nomi altrui.
Ma come fù uscito à sorte il numero eletto da partirsi con Armida, et che gli altri restorno tanti bei Alocchi [?], si legge:
D’ira, di Gelosia, d’inuidia ardenti,
Chiaman gli altri fortuna ingiusta, e ria,
E te accusano amor, che le consenti,
Che ne l’Imperio suo giudice sia.
Et Propertio era tanto tormentato dalla Gelosia, che dice:
Riualem possum non ego ferre Iouem.
Et etiandio il Petrarca fù molto trauagliato da questa cruda Gelosia, come egli stesso dice.
Amore, e Gelosia m’hanno il cor tolto.
Et altroue.
Subito in allegrezza si conuerse,
La Gelosia.
Et à Zerbino, quando vide Isabella col Conte, entrò nel petto tanta Gelosia, che haueua più affanno à vederla d’altrui, che se fosse come credeua morta. Come dice l’Ariosto.
Che vederla d’altrui, peggio sopporta,
Che non fè, quando udì, ch’ella era morta.
Hauendo Dario come scriue Giouanni Tarcagnota inteso da un suo Eunuco la morte di Statira sua moglie, laquale era stata presa da Alessandro, et come in medesimo Alessandro hauea pianto per lei, et l’hauea honorata, et sepelita con grandissima pompa, fù preso da uno affanno grande di Gelosia; et però menando l’Eunuco da parte lo cominciò a minacciare, che confesasse il uero: ma tanto l’Eunuco lì giurò, et affermò. come Alessandro non hauea mai veduta la Regina, se non il primo giorno che la prese, onde li die fede, et la pianse. Senapo Rè dell’Etiopia era gelosissimo, della moglie, come dice il Tasso.
N’arde il marito, et de l’amore al foco,
Ben de la gelosia s’agguaglia il gelo,
E và in guisa auanzando, à poco, à poco,
Nel tormentato petto il folle zelo,
Che da ogn’huomo l’asconde in chiuso loco,
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Vorria celarla à tanti occhi del Cielo.
Fra tutti i gelosi credo, che tengano il principato gli huomini di Cattaro; percioche non lasciano le donne andare à messa se non inanzi giorno, accioche non sieno vedute, et il giorno di Natale a mezza notte. quando si confessano, sono sempre presenti, ma alquanto discosti dal Sacerdote, et vanno osseruando i moti, et stanno attenti, et immobili prouando se udir potessero le riprensioni. Cosa iniqua, e se si confessano per qualche infermitade stanno nella medesima camera ritirati in qualche parte, ma non molto discosti. alle feste le donne non danzano, ma gli huomini. quando sono amalate, fanno gran cosa à chiamar medico, ma quando vedono la infirmità essere graue, lo chiamano. le donne stanno in letto chiuse fra certe cortine, et porgono il braccio, et à pena lasciano à loro toccar il polso, ne meno interogarle de disordini, ò d’altro, perche dicono à Medici. Horsu hauete inteso il tutto, andiamo. à finestre non si approssimano, anzi alcuni fanno certi spiragli uolti verso il Cielo, da quali pigliano il Lume del Sole, per asciugare loro il capo. Se vanno ad alcuno ricreatione, ò nozze, sempre sono lor dietro, ò auanti à far la discoperta, et molti non si partono di casa ne giorno, ne notte, ne anco della camera, oue è la moglie. i lor sonni sono pieni di spauento, et di timori, temendo che alcuno l’ami, però si suegliano con tremori, et palpitatione di cuore. pensate per vostra fè, che pazzia è questa di quei pouerelli, et che patienza è quella delle donne: ma se le hauessero più belle di quelle, che hanno, impazzirebbono: ma la lor buona sorte conoscendo la sciochezza di questi huomeni, fà che assai brutte le possedono. Scriue Antonio da Salonichi, che un certo Francesco de Scloui hauendo letto le Metamorphosi d’Ouidio non uoleua, che il Sole entrasse in Casa, temendo che della moglie non s’inamorasse, che vi pare? ò che Gelosi perfetti sono questi, et di mente priui.
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De gli huomini ornati, politi, bellettati, et biondati.
Cap. XXII.
Che all’huomo nato politico, et ciuile stia bene l’andar fino ad un certo segno ornato, et polito è cosa ad ogn’un notissima, come dimostra il Casa, et il Cortigiano ne’ suoi ragionamenti: et se all’huomo è conueniente, maggiormente si dee credere, che alla donna conuenga; percioche risplende più la beltà fra ricche, et pompose uesti, che tra pouere, et rozze, come mostra il Tasso nel suo Torrismondo, facendo ragionar la Regina à Rosmonda, dicendo:
Perche non orni tue leggiadre membra
Di pretiosa veste? e non accresci
Con habito gentil quella bellezza,
Che’l Ciel à te donò cortese, e largo?
Bellezza inculta, e chiusa in humil gonna,
E quasi rozza, e mal polita gemma,
Che’n piombo vile ancor poco riluce.
Et essendo la bellezza proprio dono della donna datole dalla suprema mano, non deue ella con ogni diligenza cercar di custodirla? Et quando ne sia poco di tale eccellenza ornata, di augumentarla con ogni modo possibile, ma non già vitupereuole? io certo credo, che cosi sia: percioche se fosse proprio all’huomo, dirò per essempio, la fortezza del corpo, et il fare il gladiatore, ò il brauo, per ragionar secondo l’uso comune? non cercarebbe egli di conseruarsi tale? se nato fosse brauo; non tentarebbe di augumentare quel suo natio ardire con l’arte del schermire: ma se nato poco ardito di animo fosse, si essercitarebbe nell’arte del combattere, et si coprirebbe di piastra, et maglia, et cercarebbe di essere menato, oue si facessero duelli, et combattimenti; et tutte queste cose sarebbe per dimostrarsi brauo, et non come veramente fosse timido, et codardo. Io ho dato questo essempio; percioche non si ritroua huomo, che non facci il rompicollo, et il brauazzo; ma se vi è alcuno, che non facci questa professione, lo chiamano d’animo feminile, e per questa ragione gl’huomini sempre si uedono con l’armi alla cintola, con vestimenti, che hanno del soldato, et con le barbe accommodate in guisa, che paiono, che minacciano, et caminano con certi passi, che credono di porger altrui spauento, et con guanti di maglia, et spesso spesso fanno in modo, che il ferro lor risuoni intorno; accioche le genti si accorgino, che attendono al ferro, cioè alle spade, alle battaglie, et habbino di loro timore: che sono tutte queste cose, se non belletti, et orpellature? et sotto queste coperte d’ardito, et di valoroso, celano un vilissimo animo di coniglio, ò di fuggitiua lepre. Et anco il medesimo intrauiene nell’altre professioni. Se adunque cosi è,
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perche non potranno le donne, che dalla natura sono generate men belle delle altre, coprir le sue poco belle parti, et augumentar la poca beltà con qualche arte, ma non però stomacheuole? et che peccato sarebbe, se una donna nata per la beltà riguardeuole, si lauasse il delicato viso con Succo di Limoni, et acqua di fiori di faua, et di ligustri per leuar via macchie causate dal sole, et per tenersi la carne polita, et morbida? ò se con un colombino, et pane bianchissimo con succo di Limoni, et perle, facesse altro humore da tenersi terso, et morbido il uolto? Picciolo a giudicio mio, et se nel candor de gigli del suo uiso non fiammeggiassero le rose, non potrebbe ella con qualche arte renderlo alquanto simile à l’ostro? Certo si senza punto di riprensione, percioche si deue la beltà hauuta conseruare, et la mancheuole render quanto possibile sia perfetta, leuando ogni impedimento, che prohibisce lo splendore, et la gratia di quella: et se i capelli sono lodati da scrittori, et da Poeti cosi antichi, come moderni di colore simile all’oro augumentando la beltà: perche non deue la donna ciuile, non dirò santa, renderli biondi? et per maggior ornamento innanellati, et crespi? Diremo dunque in questo modo, che alle donne, come creature belle si conuiene conseruar la beltà et la mancheuole perfettionare in modo però, che non diuengano mascheroni con l’impiastricciarsi il uiso: perche è cosa indegna, et stomacheuole lo hauere quattro dita di biancho, et di rosso sù il uiso, non biasmorno in tutto i Santi Padri l’adornarsi, et il lisciarsi nelle donne, ma vituperorno l’eccesso di quello. Come scriue il dotto Augustino nella Epistola 73. ad Poss. onde permettono alle donne maritate l’adornarsi, et il rendersi polite con proposito però di piacer solamente à i lor consorti. Conuiene adunque alle donne L’adornarsi, et è da Padri Dottori permesso per conseruar la propria beltà, ò per parer più belle di quello, che sono. Ma che diremo noi de gli huomini? à i quali la beltà non è propria, et pur continuamente si sforzano di parer belli, et leggiadri non solamente con uarii uestimenti fregiati di seta, e d’oro, in guisa che molti si trouano, che spendono tutto il loro hauere intorno à un uestimento, ma con collari à merauiglia lauorati. Che diremo de medaglioni che portano nelle birette, de bottoni d’oro? et de i gioielli di perle? de Pennoni, et Pennini, che chiamano Argironi, ò Aeroni, et delle tante liuree, Con le quali mandano le case in ruina? vanno con i capelli inondati, lucidi, et profumati. quanti ne sono? che paiono hauere una Bottega di profumiere con esso loro, ò quanti uanno alle barbarie ogni quattro giorni per mostrarsi rubicondi, tersi, et giouinetti, anchor che uecchi? quanti si tingono le barbe quando cominciano per l’horrido uerno della vecchiezza à biancheggiare? quanti con pettini di piombo si pettinano, per tingere le canitie? quanti si cauano i peli canuti per parere anchora in età fiorita? tralascio de pendenti all’orecchie, che portano i Francesi, et altri oltramontani, et de manili pur de Galli inuentione, come si
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legge in Titio Liuio. ò quanti se ne stanno tre, et quattro hore ogni giorno à pettinarsi, et à lauarsi adoprando quante Balle di Sapone che vendono i Ciaratani in piazza? del profumarsi, et del porsi le scarpe non accade parlarne, che bestemmiano tutti i Santi; perche sono strette, et i piedi grandi, et vogliono, che i piedi grandi stieno nelle scarpe picciole, cosa ridiculosa. Ma bisogna, che io adduca alcuno essempio accioche non paia, ch’io habbia detto la falsità. Ortensio Oratore famosissimo tutto il giorno staua à uagheggiarsi nello specchio, et à comodarsi le falde delle vesta. Non merita silentio Demostene gloria della greca eloquenza, il quale quando doueua orare in publico, si componeua la faccia allo specchio, cosa degna di biasmo, che in cambio di essere occupato nella grauità delle sentenze, gettasse il tempo in vanità sciocche. Ma doue resta Lisocrate, che spendeua tutto il giorno in biondeggiarsi per parere bello? Doue Aristagora? che tanto si imbellettaua, et lisciaua, che fù chiamato Maddonna Aristagora? Doue Mecenate? che di odoriferi unguenti, di belletti, di Margherite, et di ogni sorte di ornamento auanzaua la più lasciua femina, che al mondo fosse. Sardanapalo Rè de gli Assiri doue rimane, il quale metteua carestia ne belletti, et nell’altre uanità? Et i popoli Massiliensi si imbellettauano, et biondeggiauano; et etiandio i Valentiani, i quali solamente uiuono con delitie, lasciuie, et piaceri, et però l’Ariosto paragono Ruggiero ornato con mille uanità à costoro dicendo.
Tutto ne gesti era amoroso come,
Fosse in Valenza a seruir donne auezzo.

Et come dice il Bottero gli Spagnuoli per natura si dilettanodi uaghezza, di attilatura, et di apparenza come poi stieno nelle altre cose non pensano. Non merita d’essere lasciato à dietro Commodo Imperatore, ilquale benche fosse crudo, et scelerato, era nondimeno uano, lasciuo, et molle. Il suo maggiore studio era intorno al biondeggiarsi, et dispensaua il tempo in bagni, et altri piaceri, et benche fosse maluagio non si uergognò però di prendere il nome di huomini inimicissimi de vitii, come fece pigliando il nome di Ercole, doue che in uece di Commodo Antonino figliuolo di Marco Aurelio Antonio si faceua chiamare Ercole figliuolo di Gioue, et quello, che più faceua mouer le risa, era, che intorno si mise una pelle di Leone, et prese una mazza in mano, et andaua notte, et giorno dando fiere mazzate uolendo imitar Ercole. Et alcuna uolta si lasciaua uedere tutto uestito alla usanza di una Amazone; ma ornato di perle, e d’oro. Cosi questo valoroso Imperatore spendeua il tempo in queste sciocchezze: ma che diremo noi degli Agrigentini? i quali tanto si dilettauano di pompa, et di uestimenti fregiati, che spendeuano quasi tutto il loro hauere? Che di Lucullo, che uiuea tanto lasciuamente, che fù cagion di questo prouerbio, Viuit vt Luculus. Et Eliogabalo era più di ogni altro uano, scioccho, et lasciuo, costui, come scriuono gli Historici, imponeri
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con le sue uanitadi, et sciocchezze, l’Impero Romano, anchor che ricchissimo fosse. Portaua i manili di perle, collane, et anella di grandissimo pretio, uestimenti di seta, e d’oro tempestati di perle, et di altre pretiose gemme. fino sopra le scarpe haueua pietre di ualuta immensa: ma lasciamo costui, percioche è tutto vanità, e ritrouiamo Ercole, ilquale come dice Ouidio nella Epistola, che li manda Deianira era uano, molle, et gran lisciatore, i versi del quale tradutti in uolgare da Remigio Fiorentino tali sono.
Vidi i monili à quello Erculeo collo,
A cui picciola già fù soma il Cielo;
Non ti parue vergogna hauer d’intorno,
Le perle, e l’oro à le gagliarde braccia,
Ardisti anchor d’ornar l’hirsute chiome,
Di nastri, e frange.
E veramente sono inumerabili gli huomini, che attendon alle vanità, et à rendersi con arte lucidi, et tersi. Ma non voglio, che il tempo inuoli la memoria di un legiadro giouinetto di età più verso à gli ottanta, che à i settanta anni, gentilhuomo di Lombardia Illustre, et nobile, et de beni di fortuna ricco. Costui s’inamorò di una gentildonna bellissima della sua propria Città; il Fanciullo, che di poca leuatura era si diede à credere, che la gentildonna lo riamasse, et per lei faceua le maggiori pazzie, che mai si udissero nominare: rare erano le notti, che il buon giouinetto col suo dolce liuto in braccio sonando, et cantando non facesse secondo quel tempo le serenate, et matinate sotto la finestra della camera, doue la gentildonna dormiua, et cantaua assai, reputandosi di cantare benissimo, e di hauere una soauissima voce: ma faceua ridere le brigate, hauendo una voce di ranocchio, et spesso, spesso mentre racontaua le sue amorose passioni faceua il tremulo, con ilquale il canto più gratioso rendeua. Costui per celar le Chiome, che già per l’età erano uenute d’argento, ogni mese le tingeua, la barba nò; percioche alhora non si usaua, ma bene ogni dui giorni ordinariamente si radeua. Certo, ch’egli era un gratioso spettacolo, uedere sotto quelle zazzera di giouine lucida, pettinata, et fatta à onde col ferro caldo, una fronte crespa, rugata, et negra, et duo occhi scarpellati, et riuersi, il naso gocciolante, le guancie ritirate in dentro, La bocca isdentata, le labbra liuide, smorte, et tremanti, et per non andar più oltre pareua un uiso di angelo da far fuggir il gran Diauolo dell’inferno. Quando era in casa, staua sempre allo specchio, et mirandosi andaua nelle maggiori chollere del mondo, et diceua, ch’egli era un traditore, et un bugiardo, che non mostraua la uera natura, et che se mentiua per la gola, et pieno, di sdegno li faceua far la penitenza gettandolo in terra, et pestandoli sopra con piedi. Del vestire, che diro io? percioche seco hauria perduto la
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più gran fiera di Crema portaua un birettino rosato tutto tagliato con cordoni, et cordelle d’oro, et d’argento gli uestimenti tutti fregiati, et ricamati con le maggiori bizzarie, che ueder si potessero, certo disconuenienti ad un buffone. Del ballare poi che diremo noi? la prima danza in tutte le feste della Città era la sua, anchor che à pena si reggesse in piedi, era più giotto di giuocare alla palla da uento, che l’Orso del mele, et doue ritrouaua giouani giuocatori, spogliauasi in farsetto, et alcuna uolta in camiscia per mostrar meglio la bella disposition del corpo, in niuna parte contraria alla bellezza del uolto: ma non rimanea di seguitare l’amata donna più pertinace da un cane in seguitar la fiera. Il Carneuale ogni giorno si trauestiua mutando ogn’hora abiti, et foggie. Lungi da lui stauano i salterii, et l’orationi, sempre parlaua di cose amorose, et liete. qusto [questo] Babione fù pazzo in uita, et dopo morte; percioche morendo fece questo testamento, cioè che sopra la sua sepoltura fusse incisa per man di famoso mastro l’Historia di Piramo, et di Thisbe, tauola [fauola?] amorosa; et anchora un cupido alato, il quale con l’arco teso saettaua un core. Si può sentir meglio? certo nò. A frigi, che dice Numano nel libro 9. dell’Eneide di Virgilio, che si adornauano, et lisciauano?
Voi con l’ostro, et co fregi, et co le giubbe,
Immanicate, et coi fiochetti in testa,
A che valete? à gir cosi dipinti,
Et cosi neghittosi? à far balletti.
Et il Tasso ragionando della gente Egittia dice nel Canto. 17.
La turba Egittia hauea sol archi, e spade,
Nè sosterria d’elmo, ò corrazza il pondo,
D’habito è riccha: ond’altrui vien, che porte
Desio di preda, e non timor di morte.
Nerone era oltre modo lasciuo, pomposo, et ornato, et mai non si metteua vesti intorno, che non valessero gran quantità d’oro, et stando nello specchio lodaua le chiome; perche pareuano d’oro, et etiandio gli occhi; perche li haueua lucidissimi. Ne voglio che resti à dietro Alessio Comneno Imperatore, il quale, come racconta Niceta Acominato, sempre si mostraua con bellissimi vestimenti d’oro, con lauori di perle di grandissima importanza, et come dice Plutarco Aristotile di dilettaua di star pulito, et attilato oltre modo; portando vestimenti bellissimi, et tutte le dita piene di anella. Non uoglio, che’l tempo inuoli la memoria di un Cortigiano Ferrarese, il quale hauea quanti saponetti, profumi, acque odorifere, et uanità, che erano in Italia: costui spendeua tutta la mattina in pettinarsi, pulirsi, et scopettarsi, et spesso bestemmiaua, che non li pare-
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ua di essere giunto al segno, che desideraua. Non v’era ne in Spagna, ne in Italia, chi meglio di lui calzasse bolzacchini, et era tanto amatore della nettezza, che in uenti anni mai fu visto mangiare insalata senza guanti, che ui pare? credete che trouar si potesse il piu gentile di costui? ma non cede a lui Galieno Imperatore, il quale portaua sempre uesti pretiosissime piene tutte di gemme: Era tanto sciocco il miserello, che si spargeua li capelli di limature d’oro; accioche rilucessero; si lauaua il uiso con uarie acque per diuenire bello, nè si lasciaua uedere, se prima non era stato un’hora con lo specchio, à consigliarsi, mangiaua, sopra mantili d’oro, et con tutti i uasi d’oro con grossissime perle, nella primauera si faceua fare le camere, et i letti di rose, nell’Autunno i Castelli di pomi. Nel più bel dell’Inuerno haueua i melloni in tauola, insegnò come tutto l’anno si potesse hauere mosto [molto?].
De gli huomini Heretici, et inuentori di nuoue sette.
Cap. XXIII.
Stupisco fra me stessa, come alcuni Scrittori ardiscono di affermare, che le donne habbino inuentate nuoue sette, et ritrouate nuoue heresie; percioche se noi parliamo innanzi la uenuta di Christo, non ritrouaremo donne, che fossero inuentrici dell’Idolatrie, ne meno, che hauessero in quelle false religioni opinione alcuna strauagante. Della Idolatria fu inuentore Belo, et però il Petrarca dice:
Belo, doue riman colmo d’errore.
Et Nabucodonosoro, non fece una statua d’oro, et uolse, che fosse adorata? Gli huomini di Babilonia non posero il giusto Daniele nel lago de’ leoni? perche haueua loro ucciso il drago, et destrutto il loro Idolo Bel? et mille altri, ch’io tralascio, come coloro, che haueuano poca fede ne’ Dei: se delle heresie ritrouate doppo la uenuta di Christo ragioniamo, gli inuentori furono infiniti, et tutti huomini, et Santo Agostino nel libro delle heresie fa mentione di nonanta famosi inuentori di quelle, i seguaci de i quali seruano il nome loro; come Simoniani da Simon Mago, Cerinthiani da Cerintho, Cerdoniani da Cerdone, Origeniani da Origene, Manichei da Manin Persiano, Arriani da Arrio, Floriniani da Florino, Tertullianisti da Tertulliano, Pellagiani da Pellagio Monacho, Nestoriani da Nestorio, et cosi da molti altri, che per breuità tralascio; ma quanti doppo Santo Agostino ne sono stati, et hora sono, come Caluino, Ugo, Martin Luthero, et tanti altri, che hanno hauuti per seguaci i Regi, et i Prencipi, et
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poi le prouincie intiere, et i regni, et se si ritrouano donne, che sieno heretice: non è, perche sieno state inuentrici di heresie, ma perche da gli huomini hanno imparato, et anco sforzate furno, et sono da quelli à seguitarle contra la propria uolontà.
De gli huomini lagrimosi, et teneri al pianto.
Cap. XXIIII.
Il pianto, io credo, che non sia uitupereuole, quando è fatto per la morte de’ carissimi genitori, ò per altra causa honesta, et degna, ma poco laudabile egli è, quando è sparso per lieui, et sciocche cagioni; ma vitupereuole, et biasimeuole è, quando per ingannare altrui si sparga, come fanno tutti gli huomini amanti, i quali l’Ariosto uolendo mostrare, che sono lagrimosi ingannatori, dice:
Siate a i preghi, et a i pianti, che ui fanno,
Per questo essempio à credere piu scarse.
Sono molti, che dicono, che le donne facilmente piangono, et però voglio, che uediamo, se ritrouiamo huomini ancor noi lagrimosi: Vno di questi, io credo che fu Silla Imperatore, il quale era tanto piegheuole, che li veniuano le lagrime da gli occhi per ogni picciolissima causa, et un giorno essendoli raccontata la guerra delle rane, et de’ topi piangeua, che pareua, che hauesse il padre dinanzi à gli occhi morto, parendoli che una rana fosse stata la pouerina troppo malamente trattata. Alessandro, come scriue Plutarco, pianse copiosamente la morte del suo cauallo Bucefalo, et per consolarsi in parte fece una città, et la chiamò Bucefalia. Pianse ancora Clito, ma con assai manco dolore, che egli stesso ucciso hauea. Achille nel primo Canto dell’Iliade d’Omero piange alla mamma, che pare un fanciullino; per li fù tolta la figliuola di Briseo premio delle sue fatiche, et lamentandosi, piange, come dice Omero in quei uersi, i quali tradotti in lingua volgare da Luigi Grotto d’Adria, tali sono:
Hor altro non riman, che perder questa
Vita, e perduto haurò ciò, che mi resta,
Così dice egli, e d’uno humor secondo
Gli occhi li colma il suo dolore intanto.
Ma che dirò io del Petrarca? che sempre piangeua per amore di Laura, come egli stesso dice in questo, et in tutti gli altri Sonetti?
Tutto il dì piango, et poi la notte quando
Prendon riposo i miseri mortali,
Trouomi in pianto, et raddoppiarsi i mali:
Cosi spendo il mio tempo lagrimando,
In tristo humor vò gli occhi consumando.
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Et altroue:
Piuonmi amare lagrime dal uiso.
Et in quello altro Sonetto.
Fiume, che spesso dal mio pianger cresci.
Et in molti altri luoghi, et etiandio Lodouico Martelli si lamenta, et piange per la sua donna, che li pare, che sia piu de l’usato seuera: dicendo in una sua Canzone:
Sì ch’io taccio, e piangendo,
Ogni martiro attende.
Erano i pianti miei
Cari compagni fidi
Ad impetrar mercede, e darmi aita.
Corsamonte, come dice il Trissino, piangeua, et assai, mentre che Burgenzo li raccontaua di Elpidia:
Così dicea Burgenzo, e Corsamonte,
Per la pietà de la sua cara donna,
Piangea, come se fosse una fontana
Copiosa d’acque, che con larga vena
Sparga i liquori suoi fuori d’un sasso.
Tancredi pur gran guerriero, et capitano, et benche sapesse, che Clorinda era in luogo di pace per opera sua, come ella medesima in sogno li disse, nondimeno piangeua, come dice il Tasso di lui:
Al fin sgorgando un lagrimoso riuo,
In un languido ohimè proruppe, e disse:
Et Rinaldo, come mostra il medesimo Autore nel Canto 17. piangeua;
E’l pianto amaro
Ne gli occhi al tuo nemico, hor che non miri?
Ma che diremo di Orlando, che piangeua, et lagrimaua tanto, come dice l’Ariosto nel Canto 23.
Di pianger mai, mai di gridar non resta,
Nè la notte, nè il dì si dà mai pace.
Et Orlando stupefatto del suo largo pianto, dice:
Queste non son più lagrime, che fuore
Stillo da gli occhi con sì larga vena,
Non suppliron le lagrime al dolore
Finir, che mezzo era il dolore à pena;
Dal foco spinto, hor hà il uitale humore
Fugge per quella uia, ch’a gli occhi mena.
Mi souiene etiandio di Vlisse, il quale essendo dalla Dea Calipso, piangeua come un fantolino, per amore, che non uedeua il padre, et la moglie, come dice Omero nel lib. 7. il quale tradotto in uolgare da Girolamo Bacelli, così suona:
Quiui io dolente per sette anni intieri
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Stetti, che sempre hauea bagnate, et molli
Di lagrime le uesti, che Calipso
Diuine m’hauea date, et immortali.
Tutti i poueri Poeti sono sempre lagrimosi, non accade, che si spremano ne gli occhi succhi di cipolla per lagrimare, che sempre piangono. Fu già non molto tempo in Padoa un gran Signore Francese nominato Enrico, il quale era tanto tenero al pianto, che nulla più, alcuna uolta si faceua leggere il Morgante, et quando sentiua la morte di Orlando, il cuore li si liquefaceua in lagrime, et tanto piangeua, che moueua alle lagrime ogn’altro, che fosse stato presente considerando la sciocca tenerezza di quel signore; ma quando udiua il venerdì Santo à predicare la passione di Christo hauea gli occhi asciuti, come un carbone di quercia; Sacripante doue resta? il quale piangeua tanto per Angelica, come dice l’Ariosto di lui, che gli occhi suoi pareuano doi fonti:
Sospirando piangea, tal che un ruscello
Parean le guancie, e’l petto Mongibello.
De gli huomini giuocatori. Cap. XXV.
FV ritrouato il giuoco da gli antichi, non solamente per ricreare gli animi da diuerse passioni trauagliati, ma etiandio per essercitar la mente, ò il corpo, per renderlo più robusto. Si essercita nel giuoco della palla da vento, nella lotta, et nell’armeggiare, et per allontanarsi da certi pensieri noiosi, alcuni giuocauano à scacchi, al sbaraglino, et à dadi, et ancora à carte; ma il tutto per ricreatione, et senza auidità di guadagno; ma non mi pare, che ne’ nostri tempi il fine del giuoco sia il diletto, ma il guadagno solamente, et una semplice cupidità di spogliar il compagno del proprio hauere. Onde Aristotile numerò i giuocatori fra gli auari, et il giuoco fra i dishonesti guadagni; et è peggiore il giuocatore del ladro; percioche egli ui mette l’honore, et la uita; ma il giuocatore cerca di guadagnar con gli amici al sicuro. O di quanti mali è cagione: restando molti per il giuoco nudi delle proprie facoltà, come dice Oratio. Quem damnosa venus, quem praeceps alea nadat. O quanti sono priui della uita per causa dì [di] questo; percioche gli scelerati giuocatori uinti dalla rabbia fanno, come dice Flauio Alberto, Lelio Ferrarese:
Quanti da stizza, e da dolor compunti,
D’hauer perduto il suo, col crudo ferro,
Hanno ammazzato i suoi più cari amici,
E toltogli i denar, etc.
Ma più diffusamente ne i uersi superiori dimostra, che il giuoco è cagione di tutti i mali, dicendo:
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Del giuoco adunque ragionare intendo,
Scelerato inuentor di tutti i mali,
Nato da l’otio, et d’auaritia humana,
Sol per furare altrui, la robba, e’l tempo,
Di cui tesor non u’e piu caro al mondo,
Onde è seguito sol da scioperati,
Da gente uana, e da color, che spesso,
Per non saper che far, la uita istessa
Hanno in fastidio: tal che dall’Accidia
Vinti, o giuocare, o dormir son costretti.
Con lui nacquer gl’inganni, e i tradimenti,
Le malitie, le insidie, et le rapine,
Le bestemmie, il dispreggio de li Santi,
La menzogna, il liuor, le risse, e l’odio.
Chi potria numerar gli errori enormi,
I scandali, i delitti, e l’opre triste,
Causate sol da questo empio tiranno?
E gli ha già a tal furor le cieche menti
De gli huomini condotto, che trouati
Si sono alcuni di pietà si priui,
Si crudeli a se stessi, che i capelli,
La barba, e i denti s’han fatto cauare,
Sol per giuocarli, nè qui s’è fermata
La rabbia lor; ma il proprio sangue han sparso,
Ne restandoli al fin, se non la uita,
L’han posta in seruitù, uenduti gli anni.
Da questo si può conoscere quanto nociuo, pessimo, et dannoso sia il giuoco, ma ueniamo a gli essempi. Gran giuocatore era Antonio, che talhora giuocaua giorno, et notte; onde contra lui parlando Cicerone, disse. O hominem nequam, qui non dubitaret, uel in foro alea ludere. Et Licinio fu condennato à restituire al perditore le cose uinte; come scriue l’istesso Cicerone. Fu un grande ingannatore nel giuoco Caligula; percioche confermaua, per uincere, la bugia col giurare; et si occupaua gran parte del tempo in quello. Ma che diremo di Claudio, il quale non solamente perdeua il tempo nel giuocare: ma nello scriuere anco del giuoco de i dadi, cosa indegna di un Prencipe, come dice Agostino da Sessa. Nerone consumaua tutto il tempo, che auanzaua alle altre sue dishonestà, in giuochi; perche molto li piaceuano. Domitiano etiandio spendeua una gran parte del giorno in questo. Galba faceua il simile, et anco peggio. Nerua, quando staua un giorno senza giuocare, li pareua essere morto. Che diremo noi di questi buoni giuocatori del nostro tempo? i quali spinti da l’auaritia, non pensano ad altro, sempre si uanno ingegnando, come potrebbono fare per ingannare il compagno, et si scor-
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danno fino il mangiare, et il beuere. Onde piu uolte si sono ueduti uecchi decrepiti, paralitici, con gli occhi scarpellini, che non haurebbono ueduto uno Elefante in uno campo di neue con dua para di occhiali al naso, mettere al punto, poiche non poteuano altrimenti giuocare. altri pur uecchi, et infermi; perche non possono muouere le mani, fanno, che alcuno altro giuochi per loro, et spesso bestemmiano, dicendo, se noi potessimo, assai meglio giuocaressimo. et qualche uno di loro dice, quando era giouane, in tutta la mia città non u’era alcuno altro per ualente giuocatore, che fosse, che giuocasse meglio di me: malediscono quelle infirmitadi, che hanno; perche non possono gettar i dadi, et maneggiar le carte, come faceuano per il tempo passato, et cosi uanno giuocando fino alla morte. Cabilone Lacedemonio essendo mandato ambasciatore a Corinto per far lega, trouò i principali, et i più uecchi di Corinto, che giuocauano à dadi, et se ne partì scandalizato, dicendo, che non uoleua macchiare la gloria de’ Spartani con questa infamia, cioè di hauer fatto lega con giuocatori; et ueramente chi dice giuocatore, tanto fa, che dica un’ingannatore, et un peggio che ladro, come dice Flauio Ferrarese, ragionando de’ giuocatori:
Non sappiam noi, che molti per giuocare
Hanno ardito con le scelesti mani,
Senza timore, o riuerenza alcuna,
Del grande Iddio rubbar le cose sacre,
Et profanar la santità de’ Tempii,
Quando poi, che giuocato hanno i danari,
Si son posti alla strada, masnadieri
Son diuenuti, assassinando altrui,
Infin che la giustitia in su le forche,
Gli ha poi mandati à dar de i calci al vento.
Et per dire il uero è tanto cattiuo, et scelerato, ch’io non credo, che alcuno per eloquente che fosse, bastasse à descriuere la minima parte della vituperosa arte del giuoco, degna solamente di huomini, che non sieno buoni da cosa alcuna. Dante fa mentione di quel barattiere nato in Nauarra, nel Canto 22. dello Inferno, il quale risponde à Vergilio, dicendo:
Io fù del Regno di Nauarra nato,
Poi fu famiglia del buon Re Tebaldo,
Quiui mi misi à far baratteria,
Di che rendo ragione in questo calde.
Et altroue dice di Gomita gran barattiere, tai parole:
Denar si tolse, et lasciolli di piano.
Si come è, dice, e ne gli altri uffici anche
Barattier fu non picciol, ma sourano.
Et l’Ariosto fa mentione de alcuni giuocatori, che Cloridano uccise, dicendo nel Canto 18.
E presso à Grillo un Greco, et un Tedesco,
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Spegne in doi colpi, Andropono, e Corrado,
Che de la notte hauean goduto al fresco,
Gran parte, hor con la tazza, hora co’l dado.
Horsù, io uoglio dar fine à questa mia fatica, scusandomi però con gli Istorici, i quali, son sicurissima, che mi biasimaranno, essendo io stata mancheuole, et pouera nella copia de gli essempi, ch’io haurei potuto addurre in biasmo de gli huomini, ma il poco tempo ne è stato cagione: Oltre à questo essendo io donna, la cui natura è benigna, cortese, et affabile, ho fuggito, et schiffato di scoprire i copiosi diffetti de gli huomini, cosa che non fanno gli scortesi maschi uerso le donne.
Il fine della presente opera.