Title: “Dialogo della vera Nobiltà.” Dialoghi
Author: Domenichi, Lodovico (1515–1564)
Date of publication: 1562
Edition transcribed: (Venice: Gabriel Giolito di Ferrari, 1562)
Source of edition: Google Books.https://books.google.ca/books?id=LiksAQAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=Domenichi+dialoghi&hl=en&sa=X&ved=0ahUKEwjD08P0lo3QAhXG6IMKHb2VATIQ6AEIHjAA#v=onepage&q=Domenichi%20dialoghi&f=false
Transcribed by: Tanya Ludovico, McGill University
Transcription conventions: Page numbers have been supplied by transcriber
Status: Completed, Not yet proofread, version 0, 2016
Produced as part of Equality and superiority in Renaissance and Early Modern pro-woman treatises, a project funded by the Social Sciences and Humanities Research Council of Canada.
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DELLA VERA NOBILTÀ
DIALOGO DI M. LODOVICO DOMENICHI.
INTERLOCUTORI.
IL VOLPE, E’L DOMENICHI.
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Voi pur havete, o Domenichi, finalmente quando è piacuto a Dio, sodisfatto al desiderio vostro, et alla aspettatione de gli amici; et siete qui venuto a rallegrarvi gli occhi et la mente nell’aspetto di questa et bella, et nobile, et commune patria a tutti gli huomini del mondo; di che mi rallegro io piu che molto et con voi stesso, et con l’animo mio. DO. Ci son venuto certo, et con mio gran contento; ma come si suol dire volgarmente, per fuoco. VOL. Dunque per quel ch’io odo, sete per fermarvici poco? DO. La invidia, et la malitia de gli huomini,
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et massimamente di quegli che ignobili sono, fu sempre, e in ogni luogo grandissima; talche non è gran maraviglia, s’ella perseguita anco me: il quale non debbo haver maggiori, ne piu larghi privilegi de gli altri che ci vivono. VOL. Non potrei io in virtù dell’amicitia nostra intendere piu oltra? DO. A voi non saprei, ne devrei io tenere ascosa alcuna cosa: ma di questo vi ragionerò piu diffusamente altrove: c’hora mi par tempo di metter mano a piu piacevoli ragionamenti, et degni della presenza vostra, della stagione, et del luogo. VOL. Et io per hora mi contento di quel che piace a voi, con conditione, che non mi manchiate della promessa. Ma ditemi vi prego che vi pare di Roma? come ha ella adempiuto quella grande openione, che di lei v’havevate concetta nell’animo per la lettione delle historie, et per la realtione de gli amici; iquali tante volte, et tanto ve l’havevano essaltata, et magnificata con parole? DO. Io non mi truovo parole convenienti ad esprimervi io concetto mio, ma voi, che sete huomo di raro et sano giudicio, meglio comprenderete quel ch’io v’harei voluto saper dire, che per le mie parole non fareste: et poi dubiterei, quando io ve ne dicessi il parer mio, di non essere stimato da voi troppo ardito: volendomene cosi tosto risolvere, che a fatica posso dire di esser giunto: Gia non dirò d’haverla vi-
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sta, che tutta via siamo in atto di vederla. Ben è vero, ch’io non mi so satiare della vista, et tutto sto pieno d’horrore et di maraviglia, mentre io guardo con gli archi la superbia de gli edifitii, et delle cose antiche, et contemplo con l’animo la nobiltà de gli animi Romani. De quali mi maraviglio meno, quando io penso, ch’essendo eglino Signori del Mondo, non fu gran maraviglia, che facessero di cosi fatte cose. Tuttavia le stupende macchine, che cosi spezzate, et tronche veggiamo; mi danno chiaro inditio, ch’essi nobilissimi et magnifici huomini fussero: perche gli animi plebei non aggiungono a si alti concetti. Ma non vi sia grave dirmi, quale ella vi è riuscita; havendola voi hoggimai goduta parecchi mesi. VOL. A voi parlerò d’altro modo, che gia non feci alcuni giorni sono a un grandissimo prelato: ilquale questa medesima domanda mi fece. A lui mi convenne parlare, come hoggidì s’usa in corte; a voi dirò come ad amico liberamente quel che m’è paruto. Io giudico, che Roma non sia piu quella ch’è gia stata. DO. Et anch’io non ne dubito; ma io aspettava, che voi mi parlaste piu chiaro. VOL. Ma io non v’harei saputo dir piu chiaro, salvo se non v’havessi detto: che Roma fu gia una gran cosa, et hora è un’ombra. DO. Volete voi forse dire, che Roma per non havere hoggi, come hebbe gia l’imperio del Mondo,
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non sia nulla? VOL. Questo non vi dico io, che s’ella fu gia padrona della terra’ hoggi è Signora della terra, et del cielo. DO. Et cosi s’ha da credere. VOL. Ma perche chiamate voi nobili costoro, ch’edificarono, et habitarono Roma? havete voi forse per nobili le persone ricche? et c’hanno il modo di spender molto? DO. Io stimo secondo l’openione de gli antichi Filosofi, et de i moderni anchora; che la nobiltà senza ricchezze sia nulla. VOL. Avvertite, Domenichi, che voi siete in errore; et cotesta è openione di vulga, non d’huomini singolari, si come voi siete. Anzi non so per quale sciagura, la maggior parte di costoro, che’l vulgo chiama nobili, sono caduti in tutte le dishonestà, et ribalderie. Chi fu mai piu crudele di Silla nato della famiglia Cornelia? chi piu lussurioso et incontinente di P. Clodio della famiglia Sergia? vi furono de gli altri mostri anchora, i quali posero tale infamia ne lor maggiori; che non quindi haver derivato la nobiltà, ma paiono piu tosto havervi trasferito il vituperio. DO. Non è dunque, per quel ch’io veggio, vera nobiltà quella che pruova Aristotele nel libro della Republica. Percioche egli dice, ch’a lui paiono nobili coloro, i cui maggiori fiorirono alcuna volta di virtù, et di ricchezze. VOL. Non è veramente, come voi credete. Perche la vera nobiltà non nasce
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altronde, che dalla virtù istessa: accioche non ne attribuiate alcuna parte alla facultà, et ricchezze. DO. Voi m’havete quasi che rincorato, poi che mi fate securo, ch’io possa abbracciando la virtù, senza ch’io sia ricco altramente, chiamarmi vero nobile: perche l’auttorità d’Aristotile mi spaventava molto, diffidandomi io di potere giamai acquistar ricchezze: lequali non gia disprezzo io, ma ben ho in odio, et fuggo quella estrema ansia et solecitudine, che vi si spende per molti in volerle acquistare. Et son bene ancho certo, che le ricchezze sieno proprio et vero ornamento della virtù: et che la virtù senza esse, manchi di splendore, et d’appoggio. Ma lasciando andar questo, io havrei molto caro intendere da voi, se vi piace, et se havete tempo di farlo, onde habbia originie la vera nobiltà. Percioche il luogo, dove siamo, n’invita molto a ragionare. Qui non è strepito ne romore alcuno: noi siamo fra le anticaglie, et fra le solitudini di Roma: lequali poi ch’io ho si breve spatio di tempo di fermarmi, desiderio molto di vedere piu tosto che si possa, et alla sfuggita. Et poi c’hoggi non si va in capella, ne a palazzo, et sete, come si suol dire, feriato, non vi dovrà rincrescere ragionr meco alquanto, già che sono tanti anni, che non habbiamo piu parlato insieme. VOL. M’è dunque care faro quel che voi volete
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et certo m’ingegnerò, quanto mi sia possibile, di esser breve. Perche l’hora, ch’è hoggimai tarda, e’l Sole che incomincia a cuocere, non che a riscaldare, ma ne fanno accorto. Ma prima ch’io cominci a parlare, desidero intendere da voi quel che della nobiltà havete da gli altri imparato: e accioche non vi crediate di dover questo fare con continuo ragionamento, io vi fermerò dove sarà bisogno: et ciò potrete fare anchora voi, se vorrete, quando io ragionerò. DO. Certo questo mi piace, accioche non lasciamo passare alcuna cosa di quelle ch’appartengono anchora al modo del dialogo. Io ho sempre creduto, che quella sia vera nobiltà; laquale alcuno h i tratto dalla origine illustre de suoi maggiori, ricevendola quasi dono hereditario da loro. Io dico da coloro, i quali con la disciplina, costumi, et virtù havevano acquistato i principali honori e i grandissimi magistrati nelle città loro. Percioche molto importo la generatione alla nobiltà: ilche veggiamo anchora considerarsi in alcuni animali, si come sono cavalli, cani, et buoi. Perche essendo noi per comprare di queste bestie tali, prima domandiamo, et cerchiamo d’intendere la nobiltà della razza: benche nell’huomo sia un’altra, et molto piu differente ragione. Percio che oltra gli ingegni, i quali derivano quasi i medesimi in noi da padri nostri, per l’educatione, et per la domesti-
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ca famigliarità c’habbiamo con esso loro; siamo grandemente incitati dalle parole, et da’ fatti ad abbracciar la gloria: laquale è grandissimo testimonio della nobiltà. Conciosia cosa che altro fu se non la gloria, e un certo genio de’ parenti loro, ilquale infiammò i Camilli, i Fabii, gli Emilii, i Catoni, et gli Scipioni a fare tante prodezze per la Republica loro? Questi antichi Romani volsero che le statue de’ maggiori fussero poste nelle piazze, et dinanzi a’ tempii, con titoli intagliati nella base delle cose da loro valorosamente fatte: accioche la gioventù quando le vedeva, et leggeva infiammata dal desiderio della gloria, non rifiutasse fatica ne pericolo alcuno per la salute, et dignità della patria. Muovono veramente gli huomini i simulachri, si come voi vedete, muovono i trionfi; et le memorie de gli antichi: ma non è cosa alcuna, che piu risvegli coloro i quali dormono, che’l desiderio della gloria, ilquale non senza cagione è derivato da maggiori in quei che vengono dopo loro. Certamente che voi potete anchora vedere per molti essempi, che voi potete anchora vedere per molti essempi, che i padri bene ammaestrati, et prudenti niente altro pensano, ne s’ingegnano di fare, se non di lasciare alla patria i figliuoli simili a loro; della cui opera questa madre commune si possa poi servire a ogni suo piacere in casa, et fuori. Che di letto crediamo noi che sentano coloro, che son morti,
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se resta loro sentimento alcuno, di quelle cose che i loro figliuoli et valorosamente et saviamente fanno? Grandissimo veramente: poi che essi gran parte dell’esser loro veggono passata ne figliuoli. Di qui viene quello infinito amore de’ padri verso i figliuoli, quella solecitudine di nutrirgli, quello ardore d’infiammargli ad abbracciar la lode, affine di participare anch’essi poi di tanta gloria. Percioch’essi si reputano di dover vivere lungo tempo nella vita de’ figliuoli, et nipoti, quando gli lasciano bene ammaestrati, e in grandissimo honore per le cose da loro valorosamente fatte. Desiderava questo M. Catone dal figliuolo; Cicerone il medesimo: percioch’essi dicevano, che per ragione hereditaria doveva pervenire a loro gran parte della gloria sua, per richiamargli da’ dishonesti desiderii, a’ quali i giovani sono per natura et vitio dell’età inchinati alla virtù, con la commemoratione delle lodi loro. Egli si pare dunque, che la nobiltà venga dalla successione; percioche quando noi habbiamo ricordato i valorosi fatti de’ nostri maggiori, meritamente riputiamo che non ci possa essere negata cosa alcuna. Giovò grandemente a molti appresso i Romani la nobiltà nel domandare i magistrati; quando essi dicevano; date questo al padre, e alla famiglia, c’ha cosi bene, et utilmente servito la Republica. E il vulgo non chiama nobili se non coloro, i quali so-
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-no nati di padri honorati. Percioche i Romani chiamavano dell’ordine Senatorio quegli ch’erano nati di Senatori. Et oltra questo, accioche non crediato, ch’io segua solamente il vulgo; et coloro che sono studiosi delle lettere, chiamano i veri nobili generosi; percioche in essi si truova abondanza di nobiltà. V sa ancho spesse volte Platone questo nome ne dialoghi suoi, mentre egli ashorta gli amici alla laude. O generoso, dice egli, cosi si dee fare, richiamando la nobiltà dell’animo dalla generatione, et della famiglia. Ma accioche questa nobiltà non paia imperfetta, alcuni v’aggiungono la facultà et le ricchezze, con lequali parte si conserva lo splendore, et la reputatione della casa, et parte si mantengono gli amici, della cui gratia, et frequentia ha bisogno la noblità. Per questo chiamarono gli antichi i clienti quasi patronū colentes. Di qui venne quella salvatione, che si faceva la mattina alle case de’ grandi, et nobili; et la magnificenza de’ padroni in quei doni, che si chiamavano sportula et congiario, verso i clienti: il che non possono fare coloro, che mancano de’ beni della ventura. Percioche gran parte di nobiltà è la beneficentia, o il beneficare altrui, laquale non puo usare verso gli altri chi non ha da poter largamente supplore a’ bisogni di casa. E’ necessario dunque, ch’abondi de’ beni della fortuna colui che vorremo chiamar
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liberale. Perche, come dice Aristotile, impossibile è che chi non ha ricchezze, faccia mai cosa honorata. Percioche tutto lo splendore della nobiltà le piu volte è oscurato col nome solo della povertà: atteso che spesso non puo esser liberale verso coloro, con la frequentia de’quali si mantiene in riputatione. Certamente è vero quel che dice il Satirico.
Haud facile emergunt quorum virtutibus obstat
Res angusta domi; sed Roma durior illis
Conatus.
Difficilmente riescono color, alle virtù de’quali le poche facultà di casa impedimento fanno; ma molto piu duro sforzo hanno essi in Roma. Ci sono stati de gli huomini dottissimi disprezzati, et abietti per la povertà loro, iquali miseramente hanno menato la vita; si come habbiamo detto di Plauto, et di Lattantio: l’uno de’ quali, secondo che scrive San Girolamo, fu cosi povero, che non pure mancò delle delitie, ma spesse volte hebbe bisogno delle cose necessarie: l’altro per la difficultà del vivere, et per la povertà della sustanza famigliare, quando egli non studiava, quel tempo che gli avanzava, menava le macine nel mulino per guadagnarsi il pane. Le ricchezze dunque s’hanno da desiderare per isplendore della nobiltà, accioche non siamo distornati dalle nostre imprese per disagio di tutte le cose. Come
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havrebbe potuto giamai il Popolo Romano sottomettere tutto il mondo al suo Imperio, se non havesse havuto denari; i quali sono chiamati i nervi della guerra? Quando Demosthene orava in publico contra Filippo, disse; noi habbiamo bisogno di denari a condurre questa impresa. Per questa cagione io non mi posso in alcun modo addurre a far poco conto di questo appoggio, et aiuto della nobiltà. Sono in grandissimo honore alcune famiglie illustri di questa città, et dell’Italia per l’antichità del sangue, et per le ricchezze, parte lasciate loro per hereditaria successione da’ maggiori, et parte con l’industria et con l’armi acquistate. Da questa openione non si diparte punto quel Divino Platone, ilquale da Cicerone meritamente è chiamato l’Homero de’ Filosofi. Percioche havendo egli diviso in quattro parti la vera nobiltà, disse, che la prima era di coloro, i quali sono nati da buoni, giusti, et honorati parenti: la seconda di quegli, i cui parenti sono stati principi: la terza, quando i nostri maggiori sono stati in pregio per la fama delle prodezze loro fate in guerra: la quarta di coloro, i quali sono eccellenti in qualche honorata dottrina. In questa divisione si possono annoverare molte famiglie illustri d’Italia, lequali si debbono chiamare veramente nobili: si come sono i Signori Orsini, et Colonnesi di questa città, i
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Gonzaghi di Mantova, gli Estensi di Ferrara, i Palavicini, i Visconti, gli Sforzeschi, i Trivultii, et molti altri di Lombardia. Perche se noi consideriamo diligentemente il principio, la vita, i costumi, la dignità, la gloria, et l’ingegno di queste famiglie, confesseremo certamente, ch’elle meritano di esser chiamate nobili: ne vi sarete beffe di me, perche io habbia detto; che le ricchezze diano l’entrata alla nobiltà vera. Perche io non so vedere, come questo nobile, che voi dite, possa essere magnifico, liberale, ne cortese verso alcuno, se le facultà gli mancano. Conciosia cosa ch’essendo ufficio proprio del magnifico lo edificare sontuosi palagi, tempii, loggie, castella; et essercitandosi la liberalità circa il distribuire i denari; io per me non so vedere, come ciò possa fare colui, che chiamiamo liberale, s’egli non ha cosa alcuna da donare? Anzi s’egli piu tosto ha d’aspettare la cortesia, et liberalità altrui verso se stesso? A mio giudicio dunque reputo, che si debbano chiamar nobili coloro, i quali sono stimati per antichità di sangue, et per ricchezze bene acquistate, et lasciategli da lor maggiori. Et tale d’intorno a ciò è l’openion mia, se voi non m’arrecate alcuna cosa all’incontro. VOL. Prima ch’io cominci a parlare di questa materia, mutiam di gratia luogo; et leviamci da questo Sole, c;hoggi mai cuoce: sia bene ritirarci all’om-
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-bra di quello acquedotto sprezzato. DO. A che fine gli antichi Romani introdussero queste acque mella città con tanta spesa? VOL. Per potere innaffiar gli horti, per le stuffe, per i tintori de’panni, et per valersene a purgar l’altre immonditie. Questa acqua si levava fin di sopra Tivoli, fuor della porta Carrana venti miglia. Ma quei che vennero poi, mutata openione; per haver l’acqua piu chiara, lasciato il fiume, ne menarono una migliore dalla villa di Nerone. DO. O animi Romani veramente nobili, et meritamente Signori del Mondo. VOL. Voi amate troppo l’antichità, per quel ch’io posso vedere. DO. Anzi non è cosa, ch’io piu ammiri, ne piu lodi. VOL. Ceto che voi bene havete giusta cagione di amare, et lodar Roma; perche ella non hebbe mai pari ne seconda. Ma io ritorno a quelle forme, la cui grandezza non è anchora consumata dalla vecchiezza. Per l’una delle quali giudico io, che venga a Roma l’acqua Martia per la via Valeria; et per l’altra la Claudia dirivata da due abondantissimi fonti, iquali per una medesima via sorgono nella villa di Nerone. Ma quale fusse la Martia, et quale la Claudia, hoggi non si sa certo; essendo massimamente consumate le inscrittioni, et disfatte le memorie di cose tante grandi. Io chi ho gia posto gran cura per sapere la certezza di queste cose, et non
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ho mai potuto ritrovarla. Anzi da cosi estrema diligenza n’ho ritratto grandissimo dispiacere veggendo per ogni luogo quelle maravigliose opere ruinate, et disfatte. DO. Et perche chiamate voi acqua Martia, et Claudia? VOL. Da coloro c’hanno condotto l’acque con spesa publica et privata, come si chiama anchora l’Appia, et la Giuia: e’l medesimo s’è fatto da quei che lastricarono le vie; dalle quali cose infinite famiglie n’hanno acquistato gran nome. DO. Si che per quanto io posso vedere, a poco a poco voi confesserete, che la nobiltà derivi dall’antichità del sangue et dalle ricchezze grandi. VOL. A questo modo voi chiamarete dunque nobile Gaio Caligula, ilquale fece un ponte sopra il seno di Pozzuolo. Nobile sarà Claudio, ilquale con grande spesa aprì il Fucino et fabricò il porto Romano. Nobile diremo Nerone, ilquale mentre che edificava la casa aurea, le therme, e i theatri e’l porto de gli Antiati consumò le ricchezze del popolo Romano. Nobile anchora Herode, ilquale imitando in questa cosa la magnificentia de’ Romani, con mirabile spesa edificò in Soria porti, città, theatri, et acquedotti. Ma quale fera fu piu crudele giamai di questi horribili mostri? Percioche costoro non hebbero in loro alcuna cosa, perlaquale e’ potessero chiamarsi huomini, non che nobili. DO. Di gratia fermatevi, et fatemi
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intendere, chi sono questo, che voi chiamate nobili. VOL. La nobiltà, come voglion gli Stoici, è un certo splendore, ilquale non viene altronde che dalla virtù; per laquale distinguiamo il buono dal cattivo; e’l degno dall’indegno. Se gli animi nostri ripieni di buone arti et discipline imparassero a servare in tutte le cose la giustitia, la pietà, la constantia, et la prudentia, in che modo si farà egli giamai, che sia chiamato nobile colui, che senza alcuna dottrina, et eruditione, si sarà dato in preda alla intemperantia, alla ingiustitia, alla impietà, et alla malitia? Anzi piu tosto devremo noi chiamar costui non pure ignobile, ma gaglioffo, scelerato, et tristo. Il medesimo anchora pare che senta. Q. Cicerone, percioche scrivendo a Marco suo fratello della domanda del Consolato, facendo mentione d’Antonio, et di Catilina, disse; Costoro non sono tanto illustri di sangue, quanto nobili di vitii. Perche l’ufficio della nobiltà è seguitar l’honesto, rallegrarsi di far benificio altrui; commandare a’ desiderii et rassenare l’avaritia. Chi fa questo, anchora che nato sia dalla piu infima conditione de gli huomini; nobile meritamente si puo chiamare, et dire. Ne perciò debbiamo riprendere la natura madre di tutte le cose, si come fanno alcuni huomini malvagi; perche ella faccia questo nobili, et quegli ignobili. Percioche ella
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a tutti gli huomini presta temperamento eguale; et non riguarda ne sangue, ne potentia, ne ricchezze. Perche inquanto appartiene all’animo, uno è il medesimo modo di nascere ne’ figliuoli de gli huomini privati, che ne’ nati de’ Re et de’ Prinicpi; benche questi nell’oro, et nelle case grandi, et quegli nascano nelle schiavine, et nelle cappanne. Veramente le virtù, e i vitii fanno che l’uno sia piu nobile dell’altro. Seneca Filosofo illustre della setta de gli Stoici, scrivendo a Lucillo disse; Non fu Socrate patritio, ne cavalier Romano: et la filosofia non lo ricevette, ma lo rese nobile. Et costui, che dall’oracolo d’Apolline fu giudicato il piu dotto, e’l piu savio huomo, che fusse mai hebe la madre lavatrice e’l padre scarpellino; per ridurre poi molti huomini alla nobiltà con la dottrina sua. Servio Tullo anchora nato et allevato in servitù, havendosi acquistato il regno con la sua virtù, trionfo tre volte de’ nimici; et accrebbe talmente la città di Roma: che fu giudicato non gli mancare alcuna cosa per arrivare alla nobiltà suprema. Il medesimo si puo dire di Tullo Hostilo, il quale nato in una humil capanna, prima pastore, fu poi meritamente creato Re de’ Romani. Furono costoro, o Domenichi, nobili, se ben vogliamo considerare il vero: et non coloro, che per virtù et meriti de’ maggiori, collocarono la nobiltà nella dapocaggine.
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Percioche questi tali pongono nella suprema nobiltà il non far nulla nelle vesti d’oro, et di seta, portare sproni dorati, le dita piene d’anella, et l’andare carico di profumi, tutte queste cose sono veramente tanto contrarie alla nobiltà, come è il vitio alla virtù, et la infingardaggine alla diligentia: vedete di gratia quanto io son differente da gli altri. Io son’usato farmi beffe, et meritamente certo di coloro, i quali o con preghi, o con ambitione, o con doni, si comprano, o la cavalleria, o le insegne di qualche dottrina, affine di poter senza pena portare attorno gli argomenti della loro ignorantia. Concedansi queste dignità a chi l’ha meritate, come gia si soleva fare appresso i Romani. Percioche a’ cavalieri per le prodezze loro fatte in guerra si solevan donare fibbie, et altri ornamenti d’oro pegni della virtù, non testimoni della viltà loro. Concedasi anchora a’ tempi nostri, che coloro, i quali ne gli studi publici sono riusciti eccellenti in qualche dottrina, possono portare le cintole, et gli sproni dorati; accioche siano conosciuti differenti da gli altri. Et se nondimeno si troverà alcuno, ilquale oltra di questo per alcuna altra ragione faccia professione d’esser nobile; rendasi certo costui, ch’egli non porta la sua propria, ma l’altrui persona. Il volersi ancho gloriare per le prodezze fatte da gli antichi suoi, il mostrare le sale di-
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-stinte d’armi, le loggie ornate di ritratti, et di quadri, e i superbi palazzi ha veramente in se piu maraviglia, che nobiltà. Et queste cose a noi non rilevano nulla, se non ci sforziamo d’imitare la virtù di coloro; l’imagini de’ quali con magnificentia di parole lodiamo: anzi piu tosto, se drittamente considerar vogliamo, quella virtù porta vituperio et vergogna a questa dapoccagine. Però facendosi beffe di questa tal nobiltà quel Diogene Cinico, ilquale disprezzava ogni cosa, disse; ch’ella era una coperta di viltà, et di malitia. Non meritò quel M. Catone, ilquale meritamente fu chiamato Censorino, d’esser tenuto in pregio per antichità di sangue, ne per ricchezze; percioche egli nacque a Thusculo di parentado oscuro, et con pochissime facultà: ma per le sue singulari et supreme virtù. Il medesimo anchora si puo dire di Gaio Mario, ilquale a me parrebbe, che fusse stato eccellentissimo sopra tutti gli altri huomini, se alla fine per l’ingordigia del signoreggiare non havesse cambiato la vera gloria alla crudeltà, et alla tirannia. Bisogna adunque, o che la nobiltà non si trovi in luogo alcuno, o che coloro siano veramente nobili, i quali in ogni vita sono eccellenti per ingegno, dottrina, industria, grandezza d’animo, fortezza, et prudentia. Et con questa ragione facilmente si puo comprendere, che la nobiltà nasca
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dalla virtù, perche coloro i quali nati da honorati maggiori hanno tralignato per li vitii, sono reputati vituperosi infami: come il figliuolo del maggiore Africano; ilquale vituperosamente preso da Antiocho nella guerra Asiatica, impetrò la vita con preghi dal nimico contra il costume Romano; dal qual nimico poco da poi L. Scipione suo zio era menare quel glorioso trionfo. Ancho il figliuolo di Q. Fabio Allobroge, degenerando dal padre, cosi libidinosamente, et dishonestamente visse; ch’alcuno non vi fu, c’havesse per male di vederlo diredato da Q. Pompeo pretore. Ne giovò punto la grandezza, et la riputatione del padre, alla viltà et infamia del figliuolo. Voi sapete ancho, che il nipote di Q. Hortensio clarissimo oratore cadde in tanto vituperio, che mentre scorse per le taverne, et per li chiassi, estinse quasi in tutto lo splendore della casa. Chi sarà dunque colui tanto ignorante delle cose del mondo, che voglia chiamar nobili questi tali? La cui vita quanto fu piu dishonesta, tanto piu tosto estinse la nobiltà de’ suoi. Vero è, che costoro sogliono raccontare i fatti, et le prodezze de gli antichi loro, ma vero è quel che dice Ovidio.
Ma il nobil sangue, et gli avoli, et le cose,
che fatte non habbiam, non chiamo nostre.
Ma queste cose veramente son nostre, per non di-
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-re le bugie, se noi gli haveremo imitato; quanto che non, noi non habbiamo piu ragione in esse di quel che s’hanno coloro c’habitano Calicutte, o’l Perù. Anzi di piu vi voglio dire; che s’alcun sentimento rimane appresso i morti; et s’eglino sanno quel che qua giù si faccia, dolgonosi, et certo grandemente, d’haver lasciato dopo loro cosi fatti figliuoli: i quali pare che sian degni di tanto maggior biasimo, quanto hebbero maggior numero de gli antichi loro, le cui virtù dovevano, et potevano imitare. Che se alcuni di quei, che sono morti, potessero ritornare di nuovo in vita, certo che quel medesimo gastigo darebbono a gli infami loro figliuoli, che gia diede Bruto quel che primo difensore della libertà; ilquale fece scoppare, et tagliare il capo a’ suoi figliuoli partecipi della congiura. E imiterebbono la severità di Cassio, ilquale fece amazzare il figliuolo; che aspirava all’Imperio del popolo Romano. Et similmente il rigor di Torquato, ilquale quando D. Sillano suo figliuolo era accusato da’ Macedoni dello havergli rubati; esso fulo tolse a voler terminare quel giudicio, concedendogli ciò il Senato. Et poi che considerata diligentemente la cosa hebbe conosciuto il delitto del figliuolo, lo sententiò di questo modo. Essendo cosa chiara, che mio figliuolo Sillano ha rubbato a torto questi tali denari; meritamente lo giu-
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-dicò indegno della casa paterna; dell’ufficio della Republica, et della compagnia di tutti i cittadini. Partendosi dunque il figliuolo dalla presenza del padre, mosso da disperatione subito s’impiccò per la gola; al cui mortorio come d’indegno figliuolo il padre non volle intervenire. Veramente non possono gli ottimi padri amare gli scelerati figliuoli: anzi questi antichi Romani degni d’Imperio, et di gloria, diredarono alcuna volta i figliuoli per le dishonestà et sceleraggini loro, et tolsero alcuni per adottione nelle famiglie, i quali erano honorati et virtuosi: accioche il nome del parentado per la viltà de’ figliuoli non andasse in ruin(?) [missing word] Socrate pregato dalla moglie, che per rispetto de’ figliuoli volesse stare in vita; rispose, che ciò non voleva fare egli a verun modo. Soggiunse ella allhora; et a chi raccomandi tu i tuoi figliuoli? Disse egli, non havranno bisogno d’alcuna raccomandatione. Se ancho altrimenti saranno, non voglio, che sien chiamati figliuoli di Socrate: perche non lo meritano. Ora quanta moderatione Antonio usasse, ilquale dicono gli scrittori, ch’è piu agevole ammirare, che lodare; mentre egli raccomandava il figliuolo al Senato; le sue parole chiaramente lo mostrano: io vi raccomando, disse egli il mio figliuolo, se gli sarà degno de gli Dei immortali. Certo in questo
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usò egli modestia grande, accioche se pure accadeva diversamente da quello, ch’egli haverebbe voluto, la gloria del principato suo per alcun vitio del figliuolo non venisse a imbrattarsi. Veramente io non so vedere quel che si vogliono dire costoro, iquali s’usurpano la nobiltà de’ loro amggiori. Percioche si come lo splendore non comparisce in alcun luogo nella parte oscura dello specchio; cosi ne ancho la gloria de gli antichi puo rilucere ne’ moderni scelerati. Onde Giuvenale scrivendo a Pontico, dice in questo modo.
Che fanno l’armi, o Pontico, che giova
Esser d’antico, et gentil sangue nato;
Et mostrar de’ maggior dipinti i volti,
E’ Fabi sopra i carri trionfali?
Et che rileva far vedere i torsi
De’ Curii, o di Corvino il picciol naso,
Et Galba senza naso, et senza orecchi?
Che prò vantare i frutti del suo sangue
Dentro gran quadri al natural ritratti?
I capitani, e i dittatori illustri,
Se male innanzi a’ Lepidi si vive?
A che tanti guerrier sculti, et dipinti,
Se si passa la notte, e’l di co’l gioco?
Se dormir tu cominci innanzi a l’alba,
Ne l’hora apuno, che maricare in schiera
I capitan facean l’armate genti?
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Perche de gli Allobrogi, et d’altri vani
Titoli gloriar Fabio si deve,
S’ed egli è ladro, dishonesto, avaro,
Et piu lascivo, che capretto, o agnello;
Se si fa scorticar tutte le membra,
Et se si liscia, come vil bagascia?
Perche vorrà far mostra de’ suoi vecchi
Squall di et rozi; s’a’ veleni, et peggio
Badando, infama la sua nobil casa?
Meritamente dunque dopo tante ribalderie l’istesso Poeta soggiunge;
Benche i ritratti, et le pitture antiche
Superbamente Ornati et loggie, et sale,
La virtù sola nobiltà si chiama.
Sia tu pur Paolo, o Cosso ne’ costumi,
O Druso, allhor potrai le imagin porre
Dinanzi a queste de gli antichi tuoi;
Precedano essi a te consolo in grado.
Pria de l’animo i beni haver convienti,
Et volendo parere, ancho esser santo,
E’n fatti, e’n detti osservator del giusto.
V’aggiunge poi senza fermarsi;
Hor si, che questo puo chiamarsi illustre:
accioche ogniuno conoscesse, come la nobiltà è posta nella virtù sola. Indarno adunque faticano coloro, i quali lasciata da parte la virtù, dirivano la nobiltà, come dono hereditario da’ loro maggiori. Chi chiamerà generoso colui, ilquale è
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indegno della famiglia sua: et solamente illustro per l’honorato nome? Percioche la nobiltà compagna, et seguace della virtù, acquistata non con l’altrui, ma con la propria fatica; per alcun modo non puo stare insieme co’ vitii. Onde si vede, ch’è vero quel detto di Seneca Poeta tragico;
Qui genus iactat suum, aliena laudat.
Noi ci possiamo bene gloriare d’haver ricevuto da honorati maggiori il sangue, le membra, et la vita; ma non gia la nobiltà: laquale tutta da gli animi nostri pende, et non diriva altronde: per non seguire il vulgo ignorante, ilquale cade spessissime volte in grandissimi errori; et la cui openione rade volte è d’accordo con la sapientia. DO. Per quanto io posso vedere, io sono sforzato a mutarmi d’openione. Ma mi pare nondimeno troppo strano il credere, che la nobiltà possa stare in compagnia della povertà. VOL. Essendo le ricchezze beni di ventura, voi non gli havete da congiugnere con la nobiltà, laquale è tutta fondata nella virtù. Benche io non so vedere quel che voi vi trovate nella povertà, perche cosi la rifiutate. Io non parlo della meschinità, o vogliate dir miseria; laquale è vergognosa: essendo altrui sforzato a domandare il pane a gli usci. La legge della natura è non haver fama, ne sete, ne freddo; ma potersi cacciare la fame, et la sete. Se voi abbraccierete la povertà, non vi bisognerà
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corteggiare le case de’ grandi; ne ancho sopportare un mal viso, ne una humanità piena di villanie. Honesta cosa è veramente la povertà allegra: et s’ella non è allegra, non si puo chiamar povertà. Percioche colui ch’è d’accordo con la povertà, è ricco: perche non colui che ha poco, ma chi desidera meno, è da essere chimato ricco. Et se voi viverete secondo la natura, voi non sarete mai povero; et secondo l’openione, mai non sarete ricco. Poca cosa è quello che la natura desidera; ma bene è grande quel che ricerca l’openione. Il medesimo Seneca ci conforta a fare la povertà famigliare, quando dice;
securius divites erimus, si scriverimus quam non sit grave pauperes esse.
Anzi non è alcuno, che sia piu degno dell’altro, se non chi sprezza le ricchezze; accioche quando le ha, animosamente le possa compartite la dove vede il bisogno maggiore. Percioche noi non chi nasciamo ricchi: et venendo alla luce di questo mondo dovremmo contentarci del mangiare, et del bere. La natura ci ingenerò senza desiderii, senza paura, senza sospetto, et senza l’altre pesti, che tutto dì ci tormentano. Ma noi riempiendoci d’una falsa credenza, riputiamo la povertà grandissimo male: il che non istimarono quegli antichi Romani, iquali non minor laude s’acquistarono della povertà, che dell’Imperio, et
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delle lor prodezze. Non haveva da poter sotterrarsi quen Menenio Agrippa mediator della pace fra il Senato e’l popolo Romano, se secondo il costume de gli antichi non si fusse fatto il mortorio de’ denari accattati. Fu similmente sepolto de’ denari del publico Valerio Publicola, ilquale fu tre volte Consolo, per la povertà sua: percioche venendo a morte altro non gli era rimaso, che la gloria. Cincinato anch’egli, chiamato dall’aratro alla dittatura, acquistò maggior gloria dalla povertà sua, che d’haver vinto i nimici del popolo Romano: contento di sette campi di terra, i quali egli soleva lavorare di sua mano, quando lasciava l’ufficio. Non accade, ch’io dica, quanto fusse gloriosa la povertà d’Attilio Serano; perche da tutti gli historici è celebrato il nome di questo chiarissimo huomo. Percioche havendosi egli guadagnato questo sopranome di Serano da Serendo trovandosi in Africa domandò, che gli fusse mandato lo scambio, accioche alcuni pochi campi d’un suo podere non andassero a male, morto il lavoratore, la cui industria soleva pascere la moglie, e i figliuoli. Onde il Senato accioche egli non lasciasse la guerra incominciata, fece che il poder suo fusse lavorato; et ordinò, ch’alla moglie e a’ figliuoli fussero datte le spese del publico. Chiameremo noi dunque miseri, et ignobili questi singolarissimi huomini, la cui vir-
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-tù fu di tanto splendore, che rilusse fin nella povertà? Domandò Gaio Scipione anchora essendo in Hispagna, che gli fusse dato uno scambio: perche con la sua industria era per maritare la figliuola. E’l Senato per non privarsi di tanto capitano, dotò riccamente, et maritò nobilmente la figliuola. Glorioso Senato, che provide a’ bisogni del suo cittadino; ma molto piu glorioso Scipione: ilquale dalla povertà sua s’acquistò tanto nome, quanto innanzi di lui non hebbe mai alcuno altro per le ricchezze. Fu gia la Republica Romana in grandissimo pregio appresso tutti i popoli et nationi straniere, mentre che i cittadini Romani si gloriavano d’esser poveri; perche quei vecchi, che feccero le leggi de repetundis, et de peculatu, volevano che le ricchezze fussero publiche, et non private. Ma poi che cambiatasi questa openione incominciarono a rubbare in publico, et in privato, fuggendo la gloriosa povertà; piu non si vide in loro ne religione, ne pietà, ne modestia alcuna: di tal maniera l’avaritia, et l’ingordigia dell’haver gli trasse fuor di strada. Di qui nacquero poi in tanta città le rivolte, nacquero le guerre civili, quando le ricchezze di tutto’l mondo ragunate in una città sola erano proposte in premio a vincitori. Certo ne furono proscritti molti piu nel triumuirato per la facultà, et per le ricchezze, che per le partialità, et per le fattioni.
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Percioche quei che la natura, et la ragione ritraheva di tanta calamità, quei medesimi per le ricchezze loro erano poi messi in pericolo. In ogni luogo è secura la povertà, et non teme ne ladri, ne maestri di veleni. Et se alcuni sono da essere chiamati veramente nobili, questi certo sara uno i poveri; i quali sprezzati i beni della fortuna agevolissimamente e vincono tutti i desiderii. Ne per questo, Domenichi, vi dovere dare a credere, che’l povero non possa usare liberalità alcuna; benche egli manchi delle ricchezze, dalle quali nasce la beneficentia. Percioche mirabile liberalità usavano quegli huomini chiarissimi, de’ quali poco dianzi ho fatto mentione; mentre che difendevano la patria, mentre che amplificavano l’Imperio, mentre che puramente et santamente esercitavano gli uffici della Republica. In quattro modi, secondo Platone, possiamo noi usare l’ufficio della benignità, o come vi piace chiamarla, cortesia: co’ denari, con l’opera, con le discipline, et con le parole aiutando coloro che sono oppressi in giudicio: laqual cosa è grandissima specie di liberalità. Perche quella cortesia laquale s’esercita co’ denari, et con le ricchezze, puo ben talhora venire meno: percioche quanto i denari scemano donando, tanto si leva dell’ardore di ben fare. Ma colui che nell’attioni publiche, et private si sforza di giovare con l’opera, con consi-
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-glio, et con l’ufficio; tanto piu si fa liberale ogni giorno, quanto piu con la sua liberalità fa benificio a molti; senza che se gli scemi punto, in questa cosa specialmente, la possanza di ben fare. Ma quanto giovamento facessero ne’ giudicii gli oratori et gli avvocati a coloro ch’erano oppressi dalla potentia, et malitia de gli avversarii, testimonio ne fanno l’orationi di Cicerone, d’Hortensio, et di Demosthene; i quali spesse volte cavarono i poveri di bocca a’ grandi. Puossi oltra di questo acquistar gran nome di cortesia con la dottrina, et con l’eruditione: percioche ella fa sempre residenza ne gli animi nostri; et tuttavia ci accompagna fino allo estremo spirito della vita. Trasmutansi facilissimamente, et si perdono i denari; mutansi gli honori, et le dignità secondo l’arbitrio de’ grandi. Caggiono i consigli per poltroneria, et talhora per dapocaggine. Fassi poca stima delle orationi: ma la sapientia sola è stabile, et ferma. Percioche la sapientia, secondo che dice Aristotile, è di quelle cose, le quali sempre, et in ogni luogo stanno a un medesimo modo. Perche la vera virtù, et la vera noblità non debbe esser suggetta a caso alcuno; onde si fa poi l’animo libero et gentile, non inclinato mai a sceleraggine, ne a vituperio alucno. Bisogna dunque, che colui che parla della nobiltà, s’intenda ragionare della virtù; di ma-
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-niera sono queste due cose insieme congiunte. DO. Non biasima però Platone, per quel ch’io posso vedere, quella parte di cortesia; laquale consiste intorno il distribuire i denari. Et denari intendo secondo il costume de gli antichi, la cui stimatione si misura con le monete. VOL. Non la biasima egli, si come voi dite; quando è dice: che non v’è cosa alcuna piu accommodata alla natura de gli huomini. Ma bisogna considerare diligentemente, in che modo noi l’usiamo; conciosia cosa che non ci conviene esser liberale verso ogniuno, ne per ogni leggier cosa, ma con coloro che l’hanno meritato, et per alcuna singolar virtù. Et che questo vuol la giustitia nel compartire le cose, et che cosi richiede il dovere. Oltra di ciò ci commanda, che usiamo quella liberalità, la quale giovi a coloro che ci hanno fatto benificio, et non nuoca a nessuno. Per laqual cosa le donagioni d’alcuni Tiranni, come gia furono L. Silla, Gaio Mario, Cinna, Lepido, et M. Antonio, togliendo a’ veri padroni, et dando a gli scelerati huomini, et ribaldissimi servi, non si debbono chiamar liberali: percioche elle si levano onde non bisogna; et si danno a persone, allequali per la loro scelerata et manigolda vita si devrebbe negar l’aere, non che il vivere. Ci avisa anchora M. Tullio, che non dobbiamo usare maggior cortesa di quella, che le facultà nostre richiedono; et che non
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serriamo in modo nostre sustanze, che la liberalità non le possa aprire: laquale dee veramente mancare d’ogni vanità, et d’ogni pompa. Et questo si farà prudentemente, se porremo mente alla cagione della cortesia; al modo, alla dignità cosi nostra, come di coloro, verso i quali dobbiamo esser liberali. Percioche quei che senza giudicio, et misura: con un certo impeto d’animo, voglion parere, piu tosto ch’esser liberali: meritamente possono esser tassati di leggierezza. Perche non è cosa piu vergognosa a buono huomo, che far cosa, della quale non si possa rendere probabile ragione. Hassi dunque a tenere una certa mediocrità, accioche se temerariamente getteremo ogni cosa, non siamo detti prodighi; et se non doneremo dove s’hà da donare, non siamo tenuti avari, et maligni. Percioche secondo il costume Christiano il proprio ufficio del nobile, et liberale è allevare i fanciulli, difendere i pupilli, maritare le povere donzelle, aiutare le vedove, giovare a’ nobili oppressi dalla povertà, et dalle malattie, pascere quei c’hanno fame, vestire gli ignudi, riscattare i prigioni, sciogliere coloro c’hanno debito con propri denari: et ciò fece ancho quel Fabio Massimo, che conservò tutto l’Imperio Romano. Percioche havendo promesso di riscattare i prigioni d’Annibale, non volendo ciò fare il Senato, vendè le sue possessioni, per fare di suo
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quel ch’egli haveva deliberato. Lodasi anchora di liberalità Gillo Agrigentino, percioche egli con una grande spesa mantenne per ispatio di tempo cinquecento cavalieri de’ Gelesi cacciati dalla fortuna del mare in una sua possessione. Lascio di dire, quanto egli fisse liberale in fare spettacoli in mantenere le vittovaglie a vil prezzo, e in merter tavola; percioche costui fu riputato liberalissimo sopra tutti gli altri huomini, che furono giamai. DO. Et certo splendidamente. Ma ditemi, vi prego, separate voi la magnificentia dalla liberalità? VOL. Anzi tengo io con Aristotele, percioche questa consiste in donar denari, et quella nelle spese grandi; onde ancho a tolto il nome. Percioche il proprio ufficio dell’huom magnifico si è edificare theatri, tempii, piazze, loggie, et palazzi; come si richiede alla dignità della città, et alla presenza, et grandezza di colui che edifica. DO. Per questo rispetto meritamente si chiamano hoggi magnifici i gentili huomini Vinitiani, i quali nella grandezza, et pompa de gli edifici et publici et privati vincono tutti i moderni, et pareggiano gli antichi. E i medesimi sono ancho quei veri nobili, iquali voi m’havete si vivacemente dipinti, et mostrati. VOL. Certo ch’io ho tirato i veri lineamenti della nobiltà, ma non v’ho gia anchora messo sopra i nervi e i colori. DO. Di gratia finite que-
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-sta vostra figura, accioche finalmente io mi possa vantare d’haver veduto la vera imagine de quella nobiltà, che noi cerchiamo. VOL. Percioche cosi è necessaria la giustitia nella compagnia de gli huomini, come l’anima nell’animante. Perche col moto di questa il corpo si risente, s’ella v’è dentro; et s’ella n’è lontana, subito intirizza, et risolve. Chi è colui, che non ammiri a guisa di qualche Dio mandato da cielo l’huomo giusto? A costui, come potete vedere, fidano gli huomini le sustanze loro; gli raccomandano i figliuoli, le mogli, et tutte le cose del mondo: et certo con ragione: conciosia cosa che la giustitia (come vuole Aristotile) non è alcuna parte della virtù, ma tutta la virtù. A voler dunque acquistarsi perpetua commendatione, et fama di vera nobiltà, bisogna che con tutto il core abbracciamo la giustitia; senza laquale non puo esser cosa alcuna lodevole. Camillo Dittator Romano con la giustitia, et con la clementia accettò a patti i Talarii, iquali egli non poteva havere per forza; havendo rimandato il pedante staffilato da quei medesimi fanciulli: i quali egli della città fuggendo a tradimento havea menato seco nel campo de’ nimici. Gran lode anchora è quella d’Aristide, iquale s’acquistò il sopranome di giusto, perche egli non vuolle accettare il consiglio di Themistocle, utile certamente, ma non però honesto,
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d’abbruciare l’armata de’ Lacedemoni a Cithica. Et noi dirittamente allhora serveremo questa giustitia, quando useremo le cose communi per communi. Le cose communi sono, avvertire gli armati, insegnare gli ignoranti; o provedere che siamo ammaestrati, non negare l’acqua, lasciare che’l fuoco sia tolto dal fuoco, dare fedel consiglio a quei che vengono a consigliarse. Ora mi pare soverchia distinguere i gradi in questa compagnia de gli huomini. Percioche oginun sa, che piu s’è obligato alla patria, a’ parenti, a’ figliuoli, a’ propinqui, a’ cittadini d’una medesima natione, et d’una istessa lingua, che a’ forestieri, et a gli strani. Non è lontano anchora dall’ufficio d’huomo eccellente et giusto lo affaticarsi che nella patria sua si servino le leggi, le ragioni, i partiti, et le usanze; et che i suoi cittadini nelle parole, et nelle conventioni mantengano la promessa fede. Il che leggiamo haver fatto M. Regulo, unico esempio d’inviolata fede. Perche egli volle piu tosto ritornare a Carthagine a manifesto supplicio, che rompere la data fede. Ora, Domenichi mio, colui che diligentemente osserva queste cose, non solamente mi par nobile, ma che sia illustre anchora. DO. Quasi che questa parola nobile non comprenda in se il magnifico, l’illustre, et s’altro v’è maggior titolo. VOL. Egli si pare bene, che
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voi non habbiate molta famigliarità co’ segretarii del dì d’hoggi; i quali danno i gradi e titoli differenti di gran lunga da quei che fanno le nostre leggi. DO. Io non mi curo gran fatto di sapere, quel che s’habbia introdotto la adulatione, et la corruttela de’ nostri tempi; ma bene m’è caro intendere quel che in ciò usarono gli antichi eleganti scrittori; et quel che v’hanno giudiciosamente riformato gli ingegnosi moderni. Ma ditemi vi prego, se alcuna altra conditione havete da aggiungere a questa nobiltà. VOL. Ella non ha havuto anchora da me tutto quello che se le conviene: però state a udire quel ch’io le voglio dare. La fortezza, secondo il mio giudicio, quasi certo appoggio di tutte le virtù, è molto necessaria a huomo illustre; accioche la giustitia in parte alcuna non scemi di riputatione. Ma si come la fortezza senza la giustitia è rifugio d’iniquità, percioche il piu gagliardo calpesta il piu debile; cosi la giustitia senza la fortezza le piu volte abandona coloro, che meritamente ella devrebbe difendere. Ma perche la fortezza si divide in due parti, nelle cose di guerra, et in quella di casa; lasciamo quella prima a’ capitani illustri, et a’ soldati valorosi: il cui numero è senza fine: et piu tosto abbracciamo quella fortezza domestica, laquale piu si comprende nelle forze dell’animo, che del corpo.
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La vera fortezza è prima vincer se medesimo, raffrenare l’ira, non si lasciare allacciare dalle delitie, non si turbare per le adversità, ne insuperbirsi per le cose liete; et esser quà et là balzato come dal vento; percioche colui, che si lascia vincere da’ desiderii, che si prende d’animo per la paura, che si turba per l’ira, certamente non si puo servire del consiglio. Ma colui, che noi vogliamo che sia d’animo grande, et eccellente, eccetto la virtù, non dee ammirare, ne stimar nulla nelle cose del mondo. Oltra di ciò, come vuole Aristotile, non accetterà tutti quanti gli honori, ne da ogniuno che gli dia; ma solamente quegli, iquali gli parranno degni d’huomo illustre. Appresso questo conserverà talmente la dignità dell’animo suo nell’una et nell’altra fortuna; che mai non parrà, ch’egli esca di se stesso. S’allegrerà d’haver fatto benificio a coloro, che lo meritavano, et non farà, come alcuni huomini plebei, i quali per parer nobili donano alle persone virtuose costretti, et quasi a forza, o stimulati da’ preghi de gli amici, o mossi da ambitione d’esser chiamati liberali, o spronati alla vergogna per acquistarsi la gratia delle Donne. Ne si tosto hanno donato loro una picciola miseria con le trombe che prima hanno fatto sonare di mille promesse, che essi assaliti dalla propria et naturale avaritia loro, si pentono d’havere speso; et
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piu tosto c’havergli dispensati ne gli huomini dotti, et buoni, havrebbono voluto haver consumato quei pochi denari in ogni qualità di dishonesti piaceri. Et non sapendo in quale altro modo dimostrar pentimento della loro sforzata cortesia, si danno a cercare ogni causa per partirsi dall’amico; volgendosi a tutte le maniere delle ingiurie di fatti, et di parole, affine che quello huomo litterato non picchi piu l’uscio della loro mecanica sordidezza. Di questa sorte non sarà il nostro vero nobile, che havendo una volta donato, et debilmente a huomo degno di cortesia, et d’honore, se ne rallegrerà singolarissimamente fra se stesso; et ringratierà di core quel gentilhuomo et virtuoso, che gli habbia dato si bella occasione di mostrare, et porre in esercitio le virtù dell’animo suo. Havrà un’altra virtuosa qualità questo huom vero nobile, che gli dispiacerà, quando esso hvarà ricevuto benificio, o servigio da altri; et che subito per uno non potrà render molti, secondo il precetto d’Hesiodo: ilquale commanda, che si renda con maggior misura: si come suol fare il terren lavorato del seme, che se gli commette. Et è lontano anchora dalla natura di colui, ilquale volgiamo, che habbia animo grande et eccellente, ricordare i benifici fatti altrui; et certo questo è proprio ufficio di colui, che riceve, non di chi donna. Il che non sanno fare
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quegli ignobili, che donano per parere; perche se un minimo piacere altrui fanno, donando a un virtuoso pure un cappuccio vecchio, lo vanno bandendo per le piazze, et raccontando senza proposito alcuno a quanti ne vengono loro innanzi: parendogli pure d’haver fatto grande et magnifica cosa. Onde il buon virtuoso udendosi in tanti modi rinfacciare una cortesia stentata: prima starebbe a patti d’andare ignudo; che di accettar mai piu da simili vantatori benificio alcuno. I Lacedemonii ricordavano i benifici ricevuti da gli Atheniesi, et nondimeno honestamente tacevano quei che havevano loro fatto. Vuole ancho piu tosto essere eccellente in ogni virtù, che parere; il che suole esser proprio d’huom vano et leggieri. Il parlare, e l’amare, et l’odiare apertamente è da lui riputato ufficio d’animo grande, percioche d’huom timido è nascondere l’openion sua. Sonoci alcuni sciagurati et vili huomini, i quali non havendo potere di manifestamente altrui nuocere; usano tutte l’arti per ruinare coloro ch’odiano a torto per invidia, et per la gran differentia, ch’è tra loro: percioche suol sempre fra l’ignorante e’l dotto, fra il buono e’l tristo, fra il nobile et l’ignobile esser nimistà et odio, per questo rispetto solo del gran contrario che è tra la virtù e’l vitio. Et quindi veggendo, che palesemente non possono, s’ingegnano di fingere ami-
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-citia con buoni, poi tessono inganni et tradimenti, per venire all’intento loro. Di questi tali non si fiderà il nobile a verun modo, ma fuggirà la pratica loro come la peste. Il moto di colui che vuole esser chiamato nobile, sia tardo nell’andare, la voce grave, il parlare pieno di sententie. Et sopra tutto sia certo, che la vera grandezza d’animo non puo stare in piedi senza una gran virtù. Ha però da fuggire il soverchio desiderio della gloria. Percioche mentre che per grandezza d’animo noi ci forziamo di fare il su dovere a ogniuno, alcuna volta per l’ambitione sprezziamo quelle cose, che per nessuna publica, p legittima ragione non ci lasciano poi vincere. Deve oltra ciò colui, che desidera superare tutti gli altri di valore, mostrare in tutte le sue attioni grande animo, et grande speranza. Come si legge, che fece Scipione nella seconda guerra Africana. Perche essendo egli entrato nel publico consiglio di coloro, che dopo la rotta di Canne deliberavano d’abandonare l’Italia, messo mano alla spada minacciò d’amazzare quei ch’approvassero tale openione. Grande animo fu anchora quello di M. Farinata de gli Uberti cavalier Fiorentino, ilquale deliberando i fuorusciti Gibellini, de’ quali egli era capo, di ruinare le mura della città di Fiorenza, et ridurla a borghi; solo a tutti gli altri s’oppose: et tratto fuor la spada giurò, che
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vivendo non havrebbe giamai comportato di veder ruinare quella città, che i suoi maggiori con tante fatiche, et cosi bella havevano edificata. Perche si come è proprio ufficio di buon medico et col volto, et con le parole promettere la sanità a gli ammalati, cosi conviene all’huomo illustre opporre alla disperatione de gli huomini la confidenza, et la buona speranza; si come scrive Vergilio haver fatto Enea: dove dice.
Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem.
Ne dee per alcun modo l’huom nobile spaventarsi, ne (come si suol dire) lasciarsi cader giu del grado della costanza; perche non è altra cosa piu vituperosa a huom singolare: ilquale per utilità commune è nato et allevato alla sola fortezza. DO. Ma ditemi di gratia, ha egli bisogno d’altro aiuto colui che voi volete, ch’avanzi tutti gli altri di nobiltà d’animo? VOL. Anzi d’uno altro, et ben grande. Bisogna dunque, che in questo tale huomo si trovi la prudentia, a poter fare elettione de’ beni et de’ mali; se pure egli vuole esser chiamato giusto et costante. Percioche la prudentia maestra dell’altre virtù è cosi arte del vivere, come è la medicina governo della sanità. La onde in questa cosa non è punto da esser lodato Theofrasto, ilquale nel suo Callistene disse; che la vita nostra si regge a caso; di che non è cosa piu debile; essendo manifesto per esperien-
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-tia, et per dottrina, che’l cielo et gli huomini si governino con la sapientia. Percioche la sapientia (come vogliono i Filosofi) non è altro, che la cognitione delle cose divine et humane; laquale M. Tullio chiama quando prudentia, et quando sapientia: et chi la disprezza, et rifiuta io per me non so vedere in che sia differente da gli animali brutti: conciosia cosa ch’ella sia quasi principe, et maestra di tutte le virtù; et da lei s’acquista ogni modo di ben vivere. La onde santamente fu scritto da Platone; che finalmente allhora le republiche sarebbono felici, quando elle fussero governate da gli huomini dotti et savi. Et cosi fu d’openione, che le città dovessero star bene, ogni volta che colui che v’ha la suprema possanza, havesse posto ogni suo studio nella virtù. Si come habbiamo letto, che furono in Roma Publio Scipione, Gaio Lelio, Marco Catone, Licurgo in Isparta; Solone in Athene. Percioche quella parte, laquale (come vuol M. Tullio) consiste nella cognitione del vero, è di grandissima importanza alla natura humana. Colui ancho meritamente debbe esser chiamato prudentissimo, ilquale in ogni cosa puo vedere, et discernere quel ch’è vero, et falso. Onde saviamente rispose Aristotele, quando essendoli domandato che differentia fusse tra i dotti, et gli ignoranti, disse, quella ch’è tra i vivi, e i morti.
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Et è la sapientia un dritto modo di far le cose, laquale mette termine a’ diletti; et regge la fortezza dell’animo. Trapassa questa medesima non pure al maneggio delle cose publiche, ma anchora al governo delle famigliari; et a trattare oltra di questo tutte le cose non temerariamente, ma con consideratione. Mostra ella come s’ha da pigliar tempo nella deliberatione; et poi che s’è fatta la riolutione, che si negotie poi messa da parte la dapocaggine, et la pigritia. Percioche tutta la lode di questa virtù consiste nell’attione. DO. Mi maraviglio molto, che questi due nomi prudentia et sapientia, so confondano insieme; havendo i Peripatetici sopra ciò grandemente diversa openione. VOL. E’ certamente vero quel che voi dite. Percioche si come la sapientia è proprio di conoscere diligentemente tutte le cose, che s’hanno da contemplare; cosi la prudentia ci dimostra quel che habbiamo da desiderare, et da fuggire. Nondimeno se vorremo considerare bene, elle sono assai poco differenti fra loro; conciosia che la cosa istessa considerata, et esaminata, il che nasce dalla sapientia, ne mena all’attione: nellaquale è riposta la felicità humana. DO. Questo che voi dite, non mi dispiace punto. Hora mi pare havere quel veramente nobile, che noi cerchiamo. VOL. Sola una cosa vi manca anchora, con laquale a guisa di condi-
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-mento questo nostro ragionamento, o piu tosto discorso, si farà piu saporito? DO. Ditemi, vi prego, che sia questo? VOL. La temperantia, laquale talhora modestia, et alcuna volta moderatione sogliamo domandare. Il proprio ufficio di questa virtù è acquetare et reggere i moti dell’animo ch’appetisce; et servar sempre in tutte le cose una moderata costanza contraria al desiderio. Percioche la intemperanza travagli crebbe et infiammerebbe ogni stato dell’animo, se quella virtù non non facesse contrasto a quel vitio; col beneficio dellaquale s’acquestano le infirmità, et tutte le passioni dell’animo. Dice M. Tullio; che ne gli animi nostri si trova di due sorti violenza, una parte dellequali consiste nell’appetito; questa chiamato da Greci (Greek word- looks like opur); laquale hor qua hor là spinge, et caccia l’huomo. L’altra è nella ragione, laquale insegna, et mostra quel ch’è da farsi, et da fuggire. Ma l’una, et l’altra stia disposta in questo modo, cio è, che la ragione governi, et l’appetito ubidisca, et specialmente in huomo ben costumato; il cui fondamento sarà la vergogna: laquale non senza cagione aggiunta alla prudentia, et data all’huomo solo, mostra che una cosa si conviene a un giovane, et un’altra a un vecchio. Danzò (si come dicono coloro c’hanno scritto l’historia del testamento vecchio) il Re David, ma non gia Samuel; et si come quel-
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-lo non fu perciò ripreso, cosi questo n’è piu lodato. Rifiuto di sonare la cethera, si come io credo, per vergogna, Themistocle quel Principe della Grecia; parendogli ch’alla dignità sua ciò non convenisse. Scrivono anchora i poeti; che Minerva gettà via il flauto; perche volendogli dar fiato, ella vide, che si faceva brutta in volto: cosa che molto disdiceva a una Dea. Bisogna anchora colui che vuole essere tenuto nobile, sia continente, et astinente. Et l’una di queste conditione consiste nella cose, l’altra ne’ costumi. Scipione Africano quel che ci serve in molte cose per esempio, costantemente rifiutò una bellissima fanciulla presa in battaglia, et a lui presentata in Hispagna per cagion di diletto; et la restituì inviolata al marito. Il Conte Francesco Sforza principe Illustrissimo; ilquale all’età de’ nostri padri fu singolare essempio di molte virtù; essendo capitano dell’esercito del popolo Fiorentino; et havendo presa per forza la terra di Casanova; alcuni soldati menavano una bella et leggiadra giovane: laquale gridava volendo esser condotta inanzi al capitan generale. Perche menata alla presenza di lui, domandandole Francesco Sforza per qual cagione ella havesse desiderato di venire a lui; rispose per ubidire alla volontà di lui: accioche la difendesse dalla ingiuria de’ soldati. Onde Francesco veggendola bella, et nel fiore
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dell’età sua, giudicò di dover fare poco errore; ogni volta che col volere di lei n’havesse fatto il suo piacere. La menò dunque quella notte a dormir seco. Et volendo poi accostarsele, et abbracciarla, la fanciulla piena di lagrime rivolta a una imagine della vergine Maria; laquale Francesco tenendo la attaccata al capo del suo letto, adorava con singolar riverenza: lo pregò, che per amore di colei, che quivi era dipinta, et per la fama anchora della bontà di lui, ch’era appresso d’ogniuno; non volesse levarle l’honore della virginità sua; ma piu tosto la restituisse intatta al marito, ilquale era legato, et guardato con gli altri prigioni. Fu tanto grande la continentia di Francesco, che benche egli si ritrovasse appresso nel letto una fanciulla bella, presa in battaglia, et quasi ignuda, veggendo ch’ella haveva cosi caro l’honor suo; subito saltò fuor del letto: et la mattina fattosi venire innanzi al marito, gliele restituì publicamente: giurando di non havere havuto a fare nulla seco. Dove in un medesimo fatto non solamente imitò Scipione, ma a mio giudicio anchora, per essersi abbattuto in una manco ben costumata militia, lo vinse. Et specialmente aggiungendovisi questo, ch’essendo nata di nobil sangue quella che fu menata a Scipione; et vivendo Scipione in città libera; forse s’havesse violata la pudicitia di quella
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donna, n’havrebbe potuto aspettare giudicio di censura. Ma in Francesco non era punto alcuna cosa, che se non fusse stata in lui bontà di natura; per alcun sospetto di paura, l’havesse devuto ritenere dal satiar le sue voglie. Catone anch’egli nell’Achaia, nell’Epiro, et nelle Cicladi, abondante di lussuria et di copia di guadagno; secondo il testimonio di Humatio Ruffo, costantemente rifiutò tanto vituperio. Bel motto anchora fu quel di Fabritio contra Cinea, ilquale dinanzi a Pirrbo attribuiva ogni cosa al diletto; volesse Iddio; che tutti i nimici del popolo Romano fussero di questa medesima openione. Ma quanto sia vergognosa, e infame precipitarsi nella lussuria, et ne gli altri diletti del corpo, ben ce lo mostra l’errore di Sardanapalo; ilquale fece intagliare nel sepolchro suo queste parole: HOC HABUI QUOD EDI, QUODQUE EXATVRATA LIBIDO HAUSIT. Onde disse Aristotele; che altro si sarebbe scolpito nel sepolcro d’un bue, et non d’un Re? Ma sopra tutto in ogni cosa s’ha da servare la mediocrità, laquale appartiene ancho molto a mantenersi sano. Percioche non nella satietà, ma nel desiderio consiste il diletto del vivere. Colui dunque, ilquale meritamente vorrà chiamarsi nobile, et illustre, bisogna che raffreni tutti i desiderii; et acqueti l’infermità dell’anima. S’astenga dalla colera, dallaquale nasco-
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-no quasi infiniti mali. Usi appresso di questo prudentia nella difinitione fra i beni, e i mali. Con la giustitia, dando a ciascun quel ch’è suo. Con la fortezza, consideratamente entrando nelle fatiche, et ne pericoli. Con la temperantia (come io ho gia detto) abandonando tutti i diletti. Ora colui, che costantissimamente serverà questo tenore, benche sia nato di parenti villani, e in luogo ignobile, merita però d’esser chiamato nobile et illustre. Queste sono quelle poche cose, Domenichi mio, che io v’ho saputo dire d’intorno la nobiltà. Perche sarà ben tempo, che facciamo fine; se pure altro da me non volete. DO. Certo che voi m’havete sodisfatto benissimo, et gia mi rallegro fra me d’havere havuto compagno tale nell’openione mia. Et hora finalmente comincio a stimare veri nobili quei solamente, i quali hanno in loro alcuna singolar virtù; et non piu quegli, che ben profumati, et vestiti di seta, et d’oro portano tutto dì senza un proposito al mondo un sparviere in pugno: mettendo il fondamento di tutta la nobiltà loro nell’otio e nell’infin gardagine, et non nell’operar valorosamente, come si conviene. VOL. Et meritamente voi dite il vero. DO. Ma poi che voi m’havete diffusamente ragionato della nobiltà, io mi tengo sodisfatto interamente da voi. Et della vostra singolar cortesia vi rendo gratie ifinite.
IL FINE DEL DIALOGO DELLA VERA NOBILTÀ.