La nobiltà et l’eccellenza delle donne: co’ diffetti, et mancamenti de gli huomini (1601) Part 1

by Lucrezia Marinella

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Title: La nobiltà et l’eccellenza delle donne: co’ diffetti, et mancamenti de gli huomini. Discorso di Lucretia Marinella, In due parti diviso
Author: Lucrezia, Marinella (1571–1653)
Date of publication: 1600
Edition transcribed: (Venice: Giovanni Battista Ciotti, 1601)
Source of edition: Gale Centage Learning, Nineteenth Century Collections Online
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Transcribed by: Marco Piana, Martina Orlandi, Lara Harwood-Ventura, Tanya Ludovico, Cassandra Marsillo, and Stefania Gaudrault Valente, McGill University, 2017.
Transcription conventions: “Intervocalic v” transcribed as “u”, as per the original. We decided, however, to normalize all initial “v” as “v”, since they were sometimes v, sometimes u, no real logic or coherence in the original. Marginal notes have been included as comments only viewable in the .doc file, not viewable in the .txt file.
Status: Completed, version 1.0, September 2017.

Produced as part of Equality and superiority in Renaissance and Early Modern pro-woman treatises, a project funded by the Social Sciences and Humanities Research Council of Canada.

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LA NOBILTA, ET L’ECCELLENZA DELLE DONNE,
CO’ DIFFETTI, ET MANCAMENTI DE GLI HUOMINI

DISCORSO DI LUCRETIA MARINELLA,
IN DUE PARTI DIVISO.

Nella prima si manifesta la nobiltà delle Donne co’ forti ragioni, et infiniti essempi, et non solo si distrugge l’opinione del Boccaccio, d’amendue i Tasi, dello Sperone, di Monsig. di Namur, et del Pasi, ma d’Aristotile il grande anchora.
Nella seconda si conferma co’ vere ragioni, et co’ varii essempi da innumerabili Historici antichi, et moderni tratti, Che i Diffetti de gli huomini trapassano di gran lunga que’ delle Donne.

Ricorretto, et Accresciutto in questa seconda Impressione.

CON PRIVILEGIO, ET LICENZA DE’ SUPERIORI

IN VENETIA, M. DCI.

Appresso Gio. Battista Ciottu Sanese, All’Insegna dell’Aurora.

Gli Eccellentissimi Signori Capi dell’Eccelso Consiglio di X. Havuta fede dalli Signori Reformatori dello studio de Padova per relatione delli tre à ciò Deputati cioè del Rever. P. Inquisitor, del Cera Secretario, Gio. Maraveglia, et de Sier Lucio Scarano Lettor publico, che nel Libro intitolato la Nobiltà, et Eccellenza delle Donne et i Difetti, et mancamenti de gli huomini. Da essi veduto, et letto, non si trova cosa contra le leggi, et è degno di Stampa.
Dat. Die quarta Maii 1601.
Domino Zorzi Foscarini
Domino Andrea Minoto Capita Illustriss. Cons. Decem.
Domino Antonio Lando

Illustriss. Cons. Decem Secret.
Bonifacius Antelmo.

ALL’ECCELLENTISS.
SIGNORE, IL SIGNOR
LUCIO SCARANO,

Medico, et Filosofo Nobilissimo.

Se colui vien riputato, et tenuto da ogn’uno ingrato, et discortese, che havendo ricevuto da alcuno qualche segno di honore, non li rende contracambio, overo almeno con infinite, et innumerabili gratie non si scusa della sua impotenza. Sarò io senza alcun dubbio in fin’ hora stata per l’ingratitudine degna di riprensione, già che da Vostra Signoria Eccellentissima in una sua Lettione fatta nella Libraria della Serenissima Signoria di Venetia fui con le sue lodi inalzata in fino al Cielo nelle cose di Poesia; ma ella da me ne ringratiata, ne con altro cortese segno punto fu riconosciuta. Hora desiderando di emendar il già commesso fallo, le dedico questa mia fatica della Nobiltà delle Donne, per i sgravarmi in parte dell’obligo ch’io tengo con esso lei: et se il dono è picciolo à rispetto delle lodi grandi da lei a me date; faccia ella, che in qual che parte lo pareggi à loro la singolare amicitia, ch’ella hebbe con l’Eccellentissimo Signor Giovanni mio Padre, et con quella, che hora tiene con l’Eccellentissimo Signor Curtio mio fratello, et insieme accetti il pronto animo della debitrice: et Dio la rendi felice.
Di casa, il dì 9. d’Agosto. 1600

Di V.S. Eccellentissima

Come figliuola

Lucretia Marinella.

TAVOLA DE CAPI PRINCIPALI,
Che nella prima parte si contengono.

Della nobiltà de’ Nomi, co’ quali è adornato in Donnesco sesso. Cap. 1. c.3
Delle cause, dalle quali dipendono le Donne. Cap. 2. c.9
Della natura, et essenza del Donnesco sesso. Cap. 3. c.11
Delle ragioni tratte dalle nobili operationi, et da i detti de gli huomini verso le donne.
Cap. 4. c.24
Delle Nobili attioni, et Virtù delle Donne, le quali quelle de gli huomini di gran lunga superano, come con ragioni, et essempi si prova. Cap. 5. c.30
Delle donne scientiate, et di molte arti ornate. Cap. 1. c.37
Delle Donne Temperate, et continenti. Cap. 2. c.44
Delle Donne forti, et intrepide. Cap. 3. c.55
Delle Donne prudenti, et nel consigliate esperte. Cap. 4. c.64
Delle Donne giuste, et leali. Cap. 5. c.68
Delle donne Magnifiche, et cortesi. Cap. 6. c.69
Delle donne nell’arte militare, et nel guerreggiare illustri, et famose. Cap. 7. c.76
Delle sofferenza, et toleranza delle donne. Cap. 8. c.85
Delle donne di forti membra, et della dilicatezza sprezzatrici. Cap. 9. c.88
Dell’amor delle Donne verso i Padri, i Mariti, i Fratelli, et i Figliuoli. Cap. 10. c.92
Dell’amore delle donne verso la Patria. Cap. 11. c.98
Risposta alle leggierissime, et vane ragioni addotte da gli huomini in lor favore.
Cap. 6. c.108
Opinione di Ercole Tasso, et di Monsignor Arrigo di Namur narrata, et rifiutata. c.121
Opinione dello Sperone raccontata et distrutta. c.126
Parere di Torquato Tasso addotto, et rifiutato. c.128
Opinione del Boccaccio, qui addotta, et distrutta. c.131

TAVOLA DE CAPI PRINCIPALI, CHE
Nella seconda parte si contengono.

De gli huomini avari, et desiderosi di denari. Cap. 1. c.138
De gli invidiosi. Cap. 2. c.149
De gli incontinenti, cioè Golosi, Ubbriachi, et Sfrenati. Cap. 3. c.154
De gl’iracondi, bizzarri, et bestiali. Cap. 4. c.166
De’ Superbi, et Arroganti. Cap. 5. c.171
De gli Otiosi, Negligenti, et Sonnacchiosi. Cap. 7. c.174
De gli huomini Tiranni, et usurpatosi de gli Stati. Cap. 7. c.177
De gli Ambitiosi, et Cupidi di gloria. Cap. 8. c.181
Delli Vanagloriosi, et Vanatori. Cap. 9. c.185
De gli huomini crudeli, ingiusti, et micidiali. Cap. 10. c.189
De gli huomini Fraudolenti, Traditori, Persidi, et Spergiuri. Cap. 11. c.204
De gli Ostinati, et Pertinaci. Cap. 12. c.214
De gli huomini ingrati, et discortesi. Cap. 13. c.215
De gli huomini incostanti, et volubili. Cap. 14. c.218
De gli huomini maligni, et che agevolmente odiano altrui. Cap. 15. c.221
De gli huomini ladri, assassini, corsali, et rapaci. Cap. 16. c.222
De gli huomini vili, paurosi, et di poco animo. Cap. 17. c.230
De gli bestemmiatori, et sprezzatori di Dio. Cap. 18. c.236
De gli huomini Incantatori, Magi, et Indovini. Cap. 19. c.245
De gli huomini bugiardi, et mendaci. Cap. 20. c.254
De gli huomini gelosi. Cap. 21. c.256
De gli huomini ornati, politi, bellettati, e biondati. Cap. 22. c.262
De gli huomini Heretici, et inventori di nove fette. Cap. 23. c.271
De gli huomini lagrimosi, et teneri al pianto. Cap. 24. c.272
De gli huomini giucatori. Cap. 25. c.275
De gli huomini maldicendi, et falsi incolpatori. Cap. 26. c.279
De gli huomini loquaci, et cicaloni. Cap. 27. c.284
De gli huomini smemorati. Cap. 28. c.286
De gli huomini di poco ingegno, et pazzarelli. Cap. 29. c.288
De gli Ucciditori delle Madri, de Padri de Fratelli, delle sorelle, et de Nipoti.
Cap. 30. c.292
De padri, che uccisero i propri figliuoli. Cap. 31. c.297
De gli Hipocriti, et santoni. Cap. 32. c.302
De gli seditiosi, et tumultarii. Cap. 33. c.306
De gli huomini Ignoranti, et goffi. Cap. 34. c.318
De gli Adulatori. Cap. 35. c.321

DEL MAGNIFICO
SINOR ANTONIO
SABELLI

Alla Medesima.

Tu che con verità scopri, e riveli.
Del crudel sesso maschio i vitii horrendi,
Con dotte prose, e chiare, e illustri rendi,
Le nobil donne, e le lor glorie sueli.

E fra’l suo horror, ch’in parte copri, e celi,
Lo donnesco splendor fai, ch’arda, e splendi.
Facile impresa, e più fatica prendi,
A far, ch’alquanto il vitio d’huom si celi.

Facile il tutto è à te, che di Colomba
Già cantasti la morte, e’l voler giusto,
Con dolce stil, che’l mondo equal con ode.

Del Serafico Heroe per te rimbomba,
(Vergine Gloriosa) il nome augusto,
Talche in rime, et in prose eterna hai lode.

SONETTO
DEL MOLTO
ILLUSTRE SIGNOR
IL SIG. ORATIO VISDOMINI

ALLA MOLTO MAGNIFICA SIG.
LA SIGNORA LUCRETIA
MARINELLA.

POCO è il mostrar, ch’à noi risplende il Sole.
Ch’arde il foco, il Ciel gira, e bagnan l’onde,
Che di Febo al venir l’horror s’asconde,
E che Flora habbia in sen rose, e viole.

Meno è scoprir, che l’eccellenza a inuole,
La donna à l’huom con sue virtù profonde,
Ch’uopo non è mostrar quel, che diffonde
Luce per se d’alte bellezze sole.

Sai tu, che saria l’huom privo di questo,
Di Natura, e del Ciel gran merauiglia,
Donna, gran don di Dio, luce del mondo?

Una bestia seluaggia, et un molesto,
Peso a la terra, ch’a; mal sol s’appiglia.
For senato, crudel, vile, et immondo.

P.1

DELLA
NOBILTA,
ET DELL’ECCELLENZA
DELLE DONNE,

ET DE GRAVISSIMI
Diffetti de gli Huomini.

DISCORSO DI LUCRETIA
MARINELLA.

Diviso in due Parti.

DIVISIONE DI TUTTO
il Discorso.

Sogliono tutti i coloro, che di alcuna materia, over soggetto trattano essere spinti, et mossi da qualche determinato fine: percioche molti sono, che desiderosi, che la verità di quello, che scrivono, sia da tutti conosciuta, si affaticano vigilando dies noctesque serena, et ogni diligenza usano non solamente nella inuentione della materia: ma anchora di renderla con polito modo di dire chiara, et aperta a’ diligenti lettori. Alcuni altri sprezzando la verità in molte cose di Filosofia solo spronati da viuacità, et da prontezza d’ingegno cercano con ogni studio possibile di far credere al mondo, che il vero sia falso, il bene male, et il brutto sia bello, et amabile, et con ragioni apparenti bene speso ottengono il tanto da loro desiato fine. Non pochi si ritrouano, che mossi dall’inuidia, che portano alle nobili attioni d’alcuno con la mordace penna cercano d’offuscarle, et anco d’annul-

P.2

-larle, lequali nondimeno bene spesso ad onta loro più sormontano, et al Cielo più s’innalzano. Et finalmente non mancano scrittori, che stimolati da odio, o da fiero sdegno con copiose menzogne vanno detrabendo l’altrui fama, et honore. Sono i primi per loro stessi degni di lode. I secondi non sono in tutto da essere vituperati, già che di cosi nobili ingegni ornati sono, ma ben degni di biasmo reputano tutti gli huomini coloro, che ò da inuidia, ò da particolare odio si mouono. Io in questo mio discorso voglio seguire i primi, come quella, che è desiderosa, che questa verità risplenda appresso ad ogn’uno, la quale è, che il sesso feminile sia più nobile, et eccellente di quello de gli huomini; et spero cosi manifestarla con ragioni, et essempi, che ogni huomo, ancor che pertinace, sarà sforzato con la propria bocca à confermarla. Si avvicinnò alla cognitione di questa verità Plutarco, et Platone quel grande nel Dialogo settimo della Republica, et in molti altri libri, ne quali mostra che le donne sono di cosi alto valore, et ingegno, come i maschi. S’avicinò, dissi; percioche non pensarono tanto oltre, che conoscessero le donne esser più degli huomini eccellenti, et nobili. Odio me, ò ver sdegno non moue, meno inuidia; anzi da me se ne stà lontanissima; percioche io non ho desiderato, ne desidero, ne mai desidrerò, anchor ch’io vivessi più tempo di Nestore, di essere maschio; ma credo ben io. Che ò sdegno, ò odio, ò invidia mouesse Aristotile in diversi libri à dir male, et à vituperare il sesso Donnesco; si come anco biasmò in molti luoghi il suo Maestro Platone. Et similmente io penso, che si sia mossi à scrivere in libro intitolato i Donneschi diffetti Giuseppe Passi Ravennate Academico informe. Se inuidia, e sdegno, ò altro lo habbia mosso, io non lo saprei ben dire; ma Dio gli perdoni. Diuiderò questo mio discorso in due parti principali: nella prima tratterò le noblità, et l’eccellenza della donne, laqual sarà diuisa in sei principali capi; ma il quarto contenerà sotto di se undeci capi particolari. Nella seconda parte spiegherò i Diffetti, et le brutture de gli Huomini, laqual sarà da me diuisa in trentacinque capi. Et incominciando dalle Eccellenze delle donne, mostrerò, che quelle trapassano i maschi nella nobiltà de nomi, delle cause, della propria natura, delle operationi, et de’ detti de’ maschi verso di quelle. Et finalmente risponderò alla leggierissime ragioni, che tutto giorno sono da i poco prudenti, et poco saggi huomini contra noi addotte.

P.3

Della nobiltà de’ Nomi, co’ quali è adornato il Donnesco sesso. Cap. 1.

Non è dubbio alcuno, che i propri nomi, co’ quali si chiamano le cose, dimostrano, et fanno manifesta la natura, et essenza di quelle, se però à dotti Filosofi noi vogliamo alcuna fede prestare, i quali costantemente affermano, che i nomi ci guidano nelle cognitione della cosa nominata, questo affermò fra gli altri Avuerroe addotto però dall’auttorità d’Aristotile nel libro ottauo della Metafica. Onde è di mestieri, anzi è necessario il credere, che non à caso, come alcuni poco scientiati, et nell’arti poco periti credono; ma che con somma prudenza sieno i nomi propri de gli huomini ritrouati, et poscia con grandissima ragione posti. Ma gli antichi Egittii et i saui Chaldei non credeuano già, che da gli huomini fossero ritrouati i nomi, co’ quali si chiamano le ragioneuoli creature: ma che dal Cielo dipendessero, il quale non solamente piegasse l’animo di colui, che’l nome imponea, ma che con una certa violenza lo sforzasse à nomare una tal particolar donna, o huomo con un tal determinato nome: inguisa che non se li potesse in alcun modo un altro porre, et da lor fatta con lunghissima sperienza una osseruatione, cioè tra nomi, et l’operationi delle cose nominate, fabricarono una nuoua arte, ò scienza chiamata Nomandia per mezo della quale si presumeuano di hauere una sicura, et certa cognitione della natura, et operatione non solamente de gli huomini in particolare: ma di ciò, che nel mondo si ritrouaua, laqual sicenza fu appresso i Theologi Hebrei molto stimata, et pregiata. Di quanta forza fossero i nomi, et sirno lo dimostra Iamblico nel libro intitolato de mysteriis Aegyptiorum, che afferma, che i nomi scuoprono, et dimostrano non solamente l’essenza, et potenza delle cose nominate; ma anchor di Dio; onde senza alcun dubbio noi affermeremo quella cosa esser più nobile, et singulare, laquale sarà ornata di più degno, et honorato nome. Ma chi dubiterà giamai che il Donnesco sesso non sia ornato di più degni, et di più chiari nomi del sesso de’ maschi? Niuno à giuditio mio, se noi andaremo considerando la forza de’ nomi, co’ quali egli si noma. Sono i no-

P.4

-mi, che rendono degno di honore questo sesso, cinque di numero, tratti da diverse lingue, cioè Donna, Femina, Eva, Ischiah, et Mulier, nomi tutti nobili, et pregiati. Et per incominciare dal primo. E cosa nota ad ogn’uno, che questo nome di Donna deriva da Domina voce latina, che significa Signora, et Padrona, nome pur d’Imperio, e di potenza regia, ilquale non solamente appresso noi è in uso; ma etiandio fù da gli antichi usato. Chiamavano gli Spartani, come scrive Plutarco nella vita di Licurgo, le donne con una voce, che significava Signore, et Epitetto nel suo Enchiridion a cap. 55. lasciò scritte queste parole. Mulieres à tertiodecimo anno vocantur. Et Claudio Cesare conoscendo l’eccellenza delle donne chiamava la moglie signora. Il che fece anco Adriano Imperatore. Et fino al tempo di Homero si honorava questo sesso con si illustre nome. Onde nel libro terzo dell’Odissea, parlando della moglie di Nestore nel latino cavato dal greco, si legge. Cui Domnia uxor lectum suum strauit. Et nel settimo, ragionando di Alcinoe. Quem suis ipsa manibus Domina construerat. È tanto pieno di nobiltà questo nome di Donna: che non solamente i Duchi: ma i Regi più grandi se lo usurpano, et attribuiscono. Onde si dice Don Cesare da Este Duca di Modona, Don Vicenzo Gonzaga, et Don Filippo d’Austria Re di Spagna. Et etiandio i Poeti considerando l’eccellenza di questo nome lo addattarono a Dei, et a qualunque cosa, che significa dominio, et signoria. Onde il Petrarca, ragionando d’Amore, disse.

Per inganni, e per forza è fatto Donno.

Et Dante

Ch’hebbe i nemici del suo Donno in mano.

Et Torquato Tasso, parlando del sonno nel canto decimoquarto, a stanza 94.

Quel serpe à poco, à poco, e si fa Donno.
Sopra i sensi di lui possente, e forte.

Et non contenti di hauer fatto questo gran nome mascolino, ne hanno fabricati, e verbi, et adverbi tutti denotanti signoria, et dominio. Onde volendo il Boccaccio nelle sue Novelle dir signorilmente, disse quasi Donnescamente la Reina impose ad Elisa, che seguisse. Uso il Petrarca Indonnare per signoreggiare, dicendo.

Fiamma d’Amor, che’n cor alto s’indonna.

P.5

Et Dante.

Per quella riverentia, che s’indonna.

Da tutte queste chiarissime auttorità de Scrittori addotte si vede apertamente, che questo nome di Donna (inuero come dice il Guarino, Secretario del gran Duca di Toschana, Don del Cielo) denota signoria, et imperio: ma placido dominio à punto corrispondente alla natura della Dominante. Che s’ella signoreggiasse à guisa di Tiranno, come fanno i poco cortesi maschi, forse starebbono mutoli l’insolenti detrattori di questo nobil sesso. Sono alcuni. Che credono, che il nome di Donna non si convenga à tutto il sesso feminile, et n’escludono le vergini; della quale opinione è Giuseppe Passi, parendoli che un tal nome sia troppo nobile per adattarlo à tutto il sesso; ma io con le auttorità de’ Poeti, et de’ Prosatori dimostrerò chiaramente, che questo nome di Donna, etiandio alle Vergini conuiene. Diede l’Ariosto il nome di Donna ad Angelica nel primo can. pur Vergine dicendo.

La donna il palafreno à dietro volta.

Et parlando di Bradamente nel secondo canto dice.

La donna amata fu da un Cavaliero,
Che d’Africa passò col Re Agramente.

Et altrove ragionando pur di Bradamante.

Cosi l’elmo levandosi dal viso
Mostrò la donna aprirsi il paradiso.

Et di Marfisa.

Voglio seguir la bellicosa donna,
Laqual chiamò la Vergine Marfisa.

Et il Trissino parlando di Sofia pur Vergine, la chiamò mille volte donna nel lib. 3. dell’Italia liberata; et Torquato Tasso mentre ragiona della Vergine Soffronia, la chiama altera donna; et di Clorinda, che guereggiava con Tancredi dice nel Canto 13. stan. 53.

La fortissima donna non diè crollo.

Et nella stanza 66.

Passa la bella donna, e par che dorma.

E cosi d’Erminia. Et il Cavaliere Gaurino nel suo Pastor fido introducendo Mirtillo à lamentarsi di Amarilli dice.

La mia donna crudel più dell’inferno.

Et parlando di Dorinda.

P.6

Gia che di donna in lupo ti trasformi.

Et in altri infiniti luoghi. Fra Prosatori. Non ci è il Boccaccio nelle Novelle, nel Laberinto, nella amorosa Fiammeta, et in ogni libro? Ma à che mi affatico io in provar quello, che ad ogn’uno è noto, et palese? Ne punto è contraria a questa opinione quella rima del Petrarca, ove dice.

La bella giovanetta, c’hora è donna.

Percioche il Petrarca hebbe riguardo à l’età, et non à l’esser Vergine; perche nella età di trenta anni, ò quaranta non si dirà giovinetta: ma donna, et questo si conosce apertamente dalle rime antecedenti, ove egli cosi scrive.

Onde s’io veggio in giovinil figura
Incominciarsi il mondo a vestir d’herba
Parmi vedere in quella etade acerba
La bella giouiuetta [giouinetta], c’hora è donna.

E questo basti quanto al nome di Donna. Il secondo nome dal latino derivato è femina, il cui significato è cosi alto, et nobile, che pochi nomi a questo si possono agguagliare, ò vogliamo, che cosi si chiami a fetu, ò parto, come vuole Isidoro, ouer che derivi da Sos greco, che significa fuoco; percioche nel primo modo la femina dinota produttione, ò generatione, come lasciò scritto Platone nel Chratillo, che è attione dignissima fra tutte le operationi de viventi, che dipende à punto solamente da’ perfetti viventi, come sono le donne: se adunque cosi è, come si vede continuamente; come ardirà alcuno di negare, che il nome di femina non sia singolare, et grande? Già che da lei dipende cosi nobile attione, ch’è il generare. Nel secondo modo significa fuoco tra tutte le cose forsi di questo mondo inferiore, la più utile, et la più bella. Onde volendo alcuno dimostrare l’agilità, et la prontezza nell’operare, et la nobiltà d’alcuna cosa l’assomiglia al fuoco; essendo egli il più attiuo fra gli Elementi, et de’ misti la perfettione. Anzi che molte persone pensarono, che l’anima istessa fosse calore, o fuoco. Due cose merauigliose si scoprono nel fuoco, il calore, et lo splendore, mirabili eccellenze, che portano tanta utilità à viuenti. Chi produce, e feconda più del calore? Che cosa più bella, et utile si trova al mondo della luce? O che mirabil nome è questo di femina molto più nobile di quello di Donna; percioche il primo significa signoria, et dominio, et questo secondo

P.7

causa producente, et fuoco senza il cui calore non è la vita, et leuata la luce si può dire che languirebbe il mondo, ò almeno la natura. O che doti eccellenti, ò che doti rare di tal nome; ond’io fra me stupisco, come questo nome di femina non sia piu in uso, che quello di Donna. ma questo è accaduto per una certa mala consuetudine di parlare: anchor che il Bocca. usi souente questo nome di femina con aggiunto honorato, cosa che non concede il Passi, dicendo femina nobile, et virtuosa, et l’Ariosto parlando di due donne, lequali erano state cagione della morte de duoi ribaldi figliuoli di Marganore dice.
Due femine à quel termine l’ha spinto.

Usò etiandio la voce di femina senza tristo aggiunto il Guarini introducendo à parlare il Satiro dicendo.

Maledetta Corisca, e quasi dissi
quante femine ha il mondo.

E Torquato Tasso nel suo Torrismondo disse, le femine Noruegie. Onde si vede che il nome di femina è con buono, et tristo aggiunto, si come anco, di donna. è il terzo nome Eva voce antichissima, che dinota vita, dalla quale dipende l’essere di tutte le cose del mondo, et in particolare delle cose animate. anzi che molti vogliono, che il nome di vita solo alle cose animate si conuegna. la qual eccellenza quanto sia nobile, hora non mi estenderò à raccontarlo; dipendendo dalla vita l’essere, et tutte le operationi; et pero con ragione è attribuito questo nome al sesso feminile, si come quello: che dà l’essere; et la vita à maschi. Che si puo dir più? Che dar l’essere, et la vita: onde questo nome trapassa gli antecedenti; percioche il primo dinota signoria, il secondo produttione, et fuoco; ma questo vita, et anima, suprema perfettione di tutte queste cose inferiori. Il quarto nome è Ischiah, che significa fuoco, ma molto diuerso dal fuoco primiero; perche questo nome dimostra un fuoco celeste, diuino, et incoruttibile, la cui natura è di perfettionare l’anima ne nostri corpi chiusa, di eccitarla, illustrarla, et in somma renderla partecipe di diuina perfettione, allontanandola da ogni bruttezza terrena. si vede risplendere questo celeste fuoco nella bellezza del corpo del sesso donnesco, come al suo luogo proveremo, che si puo dire di questo nome? Se non che si come le celesti cose sono piu nobili delle terrene, cosi che questo superi di gran lunga tutti gli altri, già che gli

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huomini rende partecipe di diuina essenza. Onde si può ben chiamare infelice quell huomo, che si trova haver priva la casa d’un tal fuoco, che lo ecciti, et suegli à contemplare il Cielo. Il quinto, et ultimo nome è Mulier, voce latina, che significa molle, et delicato, se al corpo il nome applichiamo; ma se all’animo, mansueto, et benigno. Onde all’uno, et all’altro modo sempre risulta in lode della donna; perci che le carni morbide, et delicate argomentano, che l’ingegno in quel tale sia più atto ad intendere, che non farebbe fra carni ruuide, et aspre. Queste insegna Aristotile dicendo Molles carne apti mente. Se all’animo, che è piu lodata della mansuetudine, et clemenza? ma cosi sono unite insieme queste due eccellenze, che importano questo nome Mulier, che non si può per modo di dire ritrouar l’una senza l’altra; percioche non si vede sotto un molle, et delicato corpo ascosa anima d’horrida fera, ne sotto ruuide, et horride spoglie celarsi un animo benigno, et mansueto. Concluderemo adunque da tutte queste cose il nome Mullier non esser molto inferiore à tutti gli altri narrati: ma ancor egli essere di non poco valore, et pregio. Sono questi i nomi, co’quali è adornato questo honorato sesso à giuditio mio, si come io ho chiaramante prouato i più illustri, et singolari nomi, che da bocca humana si potessero esprimere. O che nomi rari, merauigliosi, et degni: già che dinotano, et significano tutte quelle merauigliose eccellenze, che nel mondo si ritrouano, et ritrouar si possono. ceda pur à voi ogni altro nome, già che denotate produttione, et generatione; fuoco; et splendor del mondo; anima, et vita; Raggio diuino, et celeste; delicatezza; et elemenza: et finalmente dominio, et signoria. Onde si può dire ordinando insieme tutti questi nomi; che la donna produca il poco cortese maschio, li dia anima, et vita; lo illumini con lo splendor della divina luce; lo conserui in questa terrena spoglia co’l calore, et con la luce; lo renda al contrario delle fiere d’animo affabile, et cortese; et finalmente lo signoreggi con un dolce, et non punto tirannico impero. Dio immortale che piu chiari nomi adunque si ritrouano al mondo dì questi? che sono tanto nobili, che significano Vita, Producente, Fuoco, Clemenza, et Signore. Et questo voglio, che basti intorno alla dichiaratione de’nomi attribuiti al sesso feminile; et alle cagioni me ne passo.

P.9

Delle cause, dalle quali dipendono le Donne.
Cap. II

Due sono le cagioni, dalle quali la femina dipende. ma non solamente quella; ma etiandio ogni altra cosa, di che questo nostra mondo è adorno. Una delle quali è chiamata causa efficiente, ò poducente, et l’altra materiale. Se della procreante io parlo, non è dubbio alcuno, che sola cagione, et origine producente è Dio; Onde à prima vista quasi parerebbe, che tutte le cose fossero di una medesima prefettione; percioche dipendono de una istessa causa; ma se piu à dentro anderemo considerando, noi vedremo apertamente, che sono state da una istesa causa generate, ò create: ma con diversa Idea però furono dall’eterno fabro prodotte; percioche quella medesima cortese mano creò gli angeli, i cieli l’huomo, et la rozza, et opaca terra. tutte però cose in perfettione differenti: perche nobilissimi sono gli angeli, men nobili gli huomi, nobili i Cieli, et ignobilissima per cosi dire la terra, et pur dipendono da uno istesso Creatore, le quali cose sono et meno pregiate, et piu degne, secondo che da esso Creatore sono state formate, ò per parlar piu particolarmente, secondo che da men nobile, ò da più singolare Idea dipendono. Onde Dante volendo dimostrare la diuersità de gli effetti della somma bontà disse nel suo Paradiso.

La gloria di colui, che’l tutto moue
Per l’uniuerso penetra, e risplende
In una parte piu, e meno altroue.

Si scoprono adunque non solamente nelle cose già dette diuersi gradi di perfettione, ma in tutto quello, che nel mondo si troua. come nella diversità de gli animali, animanti, et misti. Tra quali alcuni piu perfetti, et altri meno perfetti sono. tutti però dipendenti da una istessa causa. Se adunque cosi è, come veramente è; perche non potrà essere la donna piu nobile dell’huomo, hauendo ella piu rara, et eccellente Idea, di lui, come dalla natura sua manifestamente si puo conoscere? Della qual nel capo seguente io lungamente tratterò. Sono le Idee, secondo i Platonici, eterni essempi, et imagini delle cose, lequali come in proprio albergo sono nella

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mente della superna potenza auanti la lor creatione, et però Leone Hebreo ciò considerando chiamò le Idee precognitioni diuine delle cose prodotte; percioche Dio auanti, la creatione delle cose haueua l’imagini nella mente di quello, ch’egli volea creare: ma io volgio darui uno essempio, che s’auicini à questa natura dell’Idea più però che sia possibile chiaro. Fingiamo adunque, che un Pittore voglia dipingere la bella Venere, ò che uno Architettore voglia fabricare un bellissimo palagio non è dubbio alcuno, che auanti, che il Pittore incominci à dipingere, et à lienare, haurà determinato nella sua mente la spetie della figura, che egli vuol dipingere. Et poi incomincierà à porre in luce l’imagine, che nella mente formata hauea, et cosi anco il saggio Architettore; quella cosa adunque, ò imagine, che hanno nella lor mente, si addimanda Idea, ò essempio della Dea Venere, ò del Palagio, che si ritroua nella mente dell’Artefice inanzi la fabrica, ò la pittura. Da questi essempi io credo, che notissimo sia ad ogn’uno, che cosa sia Idea, et anco credo, che sarà chiaro similmente, che più nobile sarà l’Idea di un superbo, et ben proportionato Palagio, che non sarebbe quella di un pouero, et sproportionato Tugurio, et cosi di una leggiadrissima Ninfa, che quella di un rustico, et difforme Satiro. Hora applicando l’essempio al proposito mio dico, che più nobili sono l’Idee delle donne, che non sono quelle de’maschi; come argomenta la beltà, et bontà loro. pur do ogn’uno conosciuta; percioche non si troua Philosopho, ò Poeta, che non attribuisca quella à loro, et non à maschi, et oltre à ciò io affermo, che più bella, et nobile Idea habbi una dona più gratiosa, et ornata di beltà, che non ha una men bella, et men vezzosa; percioche anco d’alcuni particolari sono l’Idee, come racconta Marsilio Ficino, et molti sacri Dottori, et manifestamente lo dimostra Luigi Tansillo dottissimo Platonico in una sua canzone dicendo.

Tra le più sante Idee, tra le più belle
Che in grembro à la diuina, e primamente
Riserbasse l’eterno lor fattore
Splendea la vostra in Ciel non altramente,
Che in bel seren la Luna tra le stelle.

Dallequali parole si comprende, ch’etiandio delle donne particolari vi sieno nella mente superna le Idee. cosi lasciò scritto anchora il Petrarca mentre vuol lodar Laura con tai parole.

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In qual parte del mondo, in qual Idea
Era l’essempio, onde natura tolse
Quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse
Mostrar qua giù, quanto la su potea.

O come egli spiega a dottissimamente la natura dell’Idea. et come ch’ella si troui auanti la cosa creata, chiamandola essempio, et la Mente Idea, modo usato di Parlare. Manifestò similmente il Bocca, nell’amorosa visione con tai parole questo.

Et da cui Idea pigliasse la misura
Et cosi bel disegno, e chiara luce
Sapria’l mal dir vinto da dubbia cura.

Et questo basti intorno alla causa efficiente, ò producente. Hora me ne trapasserò alla cagione materiale remota, della quale è la donna composta. Et poco intorno à cio mi affaticherò; percioche essendo la donna fatta della costa dell’huomo, et l’huomo di fango, ò loto, sarà certamente più del Maschio eccellente. essendo la costa più del fango senza comparatione nobile.

Della Natura, et essenza del Donnesco sesso.
Cap. III.

SONO le donne, si come anco gli huomini, composte di due parti, una delle quali è origine, et principio di tutte le piu nobili operationi, et si chiama da tutti anima: l’altra parte è il corpo caduco, et mortale, et ubbediente à i comandamenti di quella, si come quello, che da lei dipende. Se noi la prima parte, ciò è l’anima della donna consideriamo, senza dubbio se, co’ Filosofi noi vogliamo parlare, diremo ch’è tanto nobile l’anima de’ maschi, come quella delle donne; percioche l’una, e l’altra sono d’una medesima spetie, et per consequenza della medesima sostanza, et natura: laqual cosa conoscendo Moderata fonte, oue ella mostra, che le donne sono tanto nobili, quanto gli huomini, dice nel suo Floridoro.

E perche se commune è la natura
Se non son le sostanze variate?

Con quel che segue, volendo ella mostrare, che si contengono

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sotto una medesima spetie. Ma io già non assentisco à questa opinione. ma dico, che non è inconueniente, che sotto una medesima spetie sieno anime quanto alla lor creatione piu nobili, et eccellenti dell’altre, come lasciò scritto il Maestro delle sentenze nel lib. 2. alla distintione 32. laqual cosa essendo, si come è, io direi che l’anime delle donne fossero nella lor produttione vie piu nobili di quelle de gli huomini; si come da gli effetti, et dalla bellezza del corpo si può vedere. Che le anime sieno tra lor diverse lo conoscono etiandio i Poeti inspirati dal furor proprio, che loro fa riuelare i piu alti, et reconditi secreti della suprema Bontà, et della natura. la qual cosa mostrò Remigio Fiorentino ne’suoi sonetti con tai parole.

Tra le belle alme, ch’à far viue intese
Son di natura le belle opre, e rare
A dar vita à le membra e belle, e care
De la mia donna la piu bella scese.

Che le anime delle donne habbino una eccellenza, che non hanno quelle de gli huomini, lo manifesta il Guarino in alcune sue stanze dicendo.
Ne le vostre pure alme un raggio splende
Di quel sol, che nel Cielo arde i beati,
Onde nasce l’ador, che da voi scende
Ne cosi in si bel foco ad arder nati.
Questo è quel, che v’adorna, e quel ch’accende
Le fauille d’amor ne’lumi amati,
E questa è la cagion di quei sospiri
Ch’esalan gl’amorosi alti desiri.

Et non solamente il Guarino et Remigio Fiorentino, ma tutti gli altri Poeti sono stati di questa verità capaci. Come fù Bernardino Tomitano in un suo sonetto, nel quale egli fa manifesto, che dall’eterno Motore sono à noi alcuna volta concesse creature di anima, et di corpo piu degne, dicendo.

Quel’che con infinito alto gouerno,
E con immensa prouidenza, et arte
Sua mirabil virtute à noi comparte
Santo, saggio, diuin Motore eterno,
Vi diede a questa età, perche l’interno
Vostro valor Lucretia in mille carte

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Per voi rimbombi, e viua à parte, à parte
Tutto quel, ch’è di voi chiaro, e superno.

Et anchor à noi lo fece manifesto il Padre Angelo Grillo in questi versi.

Ahi chi la piu bella alma
Da le piu belle membra à partir sforza.
E in un sol lume ogni mio lume ammorza?
Ahi del Ciel, di natura ultima possa
Sarete adunque voi nud’ombra, et ossa?

Possono adunque l’anime del donnesco sesso essere piu nobile, e piu pregiate nella lor creatione di quelle de gli huomini: nondimeno, se noi vorremo ragionare secondo l’openione piu commune, diremo, che tanto sono nobili le anime delle donne, come quelle de gli huomini. La quale opinione è in tutto falsa, et questo si farà à tutti manifesto, se si considrerà con animo non punto appassiionato l’altra parte, ch’è il corpo: percioche dalla eccellenza del corpo si conosce etiandio la nobiltà dell’anima, essendo egli di tal figura, et beltà ornato della stessa anima, que parat sibi tale corpus. Che il corpo delle donne sia piu nobile, et più degno di quello de’ maschi ce lo dimostra la delicatezza, et la propria complessione, ò temperata natura sua, et la bellezza: anchor che la bellezza sia una gratia, ò splendore resualtante dall’anima, et dal corpo: percioche la beltà senza dubbio è un raggio, et un lume dell’anima, che informa quel corpo, in cui ella si ritroua, si come lasciò scritto il saggio Plotino, seguitando però in questo Platone, con tali parole. Exemplar pulchritudinis naturalis est ratio quædam in anima pulchrior, à qua profluit pulchritudo. Marsilio Ficino nelle sue Epistole cosi dice. Pulchritudo corporis non in umbra materiæ, sed in luce, et gratia formæ. Et che cosa è la forma del corpo, se non l’anima? Ma piu chiaramente ci hanno insegnato questa cosa i leggiadrissimi Poeti, che hanno mostrato, che l’anima splende fuori del corpo, come fanno i raggi del Sole fuori di un purissimo vetro: et quanto è più bella la donna, tanto piu affermano, che l’anima di lei rende in quel tal corpo gratia, et leggiadria. mostro questo il Petrarca in mille luoghi, et spetialmente parlando de gli occhi, anzi de’ duoi chiari solidi Madonna Laura dicendo.

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Gentil mia donna, i veggio
Nel volger de’ vostri occhi un dolce lume,
Che mi mostra la via ch’al Ciel conduce

Et Francesco Ranieri in un suo sonetto.

Se da’ begli occhi vostri in cui si mira
Tutto il bel, che può far natura, et arte.

Et in un altro dice.

Alma leggiadra in sottil velo inuolta,
Che come in vetro chiuso auro splendeui.

Et il Tasso ne’suoi sonetti cosi manifesta questo.

Alma leggiadra, il cui splendor traluce
Qual sol per nubi dal suo vago velo.

Ove egli mostra, che l’alma risplende fuori per un leggiadro, e ben composte corpo, à quel modo, che fa il Sol da sottili nubi velato. È adunque causa, et origine l’anima della beltà del corpo, si come habbiamo dimostrato et non solamente è l’anima cagione: ma se andiamo con l’ingegno più oltre, vedremmo, che Dio, le Stelle, il Cielo, la Natura, Amore, et gli Elementi sono di lei principio, et fonte. Che dipenda dalla superna luce la bellezza; nido delle gratie, et de gli amori, dimostrano i Platonici affermando, ch’ella è una imagine della bellezza diuina dicendo. Pulchritudo exsterna est duinæ pulchritudinis imago. Et Dioniso Areopagita lasciò scritte queste parole. Per participationem causæ primæ omnia pulchra siunt pro sio cuique modo. Ma compiosamente à noi scoprì questo Leone Hebreo nel dialogo terzo dell’amore affermando che la bellezza corporea è un’ombra, et una imagine della bellezza incorporea, che risplende ne corpi: percioche se questa da i corpi causata fosse, ogni corpo sarebbe bello, che è cosa falsa. adunque da superiore cagione nasce la beltà, et la maestà del corpo. onde disse Giovanni Guidiccioni.

La bella, è pura luce che in voi splende
Quasi imagin di Dio nel sen mi desta.

Onde come buon Platonico domandò la bellezza imagine di Dio: ma piu chiaramente dimostra Claudio Tolomei, ch’ella sia una gran parte della bellezza di Dio con queste parole.

De la beltà, che Dio larga possiede
Si vivo raggio in voi donna riluce
Che chi degno di quel vi guarda, vede

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Il vero fonte del’eterna luce.

E fa manifesto, come ben disse Dioniso Areopagita, che la somma bellezza si scuopre nelle creature, che ne sono degne, come le donne sono. questo anchor conferma Francesco maria Molza dicendo.

Donna nel cui splendor chiaro, e diuino
Di piacere a se stesso Dio propose,
Alhor che gli Emisperi ambi dispose
E quanto hanno d’ornato, e pellegrino.

Fu ancho di questa openione Cielo Magno Segretario della Ser. Signoria di Vinegia in un suo sonetto.

Non creò Dio bellezza, accioche spento
Sia’l fuoco in noi, che per lei desta amore

Et in una Canzone lodando le bellezze dell’amata donna, et in particolar de gli occhi dice.

Son gli altri vostri honori
Miracol di natura
Questo par che da Dio proprio discenda.

Cosi etiandio disse Remigio Fiorentino ne i suoi sonetti in questo modo.

Donna l’imagin son di quel sereno,
Di quel bel, di quel vago, e quel diuino,
Che sol s’infonde in noi per sua bontade.

Questo dimostra ancor Bernardo Rota dicendo.

Se dell’occhio del Ciel l’alma gran luce
Quale al rio, tale al buon gioua, e risplende,
Donna gentil, s’in voi sola riluce
Tutto il bel, che in se Dio vede, e possiede.

Et il Guarino nel suo Pastor fido dice.

O donna, ò don del Cielo,
Anzi pur di colui
Che’l tuo leggiadro velo
Fe d’ambo creator piu bel di lui.

In somma non è scrittor Platonico, ò Poeta, che non affermi, che da Dio dipendi la beltà, cosa che mostra il Patrar. nella canzone, che incomincia. Poi che per mio destino, con queste parole.

Poi che Dio, e natura, et amor volse
Locar compitamente ogni virtute

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In quei bei lumi, ond’io gioioso viuo.

E adunque primiera, et principal cagione la bellezza diuina della belià donnesca, dopo la quale ci concorrono le stelle, il Cielo la natura, Amore et gli Elementi, come ben disse il Petrarca parlando di madonna Laura.

Le stelle, il Cielo, e gli Elementi à proua
Tutte lor arti, et ogni estrema cura
Poser nel viuo lume, in cui natura
Si specchia, e’l sol ch’altroue par non troua.

Oltre à ciò che’l Cielo questa bellezza produca, in mille luoghi lo dimostra: et similmente il Bembo dicendo.

Mostrommi entro à lo spatio d’un bel volto,
E sotto un ragionar cortese umile
Per farmi ogn’altro caro essere à vile
Amor quanto può darne il Ciel raccolto.

Che le stelle di ciò sieno cagione, lasciò scritto il Petrarca in una sua Canzone.

Il dì che costei nacque eran le stelle,
Che producon fra noi felici effetti,
In luochi alti, et eletti.
L’una ver l’altra con amor conuerse.

Et il Tansillo in una sua canzone, che incomincia. Amor che alberghi, e viui entro al mio petto, scopre il medesimo dicendo.

Ma quando mi conduce
La mente à penetrar l’alta virtude,
Che la bella alma chiude:
Parmi allor, che la bocca, e gl’occhi, e’l riso
E i membri in Paradiso
Fatti per man de gl’angeli, e di Dio
Sien la minor cagion dell’ardor mio.
Chi potria mai narrar l’alte infinite
Gratie del ciel, ch’à larga man vi denno
Alma real tutti i miglior pianeti?
Venere la beltà, Mercurio il senno,
E le parole, ch’à l’inferno udite
Quei c’han pena maggior farien piu lieti.

Che la Natura ci concorra lo dimostra il Petrarca in questo sonetto.

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In qual parte del Cielo in qual Idea
Era l’essempio, onde Natura tolse
Quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse
Mostrar qua giù quanto la sù potea.

Et finalmente, che Amore sia origine, et principio della bellezza, lo manifesta l’istesso autore in questo sonetto.

Onde tolse Amor l’oro, e di qual vena
Per far due treccie bionde; e’n quali spine
Colse le rose, e’n qual piaggia le brine
Tenere, e fresche; e diè lor polso, e lena?
Onde le perle, in ch’ei frange, et affrena
Dolci parole honeste, et pellegrine?
Onde tante bellezze, e si diuine
Di quella fronte più, che’l Ciel serena?
Da quali Angeli mosse, e da quali spera
Quel celeste cantar, che mi disface
Si che m’avanza homai da disfar poco?
Di qual sol nacque l’alma luce, altera
Di que’belli occhi, ond’io ho guerra, e pace,
Che mi cuocono il core in giaccio, e’n foco?

A cagionare adunque questo riccho thesoro, et pregio della bellezza si ricercano tutte le parti del mondo piu eccellenti, et nobili, come Dio, Stelle, Natura, Elementi, et Amore, che è un ministro, che piglia da i corpi misti, et da gli altri ogni sorte di perfettione, et eccelleaza. Onde il Tasso ne’suoi sonetti conclude, che nella bellezza vi sia tutto il ben del mondo con tai parole.

Bella Signora nel tuo vago volto
Si vede lo splendor del Paradiso,
Si che qual’hora il mio pensier u’affiso
Parmi vedere il ben tutto raccolto.

Se le donne adunque sono piu belle de gli huomini, che per il piu sono rozzi, et mal composti si vedono, chi negherà giamai, che quelle non sieno piu singolari de’maschi? Niuno à giudicio mio. Onde si può dire, che la bellezza nella donna sia un meraviglioso spettacolo, et un miracolo riguardevole, che mai non sia à pieno honorato, et inchinato da gli huomini. Ma voglio che passiamo piu inanzi, et che mostriamo, che gli huomini sono obligati, et sforzati di amar le donne, et che le donne non sono tenute à riamarli,

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se non per semplice cortesia: et oltre à questo voglio, che dimostriamo, che la beltà delle donne sia cagione, che gli huomini, ch temperati sono, s’inalzino per mezzo di quella, e delle altre creature nella cognitione, et alla contemplatione della diuina Essenza. [Gli huomini sono sforzati di amar le Donne.]Da queste cose tutte saranno pur vinti, et superati gli ostinati Tiranni delle donne, iquali ogni giorno piu insolentemente calpestano le dignità loro; che la piacevolezza, et la leggiadria de’ delicati volti sforzi et costringa à lor dispetto ad amarle, è cosa chiarissima, et però questo à me sara leggierissima impresa; percioche se il bello è di sua natura amabile ò ver degno di essere amato, come racconta Marsilio Ficino nl convivio di Platone con tai parole. Pulchritudo est quidam splendor humanus ad se rapiens animam, et amabilis sua natura. Sarà necessitato l’huomo ad amar le cose belle: ma che più belle cose ornano il mondo delle donne? [Bellezza che cosa sia.] niuna in vero, niuna, come ben dicono tutti questi nostri contrarii, che affermano lampeggiar ne lor leggiadri volti In gratia, e lo splendor del paradiso, et da questa beltà sono sforzati ad amar quelle: ma non già elle sono tenute ad amar gli huomini: perche il men bello, ò il brutto, non è per sua natura degno di essere amato. Ma brutti sono tutti gli huomini à comparatione dico delle donne. non sono adunque quelli degni di essere riamati da loro. Se non per la sua cortese, et benigna natura; alle quali talhora par discortesia à non amar qualche poco l’huomo amante. Cessino adunque le querele, i lamenti, i sospiri, et le esclamationi de gli huomini, che vogliono al dispetto del mondo essere riamati della donne, chiamandole crudeli, ingrate, et empie: cosa da mouer le risa, delle quali cose si veggono pieni tutti i libri Poetici. [La beltà delle Donne guida l’huomo alla contemplatione di Dio.] Che la beltà delle donne guidi alla congitione di Dio, et alle superne intelligenze, et dimostri la via di andare al Cielo, lo manifesta il Petrarca dicendo, che nel moto de gli occhi di madonna Laura vedeua un lume, che lì mostraua la via del Cielo, et più soggiunge.

E per lungo costume
Dentro la doue sol con amor seggio
Quasi visibilmente il cor traluce,
Questa è la vista, ch’al ben far m’induce
E che mi scorge a glorioso fine:
Questa sola dal volgo m’allontana.

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Et piu sotto.

Io penso se la suso
Onde il motore eterno delle stelle
Degnò mostrar del suo favoro in terra
Son l’altre opre si belle,
Aprasi la prigione, ov’io son chiuso.

Dalle quali parole si comprende che diceva il Petrarca tra se, in questo modo. Se questa unica bellezza, ch’io scopro ne sfavillanti, et gratiosi lumi di madonna Laura è tanto degna, et riguardeuole, che deue poi essere quella, che è in Cielo? onde ciò considerando, egli desiaua la morte. Et in uno suo sonetto ringratia la fortuna, ò Dio, che lo ha fatto degno di veder Laura, per mezzo della quale egli s’inuiaua al sommo bene dicendo.

Da lei ci vien l’amoroso pensiero,
Che mentre il segui al sommo ben t’inuia,
Poco prezzando quel, ch’ogn’huom desia.
Da lei vien l’animosa leggiadria,
Che’al Ciel si scorge per destro sentiero.

Et in un altro.

Lei ne ringratio, e’l suo alto consiglio,
Che co’l bel viso, e co’soaui sdegni
Fecemi ardendo pensar mia salute.

Et poco dopo dice.

Quel sol, che mi mostrava il camin destro
Di gite al Ciel con gloriosi passi.

Et Dante in una sua ballata dice, che guardando il viso a Madonna diuerrà beato à guisa d’angelo.

Poi che satiar non posso gli occhi miei
Di guardare a Madonna il suo bel viso
Mirerol tanto fiso,
Ch’io diuerrò beato lei guardando
A guisa d’angel, che di sua natura
Stando su in altura
Diuien beato sol vedendo Dio:
Cosi essendo humana creatura
Guardando la figura
Di questa donna, che tene il cor mio
Potria beato diuenir qui io.

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Et il Caro parlando con Amore in una sua canzone dice.

Chi ne guida qua giù, chi n’erge al Cielo?
Poi ch’ambi i nostri poli
Atra nebbia c’inuoli
Con queste scorte Amor di zelo, in zelo.
D’una in altra chiarezza
Ne conduce à mirar l’eterno sole;
Cosi mortal bellezza
Che da lui viene, à lui par che ci deste:
Cosi lume celeste
Che di la sù deriua, qui sì cole
Hor chi s’inalza, e chi d’alto ci scorge
Se’l nostro amato sol lume non porge.

Et in un sonetto suo si legge.

Ben veggio come spira, e come luce
Che con la rimembranza, e col desio
De suoi begli occhi, e del suo dolce riso
Il mio pensier tanto alto si conduce,
Che le s’appressa, e scorge nel bel viso
La chiarezza de gli Angeli, e di Dio.

Et Bernardo Tasso fa una canzone intiera dimostrando, che la bellezza è una scala da gire al Cielo, et poi soggiunge.

O nobil Donna, ò mio lucente sole,
Scala da gir al Ciel salda, e sicura,
Sol de la vita mia dolce sostegno:
Per altro non vi diè l’alma natura
Rare virtù, bellezze uniche, e sole
Se non per arricchire il mondo indegno
E mostrarne un disegno
De la bellezza angelica, e diuina.

Et il Molza ne suoi sonetti mostra il simile. Et il Guidiccioni in un suo bellissimo sonetto dice l’istesso. ma io ve ne porcerò solamente tre rime.

E’l fa perche la mente oltre passando
D’una in altra sembianza à Dio s’unisca
Non gia per van desio com’altri crede.

Et qual è quello, cosi rozzo Poeta, che non facci apertissimo, che la beltà sia una via, et una strada, che vi guida à diritto camino à

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contemplar la divina Sapienza? (anchor che il Passi scrivendo alla cieca, ardisca di affermare, che la beltà sia cagione d’infiniti mali) se però sarà guardata, come bisogna, con dritto occhio lontano da pensieri lasciui, et vani, come lasciò scritto il Petrarca.

Da volar sopra il Ciel gli hauea dat’ali
Per le cose mortali
Che son scala al Fattor, chi ben l’estima

Io non solamente la chiamarei scala: ma io credo, ch’ella sia l’aurea catena d’Homero, laqual può sempre alzar le menti à Dio, et ella per niuna cagione può essere tirata in terra; percioche la bellezza, non essendo cosa terrena, ma diuina, et celeste, sempre alza à Dio, da cui deriua; onde sono a nostro proposito questi versi del Petrarca.

D’una in l’altra bellezza
M’alzo mirando la cagion primiera.

Che cosi vuol dire. Io ascendo di bellezza, in bellezza, cioè di anello in anello, et mi fermo nella cagione primiera. il primo anelo di questa nostra dorata catena, che scendendo dal Cielo, rapisce dolcemente le anime nostre, sarà la corporal bellezza, laquale mirata, et considerata con la mente per lo mezo de gli occhi esteriori, gode, et in lei mediocremente si diletta. ma poi vinta da somma dolcezza salisce al secondo anello, et mira, et vagheggia con gli occhi interni l’anima, che adorna di celesti eccellenze informa il bel corpo. ma non si fermando in questa seconda bellezza, ò anello, auida, et desiderosa di più viua beltà, quasi amorosa fiamma salisce al terzo anello, facendo una comparatione tra le terrene bellezze, et le celesti, et s’inalza al Cielo, et quiui contempla gli angelici spiriti et all’ultimo questa mente contemplante si affisa al gran Sole de gli Angeli, et del mondo; come à quello, che sostiene la catena; onde l’anima in lui godendo si fa felice, et beata. Per hora non voglio dire altro di questa catena; ma forsi col tempo farò più lungo discorso. con queste ragioni io credo di hauere chiaramente mostrato, che la beltà d’un leggiadro volto, accompagnato da gratiosi sembianti guida ogni huomo alla cognitione del suo

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fattore: ò che dono, ò che doti, ò che Maggioranze sono queste delle donne: pio che con la lor bellezza puo alzare le menti de gli huomini a Dio. Chi potrà mai a pieno lodarti ricchissimo thesoro del mondo tutto? Io confesso, che s’io havesse tante lingue, quante foglie vestono gli arbori nella ridente primavera, overo quanta arena è nella sterile, et infeconda Libia, io non potrei incominciar a dar principio alle tue lodi; percioche non solamente la beltà inalza a Dio le fredde menti; ma rende il più ostinato, et crudo cuore humile, et mansueto. Che piu? ò meraviglia, il rozzo orna di piaceuoli costumi, il sciocco rende prudente, et saggio, et in somma tutti i Poeti hanno poetato mossi dalla beltà donnesca: onde il Petrarca nella Canzone, che incomincia. [La Beltà è stata cagione di Poetare.] Quell’antico mio dolce empio Signore, dimostra ch’ella fù cagione di ogni sua virtù dicendo.

Salito in qualche fama
Solo per me che’l suo inteletto alzai
Ov’alzato per se non fora mai.

Percioche per lodar le diuine bellezze di madonna Laura compose il suo poema tanto dal mondo stinato, che se ella non l’hauesse con la sua bellezza spinto a tanto honore, sarebbe stato, come dice Amore nell’istesa Canzone.

C’hor saria forse un roco
Mormorator di corte, un huom del vulgo.

Et Speron Speroni confessa, che i Poeti hanno dalle donne la voce, et l’intelletto dicendo.

Ch’io vi veda adunar la bella schiera
Di tutte queste vostre amate Diue
Che danno a poetar voce e’ntelletto

Et l’istesso hanno fatto gli altri poeti, i quali erano tenuti a lodar et inchinar la Donnesca beltà: et però viuono, anchor che morti. In somma un bel volto ha vinto i più superbi, et orgogliosi Regi del mondo, et piu scientiati, et ornati di lettere, che habbino insegnato le cagioni delle cose. Onde il Tasso disse nel Torrismondo queste parole, dimostrando la maestà, et la grandezza di questo dono.

Questa bellezza
Proprio ben, propria dote, e proprio dono
E’de le donne ò figlia, e propria laude

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Et agguagliam, anzi vinciam con questa
Ricchi, saggi, facondi, industri, e forti
E uittorie, e trionfi, e spoglie, e Palme
Le nostre sono, e son piu care, e belle
E maggiori di quelle, onde si uanta
L’huom che di sangue è tinto, e d’ira colmo.

O come egli ha mostrato in queste poche parole le marauigliose operationi della bellezza, che han domato non solo l’alterezza de gli huomini, ma anco de gli Dei de gli antichi. io vorrei pur alzarti, et lodarti: ma mi mancano le parole, et quanto più spiego l’ali de miei troppo arditi pensieri, tanto più ce ne restano: onde io dirò col Petrarca.

Tacer non posso, e temo non adopra
Contrario effetto la mia lingua al core,
Che uorria far honore
A la sua donna, che dal Ciel n’ascolta
Come poss’io se non m’insegna Amore
Con parole mortali aggugliar l’opre
Diuine.

Et ben posso dire, ch’io scemo sue lodi parlando. Onde è meglio ch’io taccia, et ch’io l’inchini, trà me stessa stupida la uagheggi, et l’ardori come il medesimo.

L’ardoro, e inchino come cosa santa.

Concluderemo adunque, che le Donne essendo più belle de gli huomini, sieno altre si più nobili di quelli, per diuerse ragioni; prima perche in un fiorito, et delicato volto si scorge la potenza del fattore, et oltre a ciò alza le menti alla diuina Bontà. È ella per sua natura amabile, et allettatrice d’ogni cuore, ancor che rigido, et aspro. Et finalmente è il bello ornato, et pieno di bontà, essendo la bellezza un raggio, et uno splendore della bontà, come dice Marsilio Ficino. Omne enim pulcrum est bonum. Et cosi dice Speusippo, et Plotino. Et è cosa chiara appresso d’ognuno, che rare volte una pessima anima non habita in un gratioso, et leggiadro corpo. onde la natura, conoscendo la perfettione del sesso femenile, produce piu copia di donne, che di huomini, come quella che sempre ò per lo più genera in tutte le cose quell, che è migliore, et piu perfetto. et però mi pare, che Aristotile contra ogni ragione, et etiandio contra la propria opinione, laqual’è, che la natura

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operi ò sempre, ò per il più cose più perdette, voglia che, le donne sieno imperfette in comparatione de maschi: anzi io direi che producendo la natura minor numero di maschi, che di donne, che gli huomini siano men nobili di quello del men nobil sesso, non desiderando la natura di generar grande, et copiosa quantità. et questo basti della singular natura del sesso femenile.

Delle ragioni tratte dalle nobili operationi, et da i detti
de gli huomini verso le Donne. Cap. IIII

ANCHORCHE gli huomini biasmino, et infamino con la garrula, et mordace lingua tutto il giorno il donnesco sesso, et cerchino con ogni modo possibile di offuscar le sue nobili attioni, nondimeno à lor mal grado sono sforzati dal rimorso della propria consienza, che dalla verità sola si lascia imperare, di honorare, et con detti, et scritti inalzar fino al Cielo le meriteuoli donne, le quali cose dimostrano senza dubbio alcun la maggioranza; et superiorità di esse, che gli huomini honorino le donne si vede continuamente in qualunque luoco et occasione; percioche l’inchinarsi, et il dar loro la strada nel caminare, il leuarsi la berretta di capo, il seruirle alle tauole à guisa de serui, accompagnarle col capo scoperto per le vie, il leuarsi da sedere, et concedere la sedia ad esse, sono tutti segni euidentissimi di honore, et questo non solamente è fatto alle donne da gli huomini bassi, et plebei; ma etiandio da Duchi, et Regi, i quali salutano scoprendosi il capo, non dirò le Principesse; ma anchora le donne di modiocre conditione, et voglio anchor che sia superfluo addure duoi essempi de Principi, l’uno sarà il Rè di Francia, che con gli inchini, et col Saluto honora ogni Dama, l’altro sara il Re di Spagna pur potentissimo, il quale incontrando donna di stato nobile, si lieua la barretta, ò capello di capo, cosa che non fa adalcuno huomo soggetto; anchor che sia Principe. Questo scoprirsi il capo, leuarsi in piedi, et dare il luoco sono certamente segni, et argomenti di honore; se sono segni di honore, adunque le donne sono piu nobili de maschi, che le honorino, percioche sempre è più degna la cosa honorata di colui, che l’honora, non honorando alcuno un’altro, s’egli non conosce, che colui habbia qualche dote ò

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qualità, che à lui sia superiore. Come lasciò scritto Aristotile nel 4. del l’Ethica con tai parole. Omne quod aliquo excellit, est honorabilius. non essendo altro adunque l’honore, che premio di virtù, che in alcuno risplende, ò di riceuto benefitio, si come dice egli nell’ottauo dell’Ethica al capitolo 16. in modo tale l’honor est virtutis premium et benefitii. onde è necessario concludere, che le donne sieno piu nobili de gli huomini: poi che da loro honorate sono. ma non solamente le gia dette attioni sono aperti inditii di honore; ma etiandio gli ornamenti à quelle concessi; percioche à loro è lecito vestirsi di propora, et di panno d’oro con varii ricami, fregiati di perle, et di diamanti, et ornarsi il capo con vaghi ornamenti d’oro con smalti finissimi, et pietre pretiose, le quali cose sono vietate a gli huomini, eccetuando però, quelli che hanno dominio. ma se alcuno altro ardisse vestirsi con panni d’oro, ò altro simile viene beffato, et mostrato a dito per huomo leggiero, o per un buffone solenne. concessero gli antiche questi ornamenti alle donne, et in particolare i Romani ne fecero decreti, et leggi; essendo loro prohibiti per uno urgentissimo bisogno de denari nella guerra contra Cartaginesi dalla legge Oppia, finita la guerra furono di nuovo concessi alle donne, sforzati però da quelle, che erano gelose della lor dignità: ma non senza gran pericolo di qualche sinistro auuenimento, et che questo sia vero, udite che dice Tito Liuio nella 4. Deca al lib. 4. à car. 577. Non potevano le matrone essere tenute in casa per rihaver la licenza di potar gli ornamenti, ne dall’autorità, ne dal rispetto, ò commandamento de mariti, che non empiessero tutte le strade della Città, tutte le bocche delle piazze affrontando gli huomini, che loro dovessero rendere i tolti ornamenti. Cresceva ogni dì questa frequenza di donne, percioche non solamente le Romane: ma le donne delle terre, et vicine ville si ragunauano, et ardiuano di essortare i consoli. Onde M. Catone nella sua oratione contra le donne disse che dubitava di seditioni ciuili, et di tumulto se non si raffrenaua un tanto orgoglio. Parlò contra costui Lucio Valerio Tribuno della plebe con infinite laudi delle donne. Il giorno seguente molto maggior numero di donne venne in publico, et tutte in schiere circondarono le case de Tribuni, i quali impediuano la legge, et non cessarono di romoreggiare fin che non fù quella cassata, et annullata da tutti i patritii fatti capaci della ragione, conosciuta la nobiltà, et i meriti delle donne. Laqual legge fù

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poi sempre osseruata, et si osserua in ogni Città, et nell’Alamagna, oue non è lecito ad huomo alcuno vestirsi di seta, se non è nobile; ogni donniciola si adorna con drappi di seta, et varie sorti di colane, et questo si usa in ogni luogo del mondo. Sono auunque le Donne honorate con l’uso de gli ornamenti, i quali auanzano di gran lunga quelli de gli huomini, come si puo vedere, et è cosa merauigliosa il vedere nella nostra Città la moglie di un Calzolaio, o di un beccaio, ouero di un fachino vestita di seta con catene d’oro al colo, con perle, et annella di buona valuta in dito, acompagnata da un paio di donne, che la sostentano da ambo i lati, et le danno mano; et poi all’incontro vedere il marito tagliar la carne tutto lordato di sangue di bue, et male in arneso, ò carico come un Asino da soma vestito di tela, della qual si fanno i sacchi; à prima vista pare una defformità da fare stupire ogn’uno il vedere la moglie vestita da gentildonna, et il marito da huomo vilissimo, che souente pare il suo seruo, ò fachino di casa; ma chi poi bene ciò considera, lo ritroua ragioneuole; perche è necessario, che la donna, ancorche sia vile, et minima, sia di tali vestimenti ornata per le sue eccellenze, et dignità naturali, et che il Maschio come seruo, et Asinello, nato per seruir lei meno adorno se ne stia. Sono state le donne, oltre à tutte le cose già narrate, etiandio da detti de gli huomini honorate con titoli eminenti, et grandi, et sono da loro usati continuamente, si come quando le femine, con voce commune à tutte, chiamano Donne, percioche la voce Donna non significa altro, che Signora, et padrona, come habbiamo mostrato nel primo capo; et però quando le chiamano, le honorano anchor che non vogliano, chiamandole Signore, benche sieno vili, et di bassissima conditione, et in vero per esprimere la nobiltà di un tanto sesso, i maschi non poteuano ritrouare il piu accomodato, et conueniente nome di questo di Donna, il quale mostra immediatamente la superiorità, et la precedenza di quelle sopra gli huomini; perche chiamandole essi Padrone restano neccessariamente sudditi, et serui. le hanno chiamate oltre aciò bene spesso con altri nomi; et benche quelli sieno di alcuni huomini particolari poco importa, poi che sono stati e de più sapienti, e de piu potenti del mondo, percioche questi tali sono quelli, che determinano à chi si conuengano le dignità et le precedenze; perche non sarebbe ò pena del vuolgo sciocco, et ingnorante, se bisogno fosse di dar titoli nuoui ad Imperatori, ò a Regi, di ritro-

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-varli, essendo piu buona la plebe di empir di cibo il Sacco, che di discorrere intorno a tai cose. I nomi denotanti sublimi Eccellenze sono, che la donna è gloria dell’huomo, furono date etiandio alle donne da Arist. anchor che nemico, varie precedenze con opinione di biasmarle; percioche diede loro, come virtù propria, la diligenza, cosa lontana dall’huomo, come si legge nel lib. I. dell’Economica al cap. 3. con tai parole. Mulier ad sedulitatem optima, at vir deterior. Da queste parole si puo comprendere quanto egli errasse in altri luoghi. Oue dice, che le Donne sono volubili, et mobili, ricercando la diligenza fermezza, et stabilità di mente. Dice anchora, che ella è conseruatrice de beni della fortuna nel medesimo lib. In molti capi, la qual virtù di conseruare ò è piu nobile dell’acquistare, ò almeno non li è inferiore. Come egli narra nel libro della cura famigliare al cap.6. in questo modo. Nam non minus ad seruandum quam ad comparandum idoneum esse oportet, alioquin vanus fuerit omnis labor comparandi. Et chi lo conserua con le sue rare virtù. la donna. Suppeditat enim masculus necessaria. Et femina, conseruat ea. Affermò etiandio il buon Compagnone, che le Donne sono piu perspicaci, et Sagaci de maschi nel lib.9. dell’Historia de gli Animali al cap.I. quanto utile sia la perspicacia dell’ingegno, non accade, che io m’affatichi in raccontarlo, scoprendosi in quella la sottilezza dell’intelletto, et il buon giuditio, come dice il medesimo nel 6. dell’Ethica al Cap.10. ma non solo piu sagaci, ma molto piu astute de gli huomini le giudicò. dicendo Sunt fœminæ maribus astutiores. Ilqual ornamento dell’anima per la sua attiuità, et eccellenza vien chiamato da Latini. Calliditas. dote sempre giunta con la prudenza, come nell’udecimo Cap. del libro 6. dell’Ethica egli mostra. Sono etiandio piu vigilanti, dicendo, Ad hæc vigilantiores. Et de costumi piu mansuete, et benigne de maschi, come nel medesimo luogo si legge. Sunt enim fœminæ moribus mollioribus, mitescunt enim calerius, et magis misericordes. Cose, che non si trovano nell’huomo, participando piu della fiera, che dell’huomo; et però più feroci. essi sono sanguinolenti, et pertinaci, et che credete voi che importi l’essere misericordioso. Udite quello, che dice Arist. nella sua Fisonomia. Oue egli ragiona de compassioneuoli. Sunt misericordes ingeniosæ, et callidæ, et poco dopo

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soggiunge. Misericors est sapiens, et modestus, immisericors, insipiens, et inuerecundus, cioè sono coloro, che si dogliono de trauagli altrui ingegnosi, et saggi, et modesti. Onde si può dire, che essendo la donna piu misericordiosa dell’huomo, per consequenza sia piu saggia, piu dotata d’ingegno, et più modesta di lui. racconta il medesimo nel lib. nono dell’Historia de gli Animali al cap. sopracitato una cosi bella strauaganza quanto imaginar si possi, et indegna di lui, che dico indegna? anzi nò, poi che in altri luochi ne dice delle somiglianti, cio è, che le donne sono men vergognose de maschi, o che ridiculosa sentenza, le cui parole sono. Impudentior maribus; si che questa è contra la commune opinione di ogn’uno, et contra l’esperienza. affaticateui pure Aristotelici à stiracchiar, à dichiarare con mille chimere la sua opinione, et tanto piu ch’egli in altri luochi il contrario afferma. io non mi merauiglio che ciò racconti; percioche amaua con troppo fervore il proprio sesso, et nel medesimo capo si lasciò uscire dalla bocca, che le donne piu facilmente si lasciano ingannare de maschi dicendo. quinetiam facilior decipi. Non si ricordando, che poco prima haueua detto che sono piu astute, et sagaci, et insidiose de gli huomini: tutte doti, che si oppongono all’inganni, et alle insidie antiuedendo il sagace et astuto ingannatore le altrui fraudi. onde sarebbe di bisogno, che l’huomo fosse delle donne piu sagace; ricercandosi ad ingannare uno astuto, uno astuto, et mezzo. Che dite? io non credo che Demostene lo potesse difendere da questo suo errore: ma hormai lasciamolo da parte, come maledico. Platone quanto celebra le donne, in mille luochi? Licurgo come l’essalta? Similmente tutti i buoni Poeti, et honorati scrittori le hanno ad onta de maligni inalzate fino al Cielo, et è piu conosciuta la nobiltà, et eccellenza loro da Francesi, et Spagnuoli che da gli Italiani, concedendo loro l’heredità de feudi; percioche succedono non solamente ne Ducati, ma ne Regni, come à punto fanno i maschi, et non solamente de Regni, ma nelle monarchie anchora, come la sorella del Re Catolicho di Spagna può succedere alla monarchia del mondo nuovo, oltre il Dominio di molti altri Regni. Che succedano ne Feudi, si vede tutto il giorno in Francia, et in Ingilterra. Conoscono etiandio la maggioranza loro gli. Alemani, i quali lasciano, che le donne faccino tutti i traffichi di bottega, et ogn’altro negotio mercantile nelle lor Città, stando essi nell’otio continuo, et nelle stuffe et il

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simile si fa nella Fiandra, et nella Francia: ma nella Francia, non possono gli huomini disporre pur di un quattrino, se non lo addimandano alla moglie, et le donne hanno cura non solamente de traffichi delle botteghe, et del vendere: ma di tutte l’entrate rusticali; che vi pare? Sono pur le donne, come io ho prouato conosciute da gli huomini per piu nobili di loro, già che di bocca propria lo confessano. che resta più di narrare? potrebbe forsi dire alcuno ostinatello, desidrerei per leuar ogni dubitatione, che fosse nata intorno à ciò una sentenza reale autentica da un Re, o d’altro grande huomo, publicata con l’interuenimento di molti saggi, et prudenti huomini, alla quale poi in tutto, et per tutto io mi acqueterei, io voglio sodiffare anco à costui; benche non sia obligata; accioche si lieui ogni volontà, et occasione di dubitare, et udite. Scriue il Tarcagnota, che dopo, che il regno di Persia toccò à Dario, egli fece in conuito magnifico, conuniente ad in tanto Rè, qual’egli era, à i gouernatori di cento, e vintisette Provincie à se soggette, dopo il sontuoso conuito propose à i suoi nobili camerieri, i quali erano tutti di stirpe regia, un dubbio, promettendo grandissimi doni, a chi sciolto l’hauesse. Il dubbio era questo, qual di queste quattro cose credeuano, che maggior forza hauesse ò il Vino, ò il Rè, ò la Donna, ò la Verità. Colui, che primo parlò, lodò molto il vino, come quello, che volge, e riuolge senza differenza alcuna il ceruello de gli huomini, sieno regi, ò serui, facendo lieti i miseri, i timidi audaci, et forti, et quello che porge maggior merauiglia è, che fa poco temere la morte. L’altro, che in fauore del Re ragionò, lodò sommamente la Potestà regia; si perche non ha superiore, come perche l’ubedisca l’huomo animal perfetto, et che si facci le nationi straniere soggete, uguali le cime de monti al piano, torca il corso de fiumi, et finalmente stia nelle sue mani la vita, e la mote altrui, il terzo, che in fauore dalla Donna parlò disse. Senza dubbio la forza del vino è grande, maggior è quella del Re, ma assai, et molto assai piu quella della Donna; percio che ella allieua, et partorisce i Regi, che tanto possono, et partorì colui, che ritrouò il vino. L’huomo à gli huomini serue contra sua voglia; ma con tutto il cuore alla Donna serue, et ubedisce, et à lei desidera di compiacere, e per lei raguna le ricchezze, et à lei fino il cuor d onna, et per lei di se, non che de gli amici, et di tutto il resto d el mondo mette in oblio, et da lei finalmente dipende, et sempre è

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apparecchiato à fare quanto ella vuole, et lascia il Padre, la madre sua con quanto al mondo possiede, et soggiunse che non solamente si ricordaua hauer letto, che molti Regi, et Heroi haueuano servito à donzelle, et per loro amore essersi vestiti da donne, e lasciatisi comandare; ma che con gli occhi propri haveva veduto la figliuola di Robezaci dare con la Palma della mano sopra la faccia di un grandissimo Re, e torli la corona di testa, et à se parola, et quel Re stare tutto ansio per placarla, et humile, e quieto per sodisfarla, conoscendola per sua Signora. Come hebbe detto questo della potenza della donna. Soggiunse tutte le cose ò Re, che sono state dette, sono vere, ma se con la forza della Verità si comparano, sono nula. fù da i cento, e vintisette governatori delle Provincie, e da molti dotti, e potenti huomini sommamente lodato il ragionare di costui, et dal Re istesso oltre ogni credenza, ilquale leuandosi dal suo seggio dorato abbracciollo, e baciollo, et se lo fece sedere à lato, e non solo li donò gran quantità d’oro, e d’argento; ma al quante Cittadini e grandi honorati appresso se stesso.

Delle Nobili attioni, et Virtù delle Donne, le quali quelle
de gli huomini di gran lunga superano, come con
ragioni, et essempi si proua. Cap. V.

POCO honore à me risulterà nel prouare con ragioni, et essempi, che’l donnesco sesso sia nelle sue attioni, et operationi più singulare, et eccellente del maschio. dico, che poco honore acquisterò; percioche il prouarlo sarà più facile, che non sarebbe à manifestar, che’l sole è il più lucido corpo del mondo, ò che la dilettosa primavera sia Madre delle frondi, et de’ fiori. [Operationi de la specie l’umana da che dipendano.] tutta via per seguitar l’ordine già da me incominciato et insieme per dar lume à certi non dirò huomini: ma più tosto ombre d’huomini; accioche lasciano la pessima ostinatione loro, rauuedendosi del loro errore, porterò in questo capo per ciò prouare inuincibili ragioni, et ne gli altri me ne discenderò à gli essempi delle donne dignissime di Poema chiarissimo, et d’Historia. Dico adunque che le operationi di tutta la specie humana dipen

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dipendono ò dall’anima, ò dal corpo, ò da tutti dui questi principii uniti insieme. Et etiandio affermo, che quanto più tutte queste cose saranno perfette, tanto piu nobili, et singolari dipenderanno da lor le attioni. Credo, che tutte queste suppositioni sieno verissime. non è vero ò huomini? Et chi lo potrebbe negare? adunque io sarò vincitrice: percioche le donne hanno più nobili anime, et più eccellenti corpi de maschi. onde più nobile è tutto il composto; si come si vede nello splendore della bellezza. Che in esse si contengono tutti questi doni, ho prouato chiaramente nel capitolo antecedente. Adunque da loro risulteranno piu pregiate attioni, che da gli huomini. Ma è cosa neccessaria, ch’io alquanto mi diffonda intorno alla natura del corpo; percioche dalla sua temperatura dipendono quasi tutti i vitii, et diffetti, lasciandosi la ragione bene spesso, benche padrona, abbagliare, et accecare da sensi. Et perche credete voi? Che alcuni sieno instabili, altri mangiatori, et crapuloni, altri viui, et audaci, altri sfrenati, et dati in tutto alla concupiscenza, et a’ piaceri. io credo, si come affermano tutti gli scritori, che raccontano i costumi delle genti, et come per esperienza si vede per il più che i paesi, oue nascono, et la temperatura de corpi ne sia origine, et cagione: percioche un corpo temperato, come è quello delle donne, è molto atto alle operationi moderate dell’anima. Cosa che non è nella calda temperatura de maschi, come dimostreremo al luogo suo. Che le donne sieno di tal natura, argomentano le carni morbide, et delicate, et il colore candido col vermiglio misto, et per finirla tutta la compositione del corpo di gentilezza, è virtù et proprio albergo: ma se con queste doti, et merauiglie à loro dalla natura date s’essercitassero nelle scienze, et nell’arte militare, come fanno tutto il giorno i maschi, farebbono à loro inarcarle le ciglia, et rimanere stupidi, et ammirati. Et però l’Ariosto conoscendo questo disse. [Essercitio rende perfetti l’anima et il corpo.]

Tanto il lor nome sorgeria, che forse
Viril fama à tal grado unqua non sorse.

Ma non accadea, che ci mettesse quel forse; percioche sicuramente sarebbono vincitrici in ogni honorata, et egreggia attione. mostra però l’istesso autore nella prima stanza del Canto. 37. che sono riuscite felicissime in quelle opere, alle quali si son date dicendo.

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Se come in acquistar qualch’altro dono
Che senza industria non può dar natura
Affatichate notte, e di si sono
Con somma diligenza, e lunga cura
Le valorose donne, e se con buono
Successo, n’è uscit’opra non oscura.

Et nel Canto 20. si legge

Le Donne son venute in eccellenza
Di ciascun’arte, oue hanno posto cura,
E qualunque à l’Historie habbia auuertenza
Ne sente ancor la fama non oscura

Et Moderata Fonte, che in qualche parte conobbe la eccellenza di un tanto sesso, ci lasciò scritto tali parole.

Sempre s’è visto, e vede pur ch’alcuna
Donna v’habbia voluto il pensier porre
Ne la militia riuscir piu d’una
E’l pregio, e’l grido a molti huomini torre:
E cosi ne le lettere, e in ciascuna
Impresa, che l’huom pratica, e discorre
Le Donne si buon frutto han fatto, e fanno
Che gli huomini a inuidiar punto non hanno.

Ma poco sono quelle, che dieno opera à gli studi, ouero all’arte militare in questi nostri tempi; percioche gli huomini, temendo di non perdere la signoria, et di diuenir serui delle donne, vietano à quelle ben spesso ancho il saper leggere, et scriuere. Onde dice quel buon compagno d’Aristotile; debbono in tutto, e per tutto le donne ubedire a’ maschi, ne cercar quello, che si facci fuori di casa. Opinione sciocca, et sentenza cruda, et empia di huomo Tirranno, et pauroso. Ma voglio che lo scusiamo: percioche essendo egli buono, era cosa conueniente, che dediderasse la grandezza, et la superiorità de gli huomini, et non delle donne. Ma Platone il grande huomo, in vero giustissimo, et lontano dalla Signoria sforzata, et violente, voleua, et ordinaua, che le Donne si

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essercitassero nell’arte militare, nel caualcare, nel giucare alla lotta, et in somma, che andassero à consigliare ne’ bisogni della Republica. Et che questo sia il vero, cosi si legge nel libro delle leggi al Dialogo. Fœmineum genus eruditionis, et aliorum studiorum societatem cum virili genere habere debet. Et nel libro della Republica al settimo Dialogo. Cosi scriue. Fœminæ non minus, ut viri in Republica virtutu m ornandę, ut quę pręstantes natura sunt, principatum gerant equaltier cum viris. O quante ne sarebbono, che con più prudenza, essempio di vita, et giustitia gouernerebbono gli imperii, et meglio, che non fanno molti, e molti huomini. non solamente fù Platone di questa opinione il saggio; ma molti, et molti altri innanzi à lui, come Licurgo. onde egli dice nel libro delle leggi al Dialogo settimo. Fœminis non minus, quam viris decoram esse equestrem disciplinam, et gymnasticam ex veteribus narrationibus persuasus sum. Dalle quali parole si vede, che innanzi la venuta di Platone in molti luoghi le donne si essercitauano nell’arte militare. Et poco dopo afferma essere opinione sciocca quella. De tempi suoi, laquale non permetteua alle donne le medesime cose, che gli antichi lor imponeuano, et però dice. Stolidissimè omnium nuuc in regionibus nostris censeo fieri, quod non omni robore uno consensu mulieres, ac viri eadem studia tracetent. O Dio volesse, che à questi nostri tempi fosse leoito alle donne l’essercitarsi nelle armi, et nelle lettere. che si vedrebbono cose merauigliose, et non piu udite nel conseruare i regni, et nell’ampliarli. Et chi sarebbe piu pronto di fare scudo con l’intrepido petto in difesa della Patria delle donne? Et con quanta prontezza, et ardore si vedrebbono versare il sangue, et la vita insieme in difesa de maschi. Sono adunque, come ho prouato le donne piu nobili nelle operationi, che gli huomini non sono. Et se non si adoprano in questo, auuiene; perche non si essercitano, essendo ciò à loro da gli huomini vietato, spinti da una loro ostinata ignoranza, persuadendosi che le donne non sieno buone da imparare quelle cose, che imparano essi. io vorrei, che questi tali facessero questa esperienza, che essercitassero un putto, et una fanciulla d’una medesima età, et ambidue di buona natura, et ingegno nelle lettere, et nelle armi, che vedrebbono in quanto minor tempo più peritamente sarebbe instrutta la fanciulla del fanciullo. Et anzi lo vincerebbe di gran lunga, laqual cosa lasciò

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scritto Moderata Fonte nel suo Floridoro: ma ben’è vero, che ella si contentò, che diuenissero eguali dicendo.

Se quando nasce una figliuola al Padre,
La ponesse col figlio à un opra eguale
Non saria ne le imprese alte, e leggiadre
Al frate inferior, ne disuguale;
O la ponesse fra l’armate squadre
Seco, ò à imparar qualche arte liberale;
Ma perche in altri affar viene alleuata,
Per l’education poco è stimata.

Il non essercitarsi adunque è cagione, che non si vedono tutto il giorno i fatti memorabili, et Heroici delle donne; si come anco non si vedono quelli di molti huomini per questa istessa cagione. Horsu voglio discendere à gli essempi, ne quali io sarò breue, percioche ho fuggita la fatica di voler leggere tutte l’Historie, perche gli scrittori, per essere huomini inuidiosi delle belle opere delle donne, non hanno raccontate le loro egreggie attioni, ma lasciate sotto silentio, avvertendo i Lettori, che nel modo di dire potrebbono esser molti errori adducendo io l’istesse parole de gli Historici, iquali poco curano della lingua, manifestò l’Ariosto nel Canto 37. in questo modo la bugia de gli scrittori.

E che per se medesime potuto
Hauessin dar memoria a le lor lode
Non mendicar da gli scrittori aiuto
A i quali astio, et inuidia il cor si rode.
Che’l ben, che ne pon dir spesso è taciuto,
E’l mal quanto ne san, per tutto s’ode:
Tanto il lor nome sorgeria che forse
Viril fama a tal grado unqua non sorse.

Non basta molti di prestarsi l’opra,
E far l’un l’altro glorioso al mondo
Ch’anco studian di far, che si discopra
Ciò, che le donne hanno fra lor d’immondo;

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Non le vorrian lasciar venir disopra
E quanto pon fan per cacciarle al fondo
Dico gli antichi, quasi l’honor debbia
D’esse il loro oscurar, come il sol nebbia.

Ma non hebbe, e non ha mano, ne lingua
Formando in voce, ò descriuendo in carte,
Quantunque il mal quanto può accresca, e impingua
E minuendo il ben va con ogni arte
Poter però, che delle donne estingua
La gloria sì, che non ne resti parte
Ma non già tal, ch’appresso al segno giunga
Ne ch’anco se li accosti di gran lunga.

E di fedeli, e caste, e saggie, e forti
State ne son. non pur in Grecia, e in Roma,
Ma in ogni parte, ove fra gl’ Indi, e gli Orti
De l’Heiperide il Sol spiega la chioma,
De le quai sono i priegi, o gli honor morti
Si ch’a pena di mille una si noma,
E questo; perche huuto hanno a lor tempi.
I scrittori bugiardi, inuidi, et empi. [Iniquità de gli huomini]

Che vi pare fretelli, già che non volete scoprir le opere buone del donnesco sesso tanto degno, et eccellente. Et quel che è peggio, andate sempre ritrouando qualche nuoua inuentione per vituperarlo, accioche resti conculcato, et sepolto; et pur le vostre madri erano donne. Et ardite di biasmarle? cosa inhumana. già che à guisa di nouelli Neroni volete dar morte alla materna fama: ma in darno vi affaticate; percioche la verità, che risplende in queste mie mal vergate carte, le inalzerà à vostro mal grado fino al Cielo Parlo hora di quelle huomini, che non conoscono la eccellenza delle donne; percioche non mancano, ne sono mancati (se bene in poca quantità) scrittori, che priui d’inuidia hanno, celebrato il sesso femenile con ogni lor potere, anzi che hanno riputato quegli huomini essere priui d’ingegno, et di humanità, che hanno offeso le donne, ò con mano, ò con lingua. Come fù Catone il grande. ilquale riputaua coloro, che offendeuano la moglie piggiori di quelli,

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che hauesser rubbato nel tempio, et offeso li Dei. Riputaua degno di assai maggior lode colui, che si portaua da buon marito, che chi era grande in Senato. questo racconta Plutarco nella sua vita. Conosceua adunque egli, che l’huomo deue amar la donna piu della sua vita, et tenerla per la sua nobiltà fra le cose piu care, et honorate. et questo dimostra etiandio Orsatto Giustiniano Senator Veneto in un suo sonetto, ch’egli compose in lode della sua fidissima, castissima, et meritamente da lui amata consorte. Il quale è questo.
Ben ha di ferro il petto, e’l cor di sasso.
Chi può lontan da fida sposa, cara
Menar vita giamai tranquilla, e chiara;
O senz’alto dolor pur mouer passo.
Prouolo in me, che mentre hor l’hore passo
Lungi da tè mia speme, unica, e rara,
Pace non trouo: e m’è la vita amara,
D’ogni ben rimanendo igniudo, a casso.

Et in un altro sonetto mostrò, come ella è un tranquillo porto nelle sue fortune dicendo.

Benigno il Cielo à tuoi preghi risponda
Cara moglie: e in fauor ti sien li Dei.
Poi che ne le fortune ogn’hor mi sei
Tranquillo porto, e dolce aura seconda.

Si che questi tali hanno conosciuto le doti Illustri, et chiare delle donne.
Ma bastino questi due per hora; percioche s’io volessi raccontare tutti
quelli, ch’hanno lodate quelle (et à ragione), lunghissimo tempo io
consumerei. Et non descendrei à gli essempi, i quali
sarrano da me diuisi in undeci capi più,
che sarà possibile, breui.

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Delle donne scientiate, et di molte arti ornate.
Cap. Primo.

CRedono alcuni poco pratichi dell’Historie, che non ci sieno state, ne ci sieno donne nelle scienze et nell’arti perite, et dotte. Et questo appresso loro pare impossibile. ne si possono ciò dare ad intendere anchor che lo veggano et odano tutto il giorno, persuadendosi che Gioue habbia dato l’ingegno, et l’intelletto à maschi solamente, lasciandone le donne, ancorche della medesima spetie priue. Ma se quelle hanno la medesima anima ragioneuole, che ha l’huomo, come di sopra ha mostrato chiaramente, et anco piu nobile: perche anchor piu perfettamente non possono imparare le medesime arti, et scienze, le quali imparano gli huomini? anzi quelle poche, che alle dottrine attendono, diuengono tanto delle scienze ornate, che gli huomini le inuidiano, et le odiano, come sogliono odiare i minori i maggiori; et per non perdere il tempo intorno à quello, che ne’capi precedenti ho prouato, me ne discenderò à gli essempi, tra quali la prima sarà Amficlea, laquale, Porfirio nella vita di Plotino, fece nella filosofia merauigliosa riuscita. Scriue ancho Decearcho, che due potentissime donne abbandonarno le ricchezze per poter meglio seguire la dottrina del dotto Platone. Nicaula Reina di Egitto era dottissima, et per imparare un dubbio d’alcune cose difficili, et oscure, andò à ritrouare il Re Salamone, tanto in lei fù acceso il desio dell’intendere le cose secrete. Batista dignissima moglie del ‘Duca d’Urbino fù eccellentissima nel comporre orationi, et Epistole, et andò à Roma, et orò alla presenza di Papa Pio Secondo, non senza stupore, et merauiglia d’ogn’uno, et costei col suo gran giudicio resse con somma lode lo stato molti anni. Ma che diremo di Aspasia? Che fu tanto dotta ne gli studi filosofici, che fù degna maestra di quel gran Pericle, che parlando folgoraua, et tuonaua. Che di Assiotea? Laqual Apuleio, et Plutarco celebra nel libro del Dogma di Platone. Costei

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fù discepola di esso Platone, e fece grandissimo profitto ne gli studi della filosofia. Ond’ella è posta fra le donne Illustri, et segnalate. Doue rimane Cleubolina? Che fù figliuola di uno de’ sette sapienti. Della Grecia, che è sommamente lodata da Suida, da Atheneo, et da alcuni altri grandi Autori per le opere belle, ch’ella lasciò scritte. Doue Barsane? che fù moglie di Alessandro Macedone, che compose in lode di Nettuno bellissimi Hinni. Doue Cornelia moglie dell’Africano, et madre de Gracchi? Che compose Epistole piene di somma dottrina. Onde Quintiliano dice. Nã Gracchorum eloquentiæ (inquit) multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistolis traditus. Leontia giovinetta Greca fù molto chiara nelle filosofiche discipline, et non dubitò con sua gran laude di scriuere contra Theophrasto filosofo lodatissimo. Dottissima fù Dafne figliuola di Tirescial, laqual compose molti libri di poesia, delli cui versi si seruì Homero nel suo dotto Poema, come afferma Diodoro Siculo. Damone figliuola di Pitagora fece cosi gran frutto nella filosofia, che il suo proprio Padre le dedicò alcuni suoi commentarii, et dopo la morte di lui successe per publico lettore nella schuola. Dottissima etiandio fù Demofila nella poesia, laquale compose alcuni Poemi amorosi, et alcuni altri in lode della casta Diana. Ne merita silentio Femonoe, che fù tanto illustre, et famosa nelle lettere, che meritò che Eusebio Cesariense, Lucano, Statio, Plinio, Strabone, et altri facessero di lei mentione ne’ libri loro; et Antistene dice, che ella lasciò scritto quel gran detto, come di lui inuentrice, Nosce te ipsum. Zenobia Reina de Palmereni, come scriue Pollio Trebellio fu dottissima in tutte le lingue arde, et ridusse in compendio l’Historie delle cose Alessandrine. Hildega d’Alamagna non iscrisse molto dottamente quattro libri delle cose naturali? Elena Flauia Augusta figliuola di Cielo Re di Bretagna non iscrisse un libro della diuina prouidentia? Et un’non della immortalità dell’anima, et molti altri, ch’io per breuità tralasciò? Una nobile Bresciana detta Laura scrisse molte eleganti Epistole à Frate Geronimo Sauonarola. Ne voglio che rimagna à dietrò Aganice, che Plutarco celebra molto nel libro de’ precetti matrimoniali, che haueua singular cognitione della scienza d’Astronomia. Ma doue rimane Delbora? che hebbe tanta cognitione delle sacre lettere? Doue Caterina consorte di Enrico

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Ottauo Re d’Inghilterra? Laqual compose un libro di Meditationi sopra i Salmi. Doue Anita? Che lasciò scritto nobilissimi poemi, come scrive Tutiano nel libro contra le genti. Doue Aretafila? Che fù moglie di Nicostrato Tiranno di Cirene per cagione della sua eloquenza. Dove Erina Teia? La qual hebbe tanta dolcezza, et maestà ne’suoi versi, che di età di tredeci anni fù pari al grande Homero, come scriue Plinio, Stobeo, et Eusebio. Theana fù eccellentissima ne versi Lirici, et una altra Theana di Metaponto, ouero Cresca scrisse il commentario della virtù della filosofia, et molti preclari Poemi. Hipatia Alessandrina moglie d’Hidoro filosofo fece alcuni commentarii di Astronomia. Heptachia figliuola di Teone gran Geometra diuene tanto grande negli studi di filosofia, che successe à Plotino, et nella istessa scuola, et catedra lesse. Et, come scriue Suida, fù dotta nella scienza d’Astronomia, et fece professione in publico di molte altre scientie, et haueua grandissima quantità di scolari alle sue lettioni. Iambe non fu inuentrice del verso nominato Iambico? Diotima fù nelle filosofiche disipline tante perita, che Socrate non si arrossi à chiamarla maestra, et andaua alle sue dotte lettioni, come dice Platone nel Simp. Laura Veronese figliuola di Nicolò compose cose mirabili, fece versi saphici, scrisse Epistole. Et orationi in lingua Greca, et Latina. Oue rimane la gloria della poesia, cioè Sapho Lesbia, laquale fiorì à tempi di Alceo, et di Stesichore poeti. Costei scrisse xi. libri di lirici, oltre ad altri Epigramici, elegie, et i Iambi. Et fu inuentrice del verso Saphico; prendendo il nome da lei, et tanto dolcemente et si copiosamente cantò. Che i Cieli ne presero stupore. Onde si può dire à gloria su a quei bellissimi versi delle Meditationi intitolate. de Christi cruciatibus di Fabio Paolini Lettor publico della Signoria di Venetia.

Copia Nestorei, cui cedat gloria mellis
Cedat, et ipse pater Linus, concedat, ‘et Orphe us
Et qui Thebanas cantando condidit arces.
Parua loquor, cœli hunc, et fidera sæpe loquetem
Obstupuere, suum mira dulcedine captus
Sol tenuit cursum, tenuerunt Flamina venti,
Nec vaga præcipites agitarunt flumina cursus.
Sæpius immotis volucris super aere pennis.
Substitit,

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Che diremo noi del grande ingegno, et della profonda memoria della Damigella Triultia? Miracolo di natura, laqual recitò, molte volte orationi fatte da lei alla presenza di Pontefici in lingua Latina. Imparò lettere Greche, et quando sentiua recitare una oratione da aluno, benche una sola volta, la sappeua tutta à mente à parola, per parola. et leggendo una volta, ò due un libro lo sappeva recitar tutto. Margherita sorella del Re di Francia moglie del Re di Nauarra fù dottissima nelle sacre lettere. Marta Proba Reina de Brittani in tutte l’arti liberali fù peritissima. Pinthi compose un libro della temperanza delle donne. Polla, Argentaria moglie di Lucano fù eccellentissima nel comporre, versi et finì con somma elegantia versi incominciati dal marito. Temistoclea insegnò molte cose ingegnosissime a Pitagora suo fratello, come scriue Aristoxeno. Theselide donna Argiua fù molto dotta nella Poesia. Cassandra fedele etiandio dottissima era, disputò publicamente in Padoa, et scisse uno elegante libro dell’ordine delle scienze, et faceua bellissimi versi Lirici. Degno di gran meraviglia fu il profondo sapere di Lucretia da Este Duchessa d’Urbino nella Filosofia, et nella Poesia. La qual cosa si puo vedere in un sonetto, che à lei fece Giullio Camillo.

Ben voi, voi sola con l’eccelsa mente
A le cagion passando in ogni cosa,
Leuate a la natura i suoi secreti.
E stando Apollo, e le sue muse intente
Al vostro dotto, stil, già gloriosa
Auanzate i Filosofi, e i Poeti.

Sosipatra fù indouina, et adornata di molte scienze; onde credeuano le genti, che qualche Dio le fosse stato maestro. Passilla nel compore Epigrammi molti auanzò, come testificano molti scrittori, che di lei honoratamente parlarno. Praxila fù Poetessa di Scitione, laquale ne’ suoi versi fa, che sia interogato Adonnio nell’inferno quel, che hauea lasciato al mondo di bello, et di degno, egli rispose, il sole i cucumeri, et i pomi. Disse il sole, non perche li paresse bello: ma perche col suo dolce calore maturiua i pomi, et i cucumeri. Corinna Thebana nella Poesia, vinse Pindaro Principe de’ versi Lirici, et vi fù una altra Corinna, laquale al tempo di Ouidio fù gran Poetessa. Non voglio, che à dietro rimanga Cornifica, laqual scrisse elegantissimi Epigrammi, et altre

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belle opere. Ne rimanerà à dietro Lastrenia Mantinea, et Ariotha Phlisia, le quali vestite da huomo seguiuano Platone, et andavano ad udirlo, come scriue Plutarco. Piena di filosofica dottrina era Thargelia, come l’istesso Autore nella vita di Pericle racconta. Veronica da Gambara era dottissima nella, Poesia, e come si può vedere anchora ne’suoi scritti fù rarissima, et ciò mostra l’Ariosto in questi versi dicendo.

Veronica da Gambara è con loro
Si grata à phebo, e al Santo Aonio choro

Vittoria Collonna fù dottissima, et compose molti sonetti bellissimi. Però dice l’Ariosto di lei.

Questa una ha non pur se fatta immortale
Col dolce stil di che’l miglior non odo,
Ma puo qualunque di cui parli, ò scriua
Trar del sepolcro, e far ch’eterno viua.

Hor diciamo di Isota Nouarrolla Veronese, laquale di filosofiche dottrine era adorna, faceua vita filosofica contentandosi di poco. Scrisse à Nicolao Pontefice, et à Pio, et sempre si conseruò vergine. Cassandra figliuola di Priamo fù illustre per dottrina, et per lo vaticinio molto chiara. Non voglio, che rimanga sotto silentio Claudia consorte di Statio Papinio, che per le sue molte scienze diede merauiglia all’età sua. Nesstrina Reina degli Scithi, la qual’era nella lingua Greca peritissima et la insegnò à Sile, suo figliuolo, come scriue Herodoto. Ne Mirte Autedonia, laquale fu maestra di Pindaro Poeta chiarissimo. Ne Rossuita Monaca di Sassonia, che molti libri lasciò in prosa et in verso. Hidria fù donna di tanto alto sapere, che non bastò l’animo ad Ercole à farle ressistenza. Ne contradire alle sue dotte, et subite rispeste. Onde il diuin Platone in un suo Dialogo la celebra altamente.
Costanza moglie di Alessandro Sforza è celebrata fra le chiarissime donne, et essendo fanciuletta diede opera à’ buoni studi, come alla filosofia, et alla Poesia. Costei è fatta chiara, et celebre dal Politiano. Minerua figliuola di Gioue per niuna altra causa è posta fra il numero de Dei da poeti, se non per le buone arti, delle quali ella

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fù inuentrice: onde per la sua Dottrina fù chiamata Dea della sapientia, della scientia, della prudenza, dello studio, della maturità del senno, della legge, et d’ogni virtù. Et però Athene madre de studi ha preso il nome da lei; perche Athene significa Minerua. Le noue Muse non sono altro, che noue gouinette, come dice Diodoro Siculo in ogni sorte di disciplina eccellentissime, et specialmente nell’arte del cantare. Clio fù delle Satire inuentrice. Euterpe trouò le tibie. Talia è Dea delle comedie. Melpomene mise in uso le Tragedie. Polinnia è sopra i gesti bellici, et trouò la Rhetorica. Inuentrice fù della Geometria Erato. Tersicore è Dea de Poemi. Calliope fù ritrouatrice delle lettere. Et tutte queste giouinette furono dottissime nelle cose da loro inuentate. Scriue Clemente Alessandrino, che fù una Artemisia tanto profonda nella scienza dialettica, che Dialettica si nominaua. Et Amalasunta Reina fù molto erudita nelle lettere Greche. Celebrano Clemente, et Didimo ambedue Alessandrini Anassandra; perche hebbe mirabile cognitione dell’arte della pittura. Di molte altre potrei dire, come di Laura Terracina dottissima nell’arte della Poesia, et di Geneura Veronese, laquale fù chiarissima nelle Epistole: et di Manto figliuola di Tiresia, et di molte altre, che per breuità tra lascio. Da queste poche, dico, poche da me qui mentione à comparatione delle molte, ch’io tralascio, ciascun potrà ageuolmente conoscere, quanto profitto habbiamo fatto le donne ne gli studi, et in tutto quello à chi si sono date.
Doue rimane Brigida santa? Che ci lasciò scritto un nobil libro delle sue riuelationi. Doue santa Caterina da Siena? Le cui lettere, et i cui dialoghi dimostrano di quanto sapere dotata fosse, oltre à ciò orò dinanzi à Gregorio undecimo, et ad Urbano Sesto Pontifici facondissimamente. Lodò molto san Gieronimo nelle sue Episotle, Eustochio, e Fabiola per la rara conoscenza, che hebbero delle lettere sacre. Anastagia discepola di Chrisostomo scrisse molte Epistole degne di merauiglia. Hilda Erenica lasciò scritte molte pie meditationi, et scrisse un libro contra Agilberto Parigino Vescouo de Saffoni. Hildergarde vergine della Città di Magontia molti libri compose. Onde san Bernardo, che nel suo tempo viueua, le scrisse molto Epistole. Caterina figliuola di Costo Re di Alessandria disputò contro à dottissimi filosofi, che la persuadeuano all’Idolatria, et ella con verissime ragioni gli fece capaci della fede di Christo,

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essendo essercitata nella scienza della filosofia, allaquale attese, come dice Marco Filippo cognominato il funesto, nella vita di lei, volendo mostrare ciò che pargoletta imparasse, lasciando l’ago, e il panno.

Ma le scienze, che tant’alto vanno,
E portan seco i sensi agri, e terrestri,
Che poi rinchiusi nel corporeo velo
Sappiamo come sta la terra, e il Cielo.

Ne voglio, che Giouanna d’Anglia sotto silentio rimagna, che tanto dotta era nelle lettere sacre, che non v’era in Roma alcuno huomo, che l’agguagliasse. Le Sibille furono donne tutte letteratissime et piene di spirito profetico, le quali fecero i libri Sibillini, ch’erano tenuti in molto pregio, e riuerenza. La prima nacque in Persia, et è detta, Persica, di lei racconta quel Nicamore, che scrisse le Historie di Alessandro Magno. La seconda fù di Libia, et è detta Libica, celebrata da Euripide. La terza fù Delfo, et è detta Delfica. La quarta fù di Cuna d’Italia, et è detta Cumana. La quinta fù Eritrea, che predisse la ruina di Troia, et Apollodoro di Eritre si vanta, che nata fosse nella sua Patria. La sesta fu da Samo, e perciò è detta,
Samia, et vogliono, che costei fosse al tempo
di Romulo. La settima Amaltea, l’ottaua fù
Elespontica, laqual nacque sotto il
reggimento Troiano, al tempo di
Ciro. Di lei racconta Iraclito
Pontico. La nona fù di
Frigia. La decima
Tiburtina, cosi
chiamata
per essere nata à Tiburo, et
come dice Latantio queste
donne profetarono
molte cose
degne.

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Della Donne Temperate, et continenti.
Cap. II.

SOno chiamati quegli huomini continenti, et temperati, che si oppongono con la ragione à diletti, et à piaceri de’sensi, et in particulare si come habbiamo, da Aristotile, del senso del gusto, et del tatto; et quali sieno i continenti ce lo insegna nell’Ethica al capitolo 14. dicendo. Temperatus est, qui absentia voluptatum non dolet et presentibus se abstinet; ma se per auuentura egli desidera tali piaceri, usa una certa mediocrità, et si serue del tempo, e del modo, et di tutte le circostanze conuenienti. Et però lasciò scritto Aristotile nel medesimo luogo queste parole. Cupit mediocriter ea, et sicut decet, et ea tantummodo iucun da, quæ vel ad sanitatem, vel ad bonam habitudinem faciunt: recta enim ratio sie præscribit. Et però diffinendo la temperantia disse, ch’ella è una mediocrità intorno à i piaceri del gusto, et del tatto. È diffinitione ancho di Speusippo, il quale dice Temperentia est moderatio animi circa naturales concupiscentias. Ouer come Claudiano. Temperies, ut casta petas. Cicerone nel quarto delle Tusculane. Temperantia sedat omnes appetationes, et efficit, ut recte hęc orationi pareant. Et però fù da lui chiamata a moderatrice di tutti gli empiti della concupiscenza: et anchor che sia ad ogn’uno cosa notissima, che le donne sono continenti et temperate; perche non si vede, ò legge che si ubriachino, et stieno nelle Tauerne tutto il giorno, come fanno i vitiosi maschi, ne che sfrenatamente si dieno ad altri piaceri, anzi in tutte le cose sono moderate, et piu tosto parchissime. Perciò voglio porre dinanzi à gli occhi de’ lettori alquanti essempi. Il primo sarà quello di Zenobia Reina di Palmereni, laquale, dopo la morte del suo marito Odenato, resse con molta laude l’Imperio dell’Oriente: nelle guerre mostrò valore di nobilissimo Capitano, et di prode guerriero: Era ornata di una gran bellezza, era giouine, et pudicissima, et mai non piegò l’animo à lasciuie, et à vanità, et quello che le diede gran lode fu la costanza, et la fermezza dell’animo: fece molte guerre, et all’ultimo con Aureliano, et per

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quanto alla virtù humana s’appartiene, vincitrice era Zenobia; et quelli di Aureliano andauano in fuga: Ma intanto che fuggiuano, lor apparue un Dio, che lor diede animo. Onde essendo essi poi ritornati alla battaglia furono vincitori, et cosi non per il proprio valore vinsero la fortissima donna, ma per l’aiuto di quel Nume, che loro apparue. Questo racconta il Tra. Mentre ella regnò, pochissimi haueuano ardire di prendere l’armi contra lei, et però il Petrarca di lei ragionando dice.

Zenobia del suo honore assai piu scarsa
Bella era nell’età fiorita, e fresca
Quanto in piu giouentute, e’n piu bellezza
Tanto per c’honestà sua laude accresca.
Nel cor femineo fù tanta fermezza,
Che col bel viso, e con l’armata coma
Fece temer chi per natura sprezza:
Io parlo de l’Imperio alto di Roma et etc.

Non voglio, che il silentio inuoli la memoria di Soffronia nobilissima matrona Romana, laquale mentre, che Massentio era Imperator da lui fù molto sollicitata, volendo godere di lei, et talmente era a stretta, che s’ella di suo volere non consentiua à Massentio, chiaramente vedeua che le sarebbe stato fatto violenza. Costei raccontò al marito tutta la cosa, et perche consentiua il marito à questa dishonestà ò per paura, ò per viltà d’animo, ella conoscendo la volontà del marito, si adornò di gioie, et d’oro, et accompagnata da una fante entrò nella camera dello Imperatore, dove poiche con lunga oratione si scusò verso Dio; già che ella, innanzi il giorno ordinato da lui, usciua di questa vita, prese un coltello, e si uccise per non machiar di alcuna macchia il corpo, ò l’animo suo pudico. Casta etiandio fù chiamata Lucretia dal Petrarca ne i trionfi oue dice.

Ma d’alquante dirò, che’n su la cima
Son di vera honestate, in frà le quali
Lucretia da man destra era la prima.

Monima Milesia fù tanto amica dell’honestà, che mai non si volle piegare a’voleri di Mitridate Re de gli Armeni per gran

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copia d’oro, che da lui le fosse offerto. Essendo stata gittata à terra Thebe, il crudel Nicanore fù preso d’amore di una vergine, Thebana, credendosi ch’ella douesse gloriarsi di un tale amante, et hauer di gratia à farli piacere; nondimeno poi che lungo tempo hebbe con prieghi, et con minaccie tenato, et non havendo operato cosa alcuna, dubitanto la Vergine, che non le fosse fatto oltraggio, si uccise per conseruarsi intatta. Non merita silentio la castissima Penelope moglie d’Ulisse, da Homero nell’Odissea per tale hauuta, la quale, come egli dice, era molto da Proci molestata, per che tutti à gara la voleuano per moglie, essa rifiutando ogn’un di loro viueua casta, et pudica, aspettando il suo marito Ulisse: et però Homero sempre quando la noma, le dà questi aggiunti ò di casta: ò di prudente, ò di saggia, come la saggia Penelope; costei aspettò il marito venti anni, ne sapea oue si fosse, et però il Petrarca la pone nel triompho della castità dicendo.

L’altra Penelope queste gli strali
Et la pharetra, e l’arco hanno spezzato
A quel proteruo, e spennachiate l’ali.

Et l’Ariosto considerando di quanto conto sia l’honestà dice.

Sol perche casta visse
Penelope non fù minor d’Ulisse.

Grande fù la pudicitia di quelle cinquanta Vergini Spartane, le quali essendo per cagion d’alcune feste venute alla Città de’ Messini, si come era lor concesso per l’accordo, che haueuano insieme, da i giouini Messini furono d’amore tentate, et le pudiche donzelle, per fuggire la color violenza preponendo l’honestà alla vita, si amazzarono da lor medesime. Et anchor che sia cosa verissima, che non sia lecito l’ucider se medesimo per alcuna cagione nondimeno sono queste tali, lodate da gli antichi, i quali non haueano il lume della vera fede. Ma che diremo noi della Reina Didone? Alla quale essendo stato ucciso dal fratello Pigmalione Sicheo suo carissimo marito, et viuendo in continua doglia con grand’odio verso il fratello, quando ella s’auide, ch’egli cercaua anco di far morir lei, fingendo che la fosse cessato il dolore, et l’odio, che che

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hauea verso il fratello, secretamente si mise in punto per douer fuggire, et per far la fuga piu sicura, finse di volere andare dal fratello; ma prima hauea fatto à molti principali huomini intendere il suo disegno, et furono molti quelli, che fuggirono con lei: percioche odiauano il Tiranno, et dopo molto navigare Didone giunse in Africa, oue edificò Cartagine, et con molta piaceuolezza attrasse à conuersar seco i paesani, et riempì in breue la Città di popolo: tante genti da ogni parte vi concorreuano, che gran piacere ne sentiua la Reina co’suoi. Onde Iarba Re di Mauritania, che vedeua cose prosperamente le cose de Tirii andare, hauendo gia hauuto nuoua della molta bellezza di Didone, fece venire in Mauritania dieci de’ principali di Carragine; et impose loro, che operassero di sorte con la lor Reina, che fosse sua moglie, altrimenti minacciaua loro una cruda guerra. Costoro, che sapeuano quanto fosse lungi da questo pensiero Didone, erano dolenti: ma quando giunsero à Cartagine fecero intendere à lei, come Iarba la voleua, et la chiedeua, per moglie, altrimenti una crudel guerra aspettasse; quando ella udì questo, ne sentì un graue affanno, et cominciò lagrimando à chiamare il suo caro Sicheo; et poi volgendosi à’ suoi disse, che andarebbe doue il suo destino, et quello della sua Città la chiamaua, et tolto quattro mesi di tempo, fece alzare una pira nell’ultima parte della Città, come volesse placare l’anima di Sicheo, prima che andasse al nuouo sposo: quiui ella fece amazzare molte vittime et montata sopra la pira con una spada ignuda in mano, disse di volere andare à trouare il marito, come promesso hauea, et cosi in presenza di tutto il popolo ammazzò se stessa, et fù mentre durò Cartagine adorata per Dea, come racconta il Tarcag. Et questa veramente è stata un chiarissimo specchio di honestà, et di fedeltà: benche Virgilio finga, il qual seguitò il Passi, che si uccidesse per amore di Enea, laqual cosa è falsa; et il Petrarca biasma una tale opinione dicendo.

Taccia il vulgo ignorante, e dico Dido [Error del Passi.]
Cui studio d’honestade à morte spinse,
Non quel d’Enea, com’è publico grido.

Ma doue rimane Virginia figliuola di Virginio Romano, pleeo? Costai haueua promessa la figli vola ad Istilio Lucillo essendo

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egli in campo insieme con gli altri Romani: Claudio il quale era uno de’ dieci, che ministrauano quasi mezzo il dominio di Roma, tersò piu volte con lusinghe et con doni d’indurre Virginia à fare quanto à lui piaceua, le quali cose furono vane; perche ella non acconsenti à suoi voleri, essendo tanto sauia, et casta, quanto imaginar si possa. Hauendo veduto il buono Appio Claudio, che non potea fare cosa, alcuna, si conuenne con un suo liberto huomo audacissimo, che douesse rapire la fanciulla, mentre andaua per la via, come fuggitiua serva, et cosi pigliata, la menasse al tribunale, accio ch’egli la giudicasse. Fece il liberto quanto Appio Claudio gli hauea comandato, et un giorno ritrouando Virginia la pigliò, et ella difendendosi, et difendendola le donne, che erano con esso lei, in questo mezo vi corse il popolo, et fra gli altri il marito: intesa adunque la difensione fù annuntiata al Giudice, il quale disse di volere dar la sentenza in giorno dietro; intanto Virginio intesa la nouella subito venne à Roma; ma non venne cosi tosto, che prima Claudio non hauesse data la sentenza, che Virginia fosse serva di quel liberto. Laqual cosa sentendo il Padre della fanciulla, pregò Claudio, che lo lasciasse parlare alla figliuola, et alla nutrice in presenza del popolo. acconsentì il peruerso Giudice alla domanda, et egli tirata da parte Virginia, disse. Figliuola mia per questa sola via, che m’è conceduta ti ritorno nella tua libertà, et preso un coltello alla presenza del Giudice le diede nel petto, ilquale essa senza, niun timore, et generosa alla percossa volontariamente offeriua: onde conosciutasi la iniquità di Claudio fu pigliato, e messo in prigione, oue morí miseramente. Mi souiene di Orithia figliuola di Erichtheo Re di Atene, che fù una delle Amazoni, questa fù somamente lodata per la sua castità; perche sempre si conseruò vergine. Le figliuole di Aristotimo Tiranno di Edile piu tosto che essere violate, s’impiccarono; essempio veramente di una vera honestà.
Mi souiene etiandio d’Isabella, che si fece tagliar la testa, hauendosi bagnata col succo di herbe il suo candido collo, et questo fù verissimo in Brasilla da Darazzo, per conseruar la sua honesta, dalla, quale l’Ariosto tolse l’essempio. Ma, in cortesia, si potea imaginar la piu bella inuentione per conseruarsi casta contra lo sfrenato Rodomonte di quella, che trouò questo essempio di castità, dandogli ad intendere, che quel liquor d’herbe, bagnandosi tre volte, indurasse cosi fortemente il corpo, che l’assicurasse dal fuoco, et dal ferro, et

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hauendo cotte le herbe bagnossi il candido colle, et il seno, et al feroce, et inaueduto Rodomonte lo porse; come vagamente dice l’Ariosto nel can. 29. accioche lo troncasse dal busto, con tai parole.

Bagnossi, come dissi, et lieta porse
A l’incauto pagano il collo igniudo,
Incauto, e vinto anco dal vinso forse
Incontro à cui non val’elmo, ne scudo
Quel’huom bestial le prestò fede e scorse
Sì con la mano, si col ferro crudo,
Che del bel capo, già d’Amore albergo,
Fe tronco rimanere il petto, e’l tergo,

Quel fe tre falti, e funne udita chiara
Voce, ch’uscendo nominò Zerbino,
Per cui seguire ella truuò si rara
Via da fuggir di man del Saracino.
Alma, c’hauesti piu la fede cara,
E’l nome quasi ignioto, e peregrino
Al nostro tempo, e della castiade
Che la tua vita,e la tua verde etade.

Cosa veramente degna di eterna memoria. Sulpitia, come racconta Tito Livio, fù castissima: era Pratritia figliuola di Sulpitio, et moglie di Quinto Flauio Flacco, eresse il tempio alla Dea Venere; accioche riuolgesse gli animi lasciui alle honestà, et alle virtù et la chiamarono Verticordia, come dice Plinio; costei non fù dimen famoso grido di castità, che fosse Lucretia; et però dice il Petrarca.

Cosi giungemmo à la Città soprana
Nel tempio pria; che dedicò Sulpitia
Per spegner de la mente fiamma insana.

Et che diremo noi della pudicissima Principessa di Tarento? La quale era stata promessa à Corsamonte, et essendo presa da Goti, Cormsaonte per liberarla, fù per inganno da Burgenzo ucciso, et ella, benche la pregasse Bellisario, non volle più marito: ma si fecce

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chiudere in una picciola cameretta appresso la tomba di Corsamonte, per conseruarui la sua virginità, come il Trissino nel lib. 23. lei fa rispondere à Bellisario, che le voleua ritrouare un’altro sposo di età conforme à quella di Corsamonte in questo modo.

Deh lasciate Signor, ch’io mi rinchiuda
In uno scuro, e lucido facello
Oscuro al mondo, e lucido alla vita,
Oue la mia verginità si serui
Intatta, e purghi quei pensieri inulti
Ch’eran già nel mio cor d’hauer marito.

Diana fù tanta casta, che fu chiamata Dea della castità, et fuggendo gli huomini, si essercitaua nelle caccie. Sempre era in compagnia di Vergini Ninfe, et essendo un giorno entrata, per di porto, in un chiarissimo fiume, ò fonte con altre Ninfe, souragiunse Ateone, et mirò Diana, et ella tingendosi di honesto rossore, come dice Ouidio nel libro terzo delle Metamorphosi, con questi versi.

Qui color infectis aduersi solis ab ictu
Nubibus esse solet, aut purpureae Aurorae
Is fuit in vultu visae fine veste Dianae

Lo spruzzò con l’acqua, et lo fece diuentare un ceruo. Aretusa Ninfa figlia di Nereo, et di Doride compagna di Diana un giorno per rinfrescarsi, si bagnò nel fiume Alpheo, ilquale corre per l’Arcadia, subito Alfeo Dio di quel fiume fù preso d’amore, et la volle prendere, essa ch’era vergine casta lo fuggì, et corse tanto, che per il molto sudore, si liquefece, et traformossi in un fonte. Come dice Ouidio nel libro quinto.

Occupat obsesso sudor mihi frigidus artus:
Cerulee quae cadunt toto de corpore guttae,
Quaque pedem moui, manat locus: aeque capillis
Ros cadit: et citius, quam nunc tibi fata renarro
In latices mutor.

I quali versi tradotti in volgar lingua da Fabio Maretti tali sono.

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Un gelido sudore in ogni parte
Mie membra assediate intorno oppresse
E par, che’l corpo mio tutto si stille
E’n terra caggian le cerulee stille:
E dove mossi il piè’l sito ho bagnato
E rugiada cadea dal crine sciolto
E ratto piu ch’io non ti narro il fatto
In acque tutta mi disfaccio, e volto.

Oltre à queste mi souiene della Ninfa Siringa famosa fra l’Amadriadi, laquale per amore della tanto da lei amata honestà, et virginità sprezzò i Satiri, et quanti Dei, che habitauano nelle selue. Accade che Pan Dio un giorno la vide, et la desiderò hauer per moglie: ella sprezzandolo fuggì, et pregò le caste sorelle, che la cangiassero in qualche nuoua forma per fuggire il Dio, et mutossi in canne Palustri, come dice Ouidio nel lib. 1.

Panaque, cum prensam sibi iam Siringa putaret:
Corpore pro Nymphe calamos tenuisse, pallustres.

Daphne imitatrice di Diana sempre visse casta, et godeua delle caccie, et domandò al padre gratia di conseruar perpetua virginità, come dice il medesimo.

Da mihi perpetua genitor carissime dixit,
Virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae.

Et Appollo essendosi inamorato di lei, la seguì, et fuggiua ella, laqual dopo molto correr giunse al fiume Peneo, et lo pregò a torle quella bellezza, et si trasformò in un Lauro, che sempre si mantiene verde, come dice l’istesso,

Vix prece finita torpor grauis occupat artus,
Mollia cinguntur tenui precordia libro
In frondem crines, in ramos brachia crescunt,
Pes modo tam velox pigris radicibus haeret
Ora cacumen habent, remanet nitorunus in illa.

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Ma che diremo noi delle donzelle Lacedemonie? Delle Spartane? Delle Milesie, et delle Thebane? Che apprezzarono piu il fregio della santa pudicitia, che i regni, et la propria vita che delle Tedesche? Le quali disformando le faccie con le brutture, et co’ coltelli, et molte annegandosi conseruarono le loro persone caste, et senza macchia. Ma doue rimane Hersilia, et le altre Sabine? Questa essendo stata con le altre compagne rubata da’ Romani visse castissima, si come tutte le altre co lor mariti, fedelissime, come scriuono tutti gli scrittori delle Romane Historie; però il Petrarca le pone nel trionfo della castità dicendo.

Poi vidi Ersilia con le sue Sabine
Schiera, che del suo nome empie ogni libro.

Non voglio, che rimagna à dietro Claudia Vergine Vestale, della quale molti dubitauano, ch’ella non fosse, come era, casta; perche andaua ornata; ma udite, come si scoprì la sua incorrotta castità. Essendo menata di Frigia à Roma la gran Madre Terra, come fù la naue nella foce del Tebro, oue era andata quasi tutta Roma ad incontrarla, si fermò ne fù possibile mouerla di quel luogo, benche molti si sforzassero tirarla sù per il fiume: all’hora Claudia prostrata su la riua del fiume, e stendendo le mani giunte verso la Dea. Tu sai, disse, alma Dea, che io son tenuta poco pudica dalla mia Città Roma, so cosi è, ti prego, mostrane segno, che condannata da te, che sai l’intimo del cor mio, mi confesserò degna della morte; ma se altramente sono, tu che casta sei, et pura, dando à questo popolo fede de l’integrità mia, segui la mia pudica mano: et ciò detto diede di piglio ad una picciola fune, e tirò la naue à suo piacere, mostrando la Dea di seguirla volontieri, con gran merauiglia di chi la vide: segno certissimo della sua pudicitia. Ma non cede à questa quell’altra Vergine vestale, laquale, mentre nel tempio i giudici disputauano di lei, essendo stata accusata falsamente, se ne venne al tempio con un Criuello pieno di acqua del Tebro, senza caderne fuori pure una picciola goccia: tutto questo racconta Tito Liuio, et cosi cauò dalle menti de’ Giudici ogni sospetto. Et però dice il Petrarca nel trionfo della castità di lei queste parole.

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Fra l’altre la Vestal vergine pia
Che baldanzosamente corse al Tibro
Et per purgarsi d’ogni colpa ria.
Portò dal fiume al tempio acqua col cribro.

O quanto cara fù la verginità à Mica Eliense, che essendo venuta alle mani di Lucio soldato d’Aristone, non volle mai nè per minaccie fare il suo piacere; benche il Padre proprio la pregasse molto, che compiacer li dovesse: ella ferma nella sua casta volontà ingenocchiata à suoi piedi lo pregaua à non le lasciar far quello oltraggio, ma il giouine sfernato la battè crudelmente nelle braccia paterne et poi le troncò il capo. Laura come dice il Petrarca era donna castissima, et oltre che in tutto: il suo libro la celebra per tale, la pone anchora nel Trionfo della castità dicendo.

Passo qui cose gloriose, e magne
Ch’io vidi, et dir non oso, à la mia donna
Vengo, et à l’altre sue minor compagne.
Ell’hauea in dosso il dì candida gonna,
Lo scudo in man, che mal vide Medusa
D’un bel Diaspro era iui una Colonna
A la qual d’una in mezo Lethe infusa
Catena di Diamanti, et di Topatio
Che al mondo fra le donne hoggi non s’usa
Legare il vidi, et farne quello stratio
Che bestò bene à mille altre vendette,
Et io per me ne fui contento, e satio.

Et la descriue vestita di bianco per mostrare la sua pura honestà. era etiandio Fiordiligi casta, et fedele moglie di Brandimarte, la quale, dopò che le fu ucciso il marito Brandimarte, fece farsi una cella nel sepolcro di lui, et sempre visse pudicamente, come dice l’Ariosto nel canto. 43. in questo modo.

Euedendo le lagrime indefesse,
Et ostinati uscir sempre i sospiri:
Ne per far sempre dire offici, e messe

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Mai satisfar potendo à i suoi desiri;
Di non partirsi quindi in cor si messe
Fin che dal corpo l’anima non spiri,
E nel sepolcro se far una cella
E vi si chiuse, e fe sua vita in quella.

Et benche fosse pregata da Orlando, mai non fù possibile leuarla di quel luogo. Ma doue rimane Rosmonda, creduta figliuola del Re de Gothi? La reina de quali la pregaua d’ornarsi; accioche il Re Germondo si Svetia la pilgiasse per moglie, mostrandole quanta gran cosa sia l’esser reina di genti magnanime; et ella disprezzando le grandezze di questa vita, et solamente amando la castità, cosi le risponde, come dice il Tasso nel suo Torrismondo.

Madre io no’l vò negar, ne l’alta mente
Questo pensiero è gia risposto, e fiso
Di viuer vita solitaria, e sciolta
In casta libertade, e’l caro pregio
Di mia verginità serbarmi integro
Piu stimo, che acquistar corone, e scettri.

Non voglio già che Enone Ninfa casta, et pudica resti fuori di questa honorata compagnia. Essendo ella stata tolta per moglie da Paride figliuolo di Priamo, et poi lasciata da lui, sempre visse pudica. Verginia figliuola di Aulo patricio, moglie di Lucio Volunnio Console, huomo Plebeo eresse un tempio alla pudicitia, ilqual tempio era fatto delle case, oue essa habitaua, et invitando le matrone le confortaua, che la medesima gara, che fra gli huomini è della virtù, fosse fra le matrone di castità, et pudicitia; et questa Verginia fù honesta quanto imaginar si possa, come dice Tito Liuio.

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Delle Donne forti, et intrepide.
Cap. III.

E la fortezza una costanza di animo, che si oppone à tutte quelle cose, che sogliono apportare spauento di morte per un fin lodeuole, et honesta, ò di virtù. [Fortezza cosa sia.] Cosi la descrisse Speusippo dicendo. Est fortitudo animi constatia ad versus ea, quae terrere solent virtutis gratia. Questa diffinitione diede anchora Arist. nel lib. 3. dell’ Ethica al cap. 6. non teme adunque il forte le cose più terribili, et horribili, che ritrouar si possano, come è la morte della quale niuna cosa al mondo è più spauenteuole: ma però non la desidera. Mors enim maximè omnium terribilis est rerum. Come nel medesimo luogo si legge. Hauendo però sempre per proprio fine l’honore. Onde disse Arist. Que Mors in pulcherrimis rebus contingit, cuinsmodi sunt, que in bello oppertuntur in maximo silicet et pulcherrimo periculo, his consentiunt etiam honores, qui et à ciuitatibus, et à regibus instituti sunt. Elegge adunque il forte di porsi al pericolo della morte, percioche la cosa ha fine honoreuole, et non facendo questo in vergogna, et in biasimo li ritornerebbe. Onde soggiunge. Et ea de causa quia honestum est eligit, et sustinet; vel quia id non facere turpe est. Magis enim timet turpitudinem vir fortis, quam in ortem. Et però si può con ragione dire, che l’huomo forte non può essere misero, come dice Seneca.

Quemcun quae fortem videris miserum neges.

Hora veniamo à gli essempi di quelle donne, che disprezzando la propria vita, hanno operate cose grandi, et marauigliose con non poca inuidia de gli huomini, et con non poca vergogna loro, et come dice Aristotile hanno eletto di mettersi ad ogni pericolo, percioche il fine era honesto, et buono. Saranno le prime fra le altre honorate donne quelle di Curzola, essempio recente, et nuouo, le

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quali disprezzando la propria vita si opposero alla formidabile armata di Selim Imperatore de Turchi, che voleua prendere Curzola. Queste essendosi vestite tutte di ferro con gli elmi in testa, con picche dando fuoco alle arteglierie, et inuitando quelle, che venute non erano al combattere con suon di Tamburi, et di trombe, fecero so, che Vluzali Capitan de Turchi, lasciò con poco suo honore la tentata impresa. Che dite di queste fortissime, et intrepide Donne? Che ad onta del Capitano, de soldati, et de gli huomini, iquali erano fuggiti, saluarono la patria. A queste gloriose donne non cede Matria Bronchia, che armatasi con le armi del marito, il quale pien di paura se ne era fuggito, combattendo alle mura di Pisa, et passando tra nemici tanto potè, che liberò la patria. Onde il popolo liberato le fece una statua in segno di honore. Porremo anchora fra questa intrepida Schiera di ben nate donne la madre d’Ircano, la quale essendo stata pigliata da’ nimici, et tormentata alla presenza del figliuolo di Tolomeo; accioche Ircano levasse l’assedio, essa benche fosse vecchia, sopportaua i tormenti, et con voce altissima pregaua il figliuolo à combattere, et non lasciar l’impresa, segno veramente di animo forte. Non lasciaremo sotto silentio la madre di Cleomene Re degli Spartani, la quale essendo data à Tolomeo in ostaggio, per segnale di volere mantenar la fede con esso lui, cioè di non far pace co nimici senza il suo consentimento, et perche hauea inteso la Madre di Cleomene, che i nemici li offeriuano la pace con honorate conuentioni, gli scrisse, che à patto veruno non volesse lasciar d’accettare quella pace, per saluare il corpo di una vecchia; essendo quella honesta, et utile alla patria sua. Non si può adunque dire, che costei non fosse di inuincibile, et forte animo, che per la salute della sua patria sprezzaua la propria vita. Grandi, et merauigliose furono le opere delle Donne Argive sotto la scorta di Telessilide, contra Cleomene Re di Sparta. Hauendo costui fatto morire (Notate) una gran quantità d’Argivi, andò con l’essercito sopra Argo per pigliar la Città, ma le Donne hauendo deliberato di difenderla, fatta lor capo Felessilide, si presentarono con le armi sopra le mura, della quale cosa molto si marauigliò il nimico, il quale hauendo dato più volte l’assalto in vano con gran perdita de’ suoi, fù in ultimo costretto à ritornare in dietro. le stesse Donne cacciarono fuori Demarato Re il quale

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hauea occupata una parte di Argo, chiamata Pamphilia, et cosi fù per valor delle donne conseruata la Città d’Argo nella sua libertà. Bastino queste, le quali mettendo à rischio la propria vita, saluarono la patria; percioche lungamente ne tratterò nel capo dell’amor delle Donne verso la patria, et veniamo hormai à gli essempi di quelle prode Donne, le quali per fuggir la seruitù de’ nimici si sono volontariamente uccise; percioche se cosi non hauessero fatto, sarebbe stato loro graue infamia, come dice Aristotile. Quia id non facere turpe est; magis enim timet turpitudinem vir fortis quàm mortem. La prima sarà Monima Milesia, moglie di Mitridate, la quale hauendo intesa la perdita, dell’ Essercito, et la fuga di Mitridate suo marito, elesse di uccidersi, et leuandosi la corona della fronte se la cinse al collo, et s’impiccò: ma quel capestro non potendo, per la sua debolezza, sostenere la grauezza del corpo, si ruppe, et ella disse. Ò maledetto Diadema in cosi tristo uffitio non mi hai anco seruita, et sputouui sopra disprezzandolo, et subito chiamò Bacchide ennucho, et si fece amazzare come dice Plutarco et ciò pone il Passi nel suo libro, per atto di disperatione, la qual cosa non dice Plutarco, sapendosi che. Magis timet turpitudinem vir fortis, quàm mortem. Et questa era la seruitù, et la potenza reale che le soprastaua. [Error del Passi.] Rossana, et Statira sorelle del predetto Mitridate pigliarono il veleno, et lodarono sommamente il fratello, che loro hauea fatto sapere il pericolo, et cosi morirono per fuggir la seruitù del nimico. Non merita silentio Zenobia Reina d’Armenia, laquale fuggendo col marito gli Armeni, et non potendo sofferire il trauaglio del correre: perche era grauida, pregò caldamente il marito Radamasio, che l’ammazasse per non restar cattiua, ilquale dopò molte lagrime le diede col ferro nella gola, et gittola nel fiume Arasse. Et Cleopatra, figliuola di Tolomeo Pitone Re dell’Egitto, molto più temette la vergogna, che non amò la vita; perche essendo certa di essere menata in trionfo da Cesare Augusto, et essendole tolta ogni opportunità di potersi uccidere, fece portarsi de’ fichi con molte foglie, fra le quali era un Aspide, tolto i fichi, porse lietamente, per fuggir l’imperio altrui, il suo candidissimo petto à morsi velenosi del freddo Aspide, et cosi in poche hore la vita, finì, et priuò di una grandissima allegrezza Cesare

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Augusto, che credeua di condurla seco à Roma in trionfo. Chiarissimo essempio di fortezza fù la moglie di Stratone prencipe di Sidonia, il quale essendo assediato, et vicino ad essere pigliato da nimici, essa non potendo soffrir tanta vergogna, et indegnità l’amazzò, et con l’istesso ferro passò à se stessa il petto, albergo di eterno valore. Mi souiene etiandio della nobilissima Donna nominata Dugna, la quale per fuggir la seruitù, et non venire alle mani de soldati di Attila Re de gl’Unni, si annegò. Ma considerate, di gratia, la generosa fortezza delle donne Phocesi, le quali si contentauano di morire arse nel fuoco, se Diaphano perdeua l’essercito; et haueuano apparecchiate le legna per non cadere nelle mani del nimico. Ne vo lasciare l’essempio illustre della moglie di Phanto. Tolomeo dopo che hebbe fatto scorticare il corpo morto di Cleomene suo nimico, volle che Cretesiclea madre di Cleomene, et i figliuoli s’uccidessero, et insieme la moglie di Phanto, la quale era Donna bellissima, et di animo forte, et valoroso. Costei hauea seguitato il marito nell’esilio et costantemente sostenendo la fortuna nimica, et le fatiche, mentre gli altri veniuano menati alla morte, ella confortaua con dolci, et amoreuoli parole la madre di Cleomene, la qual lietamente v’andaua per fuggir la seruitù; ma come furono giunti al luogo, oue sogliono far morire i malfattori, prima uccisero dinanzi à gli occhi delle ardite Donne i miseri bambini, figliuoli di Cleomene, dopò i fanciulli, Cretesiclea fecero morire, et mentre moriua, la moglie di Phanto le acconciaua i panni intorno, sempre confortandola; rimase sola la moglie di Phanto, et essendo di petto forte, et intrepido senza trar sospiro, ò lagrima si accomodaua, come voleua morire, ne comportò la castissima donna, che alcuno se le accostasse, fuor che colui, che la douea uccidere, et fece una morte degna di una tanta donna, non senza stupore, et merauiglia del crudel Tiranno. Non merita silentio la moglie di Asdrubale, che hauendo inteso la graue perdita del marito, et per timor di seruitù si gettò in un ardentissimo fuoco con tre fanciullini. Ma che dirò io di Sophonisba? Figliuola di Asdrubale, et moglie di Siface, la quale hauendo udito, che il marito era prigione et il campo rotto, determinò piu tosto volere morire libera, che viuere in seruitù, come il Trissino nella sua tragedia fa dire. In questo modo.

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Sarà, ch’io lasci la regale stanza,
E lo natiuo mio dolce terreno:
E ch’io trapassi il mare,
E mi conuegna stare
In seruitù sotto il superbo freno,
Di gente aspra, e proterua,
Nemica natural del mio paese.
Non sien di me, non sien tai cose intese;
Piu tosto vo morir, che viuer serua.

Notate queste bellissime parole, che ella dice poco piu sotto, degne senza dubbio di un animo generoso, et forte.

La vita nostra è come un bel thesoro,
Che spender non si deue in cosa vile
Ne risparmiar ne l’honorate imprese,
Perche una bella, et gloriosa morte
Illustra tutta la passata vita,

E come la valente donna hebbe veduto Masinissa, Re de Massuli li andò incontra, et la gratia, che à lui domandò, fù, che non la lasciasse andare in seruitù de’ Romani dicendo.

E se ciascuna via pur vi sia chiusa
Da tormi da l’arbitrio di costoro,
Toglietemi dal cor con darmi morte.
Questa per gratia estrema vi domando.

Et quando Masinissa le mandò il veleno, non hauendola potuto difendere, l’accettò volentieri, et lo prese senza pianto, ò sospiro, et senza mutarsi di colore, come lo stesso Autore fa dire ad una serua.

Oue senza tardar prese il veneno,
E tutto lo beuè sicuramente
Infino al fondo del lucente vaso,
Ma quel che piu mi par merauiglioso,
E, ch’ella fece tutte queste cose

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Senza gittarne lagrima, ò sospiro;
E senza pur mutarsi dicolore.

Donna certamente degna di ogni lode, et finalmente se ne morì in vita, et gloriosa. Ma che dirò di Sofronia? La quale, mentre il soldano Aladino voleua abbruciare, et uccidere i miseri Christiani, pensò di volere con la sua morte difendere l’altrui vita, come dice il Tasso nel lib. 2. stan. 13.

A lei, ch’è generosa, quanto è honesta,
Venne in pensier come saluar costoro.
Moue fortezza il gran pensier; l’arresta
Poi la vergogna, e’l virginal decoro;
Vince fortezza; anzi s’accorda, e face
S’è vergognosa, e la vergogua [sic] audace.

Et il Tasso qual merauigliandosi di tanta fortezza dice mentre s’era appresentata al Tiranno Aladine, et hauea scoperta se medesima inuolatrice della imagine.

Cosi al publico fato il capo altero
Offerse, e’l volse in se stessa raccorre:
Magnanima menzogna, hor quand’è il vero
Si bello, che si possa à te preporre?

E quando ella vide il misero Olindo venire ad offerirsi alle medesime pene per slegar lei.

Non son’io adunque senza te possente
A sostener ciò, che d’un huom può l’ira?
Ho pettn anch’io, ch’ad una morte crede
Di bastrar solo, e compagnia non chiede.

E Clorinda sopragiungendo, e vedendo costoro si fa loro vicino et gli mira: ma vede Olindo gemere, et tacere Sofronia.

Cedon le turbe, e i duo legati insieme
Ella si ferma à riguardar da presso;

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Mira, che l’una tace, e l’altro geme;
E piu vigor mostra il men forte sesso.

Ma se mostraua piu vigor, non era men forte ma si piu forte, come apertamente, si puo conoscere per tanti essempi scritti da gli Historici, et da Poeti. Non vo che resti à dietro Polissena figliuola del Re Priamo fortissima nelle miserie, et nella morte, la quale essendo ancora fanciulla fù condotta alla tomba di Achille, et ricordandosi della sua reale stirpe volentieri si lasciò uccidere più tosto, che gir serua de gli Argiui: la cui morte, et il cui modo di morire descriue Ouidio nel lib. 3. Dicendo.

Fortis, et infelix, et plus quam foemina virgo
Ducitur tumulum: diro; fit ostia busto.
Qua memor ipsa sui, postquam crudelibus aris
Admota est: senstique; sibi fera sacra parari,
Utque Neoptolemum stantem, ferrumque; tenentem
Utque suo vidit figentem lumina vultu,
Utere iandudum generoso sanguine, dixit.
Nulla mora est: aut tu iugulo vel pectore telum
Conde meo; iugulumque; simul pectusque; retexit,
Scilicet haud ulli seruire Polyxena vellem
Haud per tale sacrum numen placabitis vllum.
Mors tantum vellem matrem mea fallere posset;
Mater obset; minuitque; necis mihi gaudia: quamuis
Non mea mors illi, verum sua vita gemenda est,
Vos modo, ne stigios adeam non libera manes,
Este procul; si iusta peto; tactuque; viriles
Virgineo removete manus, acceptior illi,
Quisqui is est, quem cede mea placare paratis,
Liber erit sanguis, si quos tamen ultima nostri
Verba mouent oris, Priami vos filia regis
Nunc captina rogat, genetrici corpus inemptum
Reddite, ne ve auro redimat ius triste sepulchri,
Sed lachrimis, tunc cum poterat redimebat, et auro.
Dixerat; at populos lachrimas, quas illa tenebat,
Non tenet, ipse etiam flens, inuictusque; facerdos
Prebita coniecto rupit precordia ferro.

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Illa super terram defecto popolite labens,
Pertulit intrepidos ad fata nouissima vultus;
Tunc quoue cura fuit partes velare tegendas:
Cum caderet; castique decus seruare pudoris

Che vi pare di questa fortissima donzella degna veramente d’eterna lode? Et di tante altre ch’io tralascio, la medesima intrepidità, et fortezza di Polissena descriue Euripide nella sua Tragedia detta Ecuba, della quale per breuita solo di due versi ci contenteremo, per far vie piu noto il forte suo animo, i quali ella stessa dice à colui, che la doueua ferire.

En iuuenis, hoc si pectus ense mauoles
Promptum ferire, ferito: sin ceruicem, adest
Exprompta ceruix.

Ma pure io sono sforzata di scriuere questo altro narrato da Plutarco delle Donne de’ Cimbri, le quali hauendo intesa la perdita, et la fuga degli huomini loro si vestirono di bruno, et salirono sopra carrri, et si accamparono poco da lungi dal campo, et secondo che i Cimbri fuggiuano da Romani, esse gli amazzauano, et alcune di loro strangolarono i mariti, i padri, et i fratelli; altre i bambini con le proprie mani, et gli gittavano sotto à piedi delle bestie, et sotto le rote delle carrette, et poi il ferro riuolgeuano in se stesse, et si uccideuano per fuggir la seruitù de’Romani: e dicesi, che una donna essendosi attaccata alla cima di un timone, si legò con un capestro i figliuoli a’suoi taloni, et cosi finì la vita. Havendo Filippo Re di Macedonia fatti morire molti huomini nobili: volle dopo per sicurtà sua imprigionare i figliuoli di coloro, che hauea ingiustamente fatti morire, et hauendo Poco inanzi fatto uccidere un chiamato Herodiano capo de Tessali, et ancho due suoi generi. Onde le figliuole restarono senza Padre, et vedoue, fra queste una si chiamaua Teossena, l’altra Arco. Teossena fu richiesta da molti per moglie; ma sempre ricusò. Arco si maritò, et generò molti figliuoli, et poi morì. Teossena dopo pigliò à marito Poride, già di Arco sua sorella, il quale era Padre de figliuoli: perche era tanto l’amore, che à lor portaua, che voleua, che s’alleuassero per le sue mani, et come s’ella medesima gli hauesse partoriti, li nutricaua, et

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ammaestraua con somma diligenza, ancora ella ne hauea generato uno, et era di poca età, quando uscì il bando di Filippo di volere incarcerare tutti i figliuoli, che erano parenti di coloro, che erano stati per suo commandamento amazzati. Teossena, che donna di grande animo era, come intese questo per l’amore, che à lor portaua, non voleua à niun modo, ch’andassero sotto la seruitù di Filippo: onde diterminò d’ucciderli. Ma Poride hauendo in abbominatione si fatta crudeltà, disse di volergli condurre salui in Atene ad alcuni suoi amici, et la notte, mentre che il silentio delle notturne ombre acchetaua i trauagliati cuori, montarono sopra una naue co figliuoli Teossena, et Poride. Ma perche la fortuna seguita quasi sempre gli huomini, in tutta notte per grandissima fatica, che si facesse non potè la naue andare innanzi, havendo il vento contrario, et il Sole lasciando il materno seno, portaua la luce a’mortali, quando la guardia del porto del Re si accorse, che fuggivano, et però mandarono molti armati dietro alla naue con comandamento, che tornar non douessero senza quella. Poride attendeua à sollecitare i marinai, et pregaua gli Iddii, che loro porgessero aiuto: in quel mezzo tempo la magnanima donna, conoscendo, che fuggire non si poteua, misedauanti à gli occhi de’fanciulli un vaso pieno di veleno, et un pugnale ignudo, et disse loro; Figliuoli miei carissimi, queste sono le vie della vostra liberta, et queste due cose sono le vie della morte; eleggete qual più vi piace per fuggir la seruitù, et la superbia, Reale. Horsù, disse ella, voi che siete giouani, pigliate il ferro, et voi che pargoletti siete, pigliate il veleno, se à voi piace morte più lenta. I nemici erano vicini, et ella alcuni col veleno, alcuni altri col ferro hauea affrettati al morire, et poi mezzi viui gli gettò in mare; et ella abbracciando il marito, ne gli affanni suoi fedel compagno si gettò loro dietro e cosi fuggì la seruitù questa donna, degna veramente d’eterna memoria, come racconta Tito Liuio. Non merita di starsi sotto silenzo l’ardito, e illustre atto d’una greca matrona. onde dico che, dopo che i Turchi, per forza hebbero pigliata Nicosia, tra le citta dell’Isola di Capri molto famosa, et ricca, furono da nimici sopra tre naui caricate le piu nobile spoglie, et le più pretiose cose di quella infelice città, et tra que vaselli v’era un galeone, sopra il quale haueano messe, come schiaue, le donne di maggior conto, per mandarle sicuramente al gran Signore in Costantinopoli. La onde questa valente Cipriotta la seruitù de’

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Barbari sdegnando, alla munitione attaccò il fuoco, per lo quale in brieue spatio di tempo tutte le donne, e tutti gli huomini abbruciarono, d’alcuni pochi in fuori, li quali nuotando si saluareno. Niun d’animo non appasionato neghera (che mi creda) che questo fatto non sia d’eterna loda degno, et che mentre il Cielo girera, il nobil grido del suo forte petto non si faccia per tutto udire, come nimico di seruitù tirannesca. Onde per questa opera ragioneuolmente deono à lei, nell’altra vita, essere obligate tutte quelle altre gentildonne, che abborriuano cosi crudele, et barbara seruitù, essendosi seruate Christiane, et caste.

Delle Donne prudenti, et nel consigliare esperte.
Cap. IIII.

[Che cosa sia prudenza.] Fra tutte le virtù dell’anima, par che resplendì piu nobile appresso ogn’uno la prudenza, essendo quella, per mezzo della quale l’huomo determina, et consiglia quel, ch’egli può operare intorno, per lo più, à cose malageuoli, e di momento, eleggendo il meglio: et però disse Aristotile nel lib. 6 dell’Ethica al cap. 6. Prudentis est bene consulere, et in angendo versatur. Et nel 7. à cap. 3. che egli habbia per fine di ritrovare il bene, lo dimostra, dicendo. Prudentis non est sponte agere, quae sunt prava. Et nel lib. 6. c. 9. Quaerunt sibi quod bonum, idque agendun esse existimant. Et veramente nel diterminare, se si habbia ad operare, ò non operare intorno à qualche difficile auuenimento, od accidente, si scuopre la sottigliezza, et la viuacità dello’ngegno: che non sempre consiste la prudenza nell’operare; ma altresi in non voler operare; considerando il prudente se li apporta più utile, od honore il non operare, che l’operare. Il che meglio conosceremo con gli essempi. Prudentissima fù Artemisia reina della Caria, che con molte naui era andata in aiuto di Xerse, et lo consigliaua, con viuacissime ragioni, à non combattere con disperati, ma tirare la cosa in lungo, mancando il viuere à nemici, ricordandoli sempre, che questo non diceua per paura, ma per utile, et honore di Xerse; hauendo combattuto altre volte

 

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nelle guerre nauali, non volle Xerse pigliare l’aueduto consiglio della Reina, et attaccò la battaglia, et fù perdente, come racconta Trogo. Ma che diremo noi della prudenza di Giouanna fanciulla Loteringia? Che nella guerra operò con tanta prudenza, che recuperò molti luoghi al Re Carlo, et à persuasione della medesima passo in Remi à torui la corona del Regno, come dice il Tarcagnota. Semiramis fù sauia, et prudente, però Nino conoscendo la sua virtù mai non facea cosa senza il suo consiglio. Et Ciro con Asaspia faceua il simile conoscendola tale in mille opere sue, et mentre si seruì de’suoi consigli, tutte le cose li succedetero bene, et felicemente. Giulio Cesare racconta, che i Galli non faceuano diterminatione alcuna senza l’interuenimento delle donne, et hoggi di anchora cio fanno, conoscendo la molta avedutezza delle donne loro. Augusto si consigliaua con la moglie, de i saui, et maturi consigli della quale si seruì nelle cose importantissime del regno, et anco lasciò una sua certa seuerità rusticale, et si rese tutto mansueto, et clemente. Porcia non fù ella prudentissima? Non fù prudente, sauia, et eloquente Cornelia madre de’ Gracchi? Giustiniano Imperatore sempre si consigliaua intorno alle cose di momento del suo Impero con la fida consorte, per li saui consigli della quale sempre hebbero le cose felicissimo successo. Onde Aurelio Vittore dice nella vita di Giuliano Imperatore. Feminarum precepta inuant maritos. Et però essendo i Tedeschi ammoniti da questa sentenza mai non prendeano l’armi, come dice Cornelio Tacito, se non col consiglio delle lor donne; sapendo di quanta virtù elle fossero dotate, et da questo si può conoscere, che la donna sia l’honore, et la gloria del sesso maschile. Ma doue resta Pompeana Plotina? Che augmentò con la sua prudenza la gloria di Traiano. Come dice Paolo diacono nel lib. 13. I Lacedemoni sapienti prendeuano i consigli dalle lor mogli, et non operauano cosa alcuna, se à loro non la communicauano. Et gli Anteniesi conoscendo la prudenza delle donne voleuano, che in tutte le faccende, et partiti, che si pigliauano in Senato, elle dessero i loro suffragi, come ottimi Senatori. Onde Arist. nel lib. della Politica 2. cap. 7. parlando di loro disse. Multa in Lacaedemoniorum principatu à mulieribus administrabantur. Socrate, benche fosse gran Filosofo confessa hauere imparato molte cose da Diotima, donna di sapienza, et prudenza. Plutarco scrittore illustre fa

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mentione nel libro delle Donne Nobili che gli antichi Francesi, poscia, che con Annibale si furono accordati, et pacificati, fecero un decreto, che conteneua, che se alcuno Cartaginese riceueua qualche ingiuria, ò ingiustitia da uno di loro, le donne Galliche douessero giudicare simiglianti cause. Placida operò cosi bene col suo sano consiglio, che fece, che Ataulso Re de’ Goti non rouinò, come destinato haueua con Barbarico furore, et superbe minaccie, la gran Città di Roma, anzi la restaurò. Et questo auenne per la sua prudenza. Prudentissima fù ancora Caterina Madre del Re di Francia nel consigliare. Loda l’Ariosto Ginerva Malatesta di gran prudenza, et di lei dicfe nel can. 46.

S’à quella etade ella in Arminio era
Quando superbo de la Gallia doma
Cesar fù in dubbio, s’oltre à la riuiera
Douea passando inimicarsi Roma
Crederò, che spiegata ogni bandiera
Escarca da Trofei la ricca soma,
Tolto hauria leggi, e patti à voglia d’essa,
Ne forse mai la libertade oppressa.

Mostrò etiandio grandissima prudenza Madama la Reggente nella Città di Bruselles, che acchettò gli animi di coloro, che si solleuarono, hauendo fatto un grosso numero di soldati; à quali nondimeno con una regal clemenza perdonò. Non tralasciero di dire la somma prudenza di Periaconconaù, alla quale essendo morto il fratello Ismaele, tenne la sua morte ascosa, e fatta venire à palazzo sette de’ principali del reame con animo, et prudenza inestimabile gli essortò à deporre gli odii, che erano fra loro per conseruatione dell’imperio Persiano, ilquale se mai hauea hauuto bisogno; perche morto era Ismaele, et Cudabende, alquale di ragione perueniua il reame, era lontano. Onde portaua pericolo, che diuolgatasi la morte del Rè, et essi durando nelle loro nimicitie, il Regno andasse in ruina. Onde essi Sultani sarebbono sforzati per le loro discordie à viuere sudditi de’ loro nimici Turchi, et Tartari. Onde per la prudenza di questa gran donna si scordarono delle nimicitie loro, et insieme con lei acchetarono le discordie del regno, come scriue

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Mammabrin Roseo. Ma doue rimane Semiramis, laquale essendo mandata à chiamare da suo marito Menone, non si tosto giunse nel campo, essendo ella prudentissima, che mostrò, come si potesse pigliare la rocca de’ nemici, et cosi per lo suo consiglio la prese. Onde Nino Re de gli Assiri molto si merauilgiò del suo ingegno, come dice il Tarcagnota. Tanaquil con la sua prudenza fù cagione, che Seruio Tullo fù accettato Rè dopo la morte di Tarquinio. Ma si scuopre la prudenza tutto il giorno non dirò di alcuna Reina, ò Signora, ma d’ogni vil donniciuola nel reggimento delle case, et delle famiglie loro, conseruando la robba, et le facultà da maschi acquistate, et distribuendola seconda i bisogni, et i tempi con sommo antiuedere: et infelici gli huomini, et in particolar quelli della Francia, et dell’Alamagna, se le donne lor non gouernassero
le facultà; percioche in breuissimo tempo diuerrebbono poueri, et mendichi; Ma si lasciano gouernare percioche conoscono la lor prudenza; i Francesi non maneggiano si può dire uno danaio, se non lo addimandano alla moglie. Tralascio di raccontare, che ne’medesima paesi le donne attendono à traffichi con tanta diligenza, che non cedono al primo mercante di
tutta Italia,
segno di grandissimo
ingegno.

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Delle donne giuste, et leali. Cap. V.
[Giustitia che cosa sia.] Chiamò Speusippo la giustitia un’habito, ò virtù dell’anima, che distribuisce, et da à ciascuno quel, che è necessario secondo la dignità, et il merito di colui, à chi è dato, et la manifesta dicendo. iustitia est habitus unicuique pro dignitate distribuens, et cosi anco la descriss. Aristotile, et Cicerone, et senza dubbio, se il giusto opera cose giuste, come si legge nel 2. dell’Ethica, al capitolo quarto, è cosa necessaria, che egli dia à ciascuno il suo, sia hauere, od honore, od altro. Et però la giustitia tiene il principato fra tutte le altre virtù morali; essendo ella più utile della temperanza, et della fortezza, come si legge nel terzo dell’Ethica al capitolo terzo: onde considerando la sua eccellenzza Aristotile disse. Iustitia est magis mirabilis Hespero, et Lucifero. Giusta era Isabella di Aragona. et giusta come dice Virgilio fù Didone, come si legge nel libro primo dell’Eneida.
Iura dabat, legesque viris, operumque laborem
Partibus aequabat iustis.
Et questi versi latini traslatati in volgar da Annibal Caro, cosi suonano.
E mentre con dolcezza editti, et leggi
Porge à le genti; e con egual compenso
L’opre distribuisce, e le fatiche;
Giustissima fù Talantia donna Spartana; perche essendo venuti à Sparta alcuni fuorusciti Chii à lamentarsi à gli Epbori di Pedareto lor gouernatore, come hebbe questo inteso Talantia, che Madre del gouernatore era, fece venire à se quelli Chii, et diligentemente udita la querela loro, et conoscendo che à torto non si lamentauano, scrisse una lettera al figliuolo di questo tenore. Di due cose risolueti di farne una, ò di gouernare Chio con giustitia, ò di restare costi perpetuamente, ne mai ritornare à casa; et se pur vuoi ritornare à Sparta,

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sappi certo che poco viuerai. Da questo si può conoscere, quanto le donne sieno amatrici della giustitia, et dell’honesto, già che sprezzano i figliuoli, che amana tanto; accioche il giusto non resti offeso. Ma perfetissimamente si conosce la giustitia del sesso Donnesco nel reggimento di casa; distribuendo à ciascuno con equalità proportionata il conueneuol vitto, et vestito: non comportando che alcuno si lamenti, et dolga della partialità.
Delle donne Magnifiche, et cortesi.
Cap. VI.
La magnificenza è virtù dell’anima, che versa intorno à se cose, et attioni, che ricercano grandissima spesa per fine di honore, et à punto cosi la descriue Aristotile nel quarto dell’Ethica. [Magnificenza che cosa sia] Ne si domanda magnifico colui, che in cose picciole, ò mediocri, secondo la sua dignità, spende, ma più tosto liberale, et ideo magnificentia insumptuosas actiones diffunditur. Deono però spendere i magnifici in cose publiche, come Palagi, Tempi, Sacrifitii, aiuti comuni, giuochi, et simili cose. Si conuengono queste spese specialmente à coloro, che hanno operato alcuna cosa di notabile, ouero che da suoi maggiori almen sia stata fatta. et similmente à notabili, et illustri: deuesi sempre hauer riguardo nelle spese alla grandezza della persona, che spende, et alla cosa intorno a cui si spende; perche chi molto spende intorno à cosa di poco momento, non magnifico, ma sciocco si chiamerebbe. Grande, et marauigliosa veramente fù la magnificenza di Semiramis Reina de gli Assiri, che dopo la morte del marito edificò la gran Città di Babilonia appresso l’Eufrate, di figura quadrata, che giraua più di trentasette miglia. le sue mura erono larghe cinquanta cubiti, et alte più di ducento, come Erodotto racconta. Fù la muraglia di questa Città di mattoni, et hauea ducento è cinquanta torri. ne mattoni crudi erano impresse varie imagini di fiere, et ciascuna era del suo colore, in modo che il circuito faceua una bellissima vista di una cacciagione à riguardanti, et in luogo di calcina, fece adoperar bitume, che molto

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in quelle parti ve ne hauea. Fù fatta con incredibile prestezza lauorandoui più di trecento mila huomini, et in men di un’anno fù finita. Nel mezzo della città edificò Semiramis uno altissimo, et magnifico Tempio, nella cui sommità andauano gli Astrologhi Caldei à notare il nascimento, e’l tramontar delle stelle. Quiui anco dirizzò un Obelisco di cento è cinquanta piedi, che fece ne’ monti d’Armenia tagliare. Molte altre nobili città oltre à quella edificò trà il Tigre, et l’Eufrate: fece un bellissimo, et bene ornato giardino nella media, et poco lungi di là fece intagliare la sua imagine in un monte lungo due miglia con cento donzelle intorno, che con lieto, et amoreuole sembiante la presentauano. Costei spianò i monti altissimi verso la Persia; et altroue fece uguali le disuguali valli, facendoui fare di passo, in passo argini, che furono poi detti gli argini di Semiramis. Nella Citta di Echbatana fece fare un Superbo palazzo con uno acquedoto, che per fabricarlo bisognò tagliare la cima del Monte Oronte: Ma basti di questo à mostrare quanto fosse questa Illustrissima Reina magnifica, et splendidissima, come dal Tarcagnota, et d’altri scrittori c’è stato lasciato scritto. Magnifica anchora fù la Reina Nitocre, laquale cinque anni dopo Semiramis resse gli Assiri, et fece un lago, oue l’acque de l’Eufrate si mandauano, laquale cosa era, fra le altre molte, et illustri da lei. operate bellissima. Magnifica fù Artemisia, che dopo che le fù morto il caro marito Mausoleo, li fece un sepolcro, ilquale fù una delle sette merauiglie del mondo. Costei nel farlo adunò insieme quatrocento famosi et eccellenti scultori, et lo fece fare di marmo finissimo. Dal lato di tramontana et di mezzo giorno, era più lungo, che non era da gli altri due. Il giro di questa grand’opra conteneua quattrocento, et undici passi. Era alto venticinque gombiti. Hebbe Scopa famoso scultore la cura di far la parte voltata all’Oriente, Zocare quella, che l’Occidente riguardaua, Briarce quella à Tramontano posta, et Timoteo quella voltata à meriggio, li quali tutti et quattro valenti scultori adoperarono la forza dell’ingegno loro, à farui lauori bellissimi. Un’altro Illustre Scultore vi fece nella cima una carretta tirata da quattro caualli di marmo. Onde quando fù finita cosi marauigliosa opera, Era alta cento, e quaranta piedi Laertio dice, che Anassagora vide quel superbo sepolcro, et che lo chiamò pretioso sepolcro, et un simulacro delle ricchezze; et questo Mausoleo, a cui fece questo sepolcro la fida Artemisia, fù Re

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di Caria. Di animo generoso et magnifico fù la Reina Elisa, che poi per lo suo valore fù chiamata Didone. Costei, come è già palese, fuggendo l’ira, et la crudeltà del fratello, nauigò in Africa. mentre nauigaua, rapì, come dice il Tarcagnota, ottanta fanciulle Cipriotte, oltre alle quali fanciulle andò volontariamente un sacerdote con la moglie, et co’ figliuoli ad imbarcarsi, et partirsi con lei, laqual per venuta che fù in Africa vi comperò terreno da edificar una Città, Laquale nominò Birsa, et poi chiamarono Cartagine. Che in lingua Punica suona Città nuoua. Questa Città fù magnifica et ornata di colonne, et di altri adorrnamenti, come dice Virgilio nel primo libro dell’Eneida, facendo mirare le sue gran bellezze, che allhora si faceuano, ad Enea, et ad Achate.
Iamque ascendebant collem, qui plurimus urbi
Imminet, aduersasque aspectat desuper arces,
Miratur molem Aeneas Magalia quodam,
Miratur portas, strepitumque, et strata viarum,
Instant ardentes Tyrii, pars ducere muros,
Molirique arcem, et minibus subuoluere saxa,
Pars optare locum tecto, et concludere sulco.
Iura, magistratusque legunt, sanctumque senatum.
Hic effodiunt alii portus: hic alta theatre
Fundamenta locant alii, immanesque columnas
Rupibus excidunt, scenis decora alta futuris.
I quali versi recati in ottaua rima d’Alessandro Guarnelli tali sono.
Quindi la mole Enea, ch’altera sorge,
Oue gia fur pouere case, e ville,
Le ricche porte, e le gran strade scorge,
E i Tirii intenti a l’opra à mille, à mille.
Lo strepito, e’l rumor stupor li porge,
Che maggior sente, che di trombe, o squille.
Bramosi i Tirii di veder perfetta
La lor Città s’affanan lieti in fretta.
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Questi d’ergere al Ciel le salde mura,
E con le proprie man volgere i sassi,
Quei di fortificar le rocche han cura
Qual ne i lochi eminenti, e qual ne’ bassi.
Altri le fosse caua, altri misura,
Altri il suo proprio albergo elegge, e fassi,
Forman le leggi, e formano il Senato,
E’l tribunale, e’l foro, e’l magistrato.
Magnifica, et splendida fù Cleopatra Reina d’Egitto, la quale sempre operò cose grandi, ne mai donò si poco, che’l suo dono non facesse largamente tutte le spese à colui, à cui donaua fino alla morte. ma che diremo di quel Nauiglio, che ella fece per andare à ritrouare Antonio? ilquale l’hauea mandata à chiamare, che si presentasse in giudicio; perche haueua porto aiuto à Cassio. Questo hauea la poppa tutta d’oro, i remi di purissimo argento, et le vele di rosseggiante porpora: i remi si moueuano à suon di flauti, di cethere, et di pifferi: et le cene, che fece ad Antonio, fur tanto magnifiche, che indarno egli si sforzò di superarle. Onde l’Ariosto parlando della mensa d’Alcina, la fa maggior di quella di Cleopatra, come cosa quasi impossibile, che fùla cosa piu sontuosa, che al mondo fatta si fosse dicendo.
O qual mai tanto celebre, e famosa
Di Cleopatra al vincitor latino
Et altroue mostra, ch’ella era splendida dicendo.
O la Regina splendida del Nilo.
Io non vo piu spendere tempo in raccontar la magnificenza delle donne, poiche quasi tutte sono d’animo cortese, manifico, et liberale, s’è veduto in queste di sopra narrate una vera, et grandissima splendidezza; et in queste, che son per addurre si vedrà una liberalità et una non picciol cortesia. Narra Tito Liuio, che quelli soldati Romani, i quali fuggirono à Cannusio, essendo stati da cannusini accettati entro le mura, una donna, detta Dusa, nobile di stirpe, et ricca

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de’ beni della fortuna, lor souenne il viue re, et in case gli trattenne, e dè lor vestimenti, et anco denari in honesta quantità, per la qual cosa il senato poi à lei fece grandissimi honori, che furono premio della sua cortesia? Le cortesi matrone Romane non portarono elle i propri ornamenti d’oro alla camera del commune per sodisfare al voto fatto da’ Romani? per la qual liberalità fù conceduto alle donne questo honore, che andando a’ giuochi, et à’ sacrificii usassero le carrette chiamate pilenti, et gli altri giorni ò festiui, ò non festiui i carpenti: et cosi i Romani di quell’oro fecero una tazza, et la mandarono ad Appoline. Liberalissima era la Reina Dido verso ogn’uno, ma verso i Troiani, non si può sentir la piu gran cortesia di quella, che si legge nel primo libro dell’Eneida di Virgilio; et udite con quali amoreuoli, e care parole consola i miseri, et da tutto quasi il mondo rifiutati Troiani, e sono queste dette da lei con viso sereno.
Tum breuiter Dido vultu demissa prosatur.
Soluite corde metum Teucri, secludite curas.
Res dura, et regni nouitas me talia cogunt
Moliri, et late fines custode tueri.
Et par che si scusi, se à loro fù fatta alcuna villania da Tirii, dicendo che la nouità del regno la sforzaua à far guardare i suoi confine, et da poi dice.
Seu vos Hesperiam magnam, Saturniaque arua
Siue Ericis fines, regemque optatis Acestem,
Auxilio tutos dimittam, opibusque; iuuabo,
Vultis et his mecum pariter considere regnis?
Urbem, quam statuo, vestra est, subducite naues.
Tros, Tiriusque mihi nullo discrimine agetur.
Dio buono si può sentire la maggior liberalità di questa? ma udite ciò che, soggiunge.
Atque utinam rex ipse noto compulsus eodem
Afforet Aeneas, equidem per littora certos
Dimittam, et Lybiae lustrare extrema iubebo,
Si quibus eiectus siluis, aut urbibus errat.

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I quali versi furono tradotti co Superiori nella nostra lingua dall’Anguillara in tal modo.
O vogliate in Italia porre il piede.
O gir la doue al Ciel s’alza Peloro,
D’hauer da questo Regno habbiate fede
Arme, monitioni, huomini, et oro.
Volete voi far qui la vostra sede?
E dar grandezza al mio nuouo lauoro?
Se di fermarui qui fate disegno,
Questa cittade è vostra, e questo regno.
E questa fù una liberalità, et cortesia grandissima, et non si può dire, ch’ella cio facesse per amore di Enea; perche anchora non l’hauea veduto, et per non esser lunga non voglio raccontar i sacrificii, che ella fece, i doni che mandò à i compagni d’Enea, et i sontuosi conuiti. dice il Passi, tassandola di auaritia, nel suo libro, che Enea donò à Didone una veste, et che ella ne donò à lui un’altra dopò, come racconta Virgilio: forse vuol dire, ch’ella non fù la prima ad usar cortesia, et perciò auara la voglia chiamare: perche se non volesse dire cosi, non l’harrebbe posta con quelle sue donne auare, per dire, come egli dice, ma non sò appresso del Passi chi fosse prima à dire.[Error del Passi.]
Auxilio tutos dimittam, opibusque iuuabo.
Vultis, et his mecum pariter considere regnis?
Urbem quam statuo, vestra est, subducite naues.
Et oltre tante cortesi proferte, ch’elle fece delle richezze, et della Città, condusse ancho quello sbandito d’Enea in regia tecta. et queste liberali proferte, et opere erano altro, che dare una veste rapita, come dice Virgilio. Illiacis ruinis. Ma lasciando da parte per hora questa cosa, che se’l Passi leggerà, et considrerà la cortesia di Didone, so che non discorderà dal commun parere. Ma doue rimane Olimpia tanto amoreuole, et liberale verso lo scortese, et infedel Bireno? conoscetelo da quelle parole, che l’Ariosto fa da lei dire ad Orlando.

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Per lui quei pochi ben, che son restati
Ch’eran del viuer mio soli sostegno
Per trarlo di prigione ho dissipati
Ne mi resta hora in che piu far disegno
Se non d’andarmi io stessa in mano a porre
Di sì crudel nemico, e lui disciorre.
Et grande senza dubbio fù la cortesia di Arianna verso Teseo, ilquale era per essere diuorato dal Minotauro, et ella con amoreuole consiglio lo tolse, si può dire, di mano alla morte. Insegnandoli di uscire dell’intricato laberinto col filo. Anchor che da lui ne riportasse non degno guiderdone di tanta cortesia: et però dice l’Anguillara nell’ottauo libro delle Metamorphosi di Ouidio, mostrando la sua cortesia, et la ingratitudine di lui in questo modo.
Quand’io Theseo col filo, e co’l consiglio
Tolsi à la Patria tua si dura legge,
Giurasti per lo tuo mortal periglio
Su’l libro pio, che su l’altar si legge,
Che mentre non prendea dal corpo essiglio
Lo spirto, che’l mortal ne guida, e regge,
Sempre io la tua sarei vera consorte,
Ne à te mi potria torre altro, che morte.
Cortese etiandio fù Medea verso Giasone, perche venuto egli per conquistare il vello d’oro, et essendo veduto da Medea figliuola del Re Eeta hebbe pietà di lui, sapendo che in quella impresa morrebbe, s’ella con la sua virtù nol soccorrea. Però essendo incantatrice gli diede aiuto, facendo che venissero mansueti, et piaceuoli quei terribili tori, che soffiauano fuoco, et haueuano i piedi di ottone, et le nari adamantine, come Ouidio nel settimo lib. dice. con tai parole.
Ecce adamanteis Vulcanum naribus efflant
Geripedes tauri: tactaeque vaporibus herbae
Ardent:
Et un poco più sotto dice di loro, che erano diuenuti mansueti, et piaceuoli.

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Pendulaque audaci mulcet palearia dextra:
Suppositosque iugo pondus graue cogit aratri
Ducere; et insuetum ferro proscindere campum.
E per la medesima virtù di lei vinse coloro, che nacquero de’ denti vimperini, et il vigilante Dragone guardiano del vello d’oro, et ella da lui altro, che ingratitudine non hebbe, come quelli, ch’era di natura scortese, et volubile; i quali versi furono traslatati dall’Anguillara in questo modo.
Compar di ferro intanto il piede, e’l corno
Contra Giason il coragioso figlio.
La fiamma de’ duo tori empia, e superba
Abbruccia l’aria, e strugge i fiori, e l’herba.
Et più sotto dice.
Verso il forte Giason veloci vanno,
E danno ogn’hor per via piu forza al corso,
Ma giunti appresso à lui fermi si stanno,
Che’l canto di Medea lor pone il morso.
Visto ei, che non posson più dar danno,
Lor palpa dolce la giogaia, e’l dorso,
E tanto ardito hor li combatte, hor prega,
Ch’a l’odioso giogo al fin li lega.
Con lo stimolo i tori instiga, e preme,
E col vomero acuto apre la terra.

Delle donne nell’arte militare, et nel guerreggiare illustri, et famose. Cap. VII.
Anchor che molti sappiano, che ci sono state, et son molte donne nell’arte militare, et nel combattere illustri, et di gran grido: nondimeno non ho voluto mancare di darne vari essempi, accioche alcuni, creder possano, che di tali ce ne habbia hauuto. Et conoscendo la verità, ammirino i loro gesti, et notino le loro imprese grandi, et lodeuoli. Nel qual essercitio, come nel reggere gli esserciti, è bisogno di gran prudenza, di animosità,

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di stabilità di mente, et di liberalità. Delle quali virtù sono state adornate le bellicose donne, che hanno retto esserciti, più forsi, che non sono stati molti Capitani, et senza queste virtù difficilmente potrebbe alcuno guidar’ esserciti, combattere, et spesso vincere il nimico. Et però nel mezo de gli esserciti meglio apparisce, il valore, e’l reggimento del Rè nel commandar, nell’essere ubbedito, et nell’antiuedere, che non si fa nelle Città, et in tempo di pace, et pur ci sono state molte donne che hanno condotto esserciti numerosi, et vinti i superbi, et trionfanti Rè. Ma veniamo à gli essempi. La prima, che verrà à far di se bella, et merauigliosa mostra sarà Semiramis Reina de gli Assiri, laquale molte volte in battaglia combattendo, et reggendo soldati fù vincitrice: et specialmente nelle guerre, che mosse à Scaurobate Re delle Indie mostrò gran valore, et prudenza, Hauendo ella mossa cosi fatta guerra, raccolse da tutte le sue prouincie quanti huomini atti à maneggiare armi ui si trouauano. Onde in poco tempo fece uno marauigliosissimo essercito di un milione, et trecento mila fanti, e di ducento mila caualli. et quando vide, che’l nimico era superiore ne gli Elephanti, Fece secretamente di molti cuoi di vacche fare molti simulacri d’Elephanti, et dentro à quei finti animali fece mettere un Camello: Fece venirsi di Fenicia, di Cipro, et da altri suoi luoghi maritimi due mila vasselli di mare, i quali in India sopra carri tirati da Camelli fece portare, et con animo coraggioso, come are solita, et con prudenza venne à battaglia con Scaurobate, et hora fù perdente, hora vincente, ma sempre mostrò valore, prudenza, et ardire, come altresì dimostrò, quando ritrouandosi una volta tra le altre nella sua Città di Babilonia, che s’adornaua il capo, venne ad Intendere, come i di lei Cittadini si ribellauano solleuandosi, et auegna che l’una parte de suoi capelli hauesse già per le spalle sparti, et l’altra intreccia di già riuolti, corse nondimeno senza badare ad intrecciarli arditamente al rumore, ne giamai se gli volle intrecciare, se non dopo, che la Città hebbe achetata. Però ragionando di questa gran Donna il Petrarca dice.
Poi vidde la magnanima Reina
Ch’una treccia riuolta, e l’altra sparsa
Corse à la Babilonica Ruina.
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Ma doue lasciamo Amalasunta Reina d’Italia, figliuola di Teodorigo et moglie d’Eutarico Visigoto? fù costei prode, et saggia nelle cose della guerra: scacciò i Burgundi, et gli Alemani, i quali noiauano la Liguria. Et doue riman Zenobia Reina de Palmireni? che dopo la morte del suo marito Odenato, non solamente resse l’imperio giustamente, e prudentemente; ma nelle guerre vinse molte volte, et mostrò gran prodezza. Ne voglio che questo mio ragionamento resti priuo della mirabil guerriera, ciò è di Giouanna Loteringia, della quale il Rè Carlo si marauigliò vedendo tanto valore, et animo in età cosi tenera. Costei combattendo co’ nemici del Rè appresso Blesia, ne tagliò tre mila à pezzi, et per costei ricouerò Soissons, et molte terre. Ne di minor grido era Vittorina Armiggera fortissima, et ardentissima ne’fatti d’arme; prudente et giusta nel gouernar’ esserciti; della cui prodezza si merauigliauano i più gran Capitani, che fossero al mondo, et però la chiamauano Madre de gli esserciti, et elle fù cagione, che il figliuolo, et il nepote prendessero l’imperio, et lo diede anco à Tetrico. Valorosa quanto imaginar si può fù Thomiri Reina de gli Scithi, la qual con grand’ essercito mandò un suo unico figliuolo contra il crudo Ciro: ma egli uccise il figliuolo, et insieme dissipò l’essercito. Onde questa gloriosa Reina di nuouo fece altre genti et andò contra Ciro, et l’assalì, et uccise più di ducento, et venti mila Persi; vinse et uccise Ciro, et dopo li fece tagliar la testa, et la mise in un vaso pieno di sangue, et disse. Hai hauuto sete di sangue, beui hora, che dentro vi sei immerso. Bellicosa, et sauia fù nelle guerre, et nel reggere gli esserciti Valasca Reina de’ Boemi, laqual hauendo un’animo generoso, e grande sdegnò, che huomo al mondo commandar le potesse. hauendo adunque fatto una congiura con altre donne di scacciar gli huomini dello’mperio, et ucciderli; ragunò molte donne insieme, et essendosi Valasca fatta lor guida, et condutrice, si come colei, che più isperimentata delle altre, nelle cose della guerra, era, mosse guerra con sommo valore, et prudenza, et uccise tutti gli huomini, et cosi molti, et molti anni visse con le altre à similitudine delle Amazzoni. Voglio ancho che aggiunga decoro à questo mio libro Buona, moglie di Brunoro Parmense, la quale fù cosi illustre nelle cose della guerra, che ricouerò il castello Patione nel contado di Brescia da Signori Venetiani. Mi souiene
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etiandio di Orsina moglie di Guido Torello Parmegiano non meno delle altre degna di eterna fama: hebbe l’origine sua da Visconti Duchi di Milano: costei era bella, animosa, humana nell’opere, et nelle parole. Visse con ottimo nome appresso il marito, et appo i sudditi suoi, ma fra molte cose, che fece degne di chiarissima fama, una sola ne scriuerò; percioche io amo la breuità. Essendo nata, guerra trà la Signoria di Vinegia, et Filippo Duca di Milano, l’armata della Signoria sù per lò Pò fin sotto il castello di Bresciello montò, che al marito della predetta Orsina apparteneua, et da Venetiani pigliato, et di nuoue guardie guernito, incontanente andarono ad assediare un’altro suo castello, posto lungo la riua del medesimo fiume. La nobil Donna, che lungi di là ben dieci miglia si trouaua, udite cosi fatte nouelle incontanente, et con ualore piu che di generoso Capitano, ragunò in fretta quella piu gente, che puoto sudditi, et altri, et ella armatasi montò à cauallo, et andò à liberare il castello dall’assedio, et affrontata l’armata Venitiana la fracassò, et ruinò tutta in poco tempo. In quel combattimento morirono più di cinquecento Schiauoni, et molti ella ne uccise di sua mano; volendo vendicare la morte d’alcuni suoi amici. Cosi leuò l’assedio, et racquistò Brisciello. Onde di ciò giunta la nouella al Duca Philippo, et al marito, fecero infiniti fuochi in segno d’allegrezza. Che vi pare, non fù questa una donna valorosa? certo sì: ne credo, che si possa altrimenti dire. Antonia doue rimane ella? costei fu figliuola della predetta Orsina, e di Torella Parmegiano, percioche essendosi solleuate le parti in Parma, et ribellatesi al Duca Francesco Sforza, partita da suoi Castelli Antonia con molti huomini armati, acchetò i tumulti, et ricouerò la città per lo Duca. Certo degna etiandio di eterna memoria è Margherita figliuola di Vuoldomaro Re di Suetia, la quale andò contra Alberto Duca di Monopoli, lo vinse, et lo fece prigione, et poi per maggior sua gloria lo menò in trionfo. Non voglio che resti à dietro Telesilide donna Argiua prode nell’armi. Essendo la città d’Argo restata priua di huomini, fece uno essercito di donne, et vinse Cleomene Re de’ gli Spartani con somma fortezza, et prudenza. Et Paceca figliuola del conte di Trendiglia, essendole stato fatto morire Giouanni Padiglia suo marito dal Gran Contestabile di Spagna Don Igneo Velasco, et da Enrico Ammiraglio; perche hauea
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solleuati i popoli, alzò le bandiere, et solleuando i popoli in vendetta del marito, mantenne la guerra lungo tempo. Camilla fù si nell’armi forte che combattè in fauor di Turno contro Enea, et resse essercito, come dice Virgilio nell’Eneida.
Hos super aduenit Volsca de gente Camilla
Agmen agens aequitum, et florentes aere cateruas
Bellatrix.
Ne resterà à dietro Cleopatra Reina d’Egitto, figliuola di Dionisio Aulete, laqual prese l’armi con Antonio contra Augusto, essendo coraggiosa, et ardita. Che diremo delle Amazzoni? la cui virtù sdegnò di essere imperata da gli huomini? queste furono donne di Scithia gagliarde, et forti, et più tosto superiori, che inferiori nelle armi à gli huomini. Ciro assaltandole con tutto l’essercito de Persi, restò vinto, et fù messo in croce sotto l’una, delle quali (Donna bellicosa) occuporono molti luoghi vicini; et dopo costei rimase una figliuola, che fù creduta di Marte, per lo supra human suo valore. Costei aggrandì l’Imperio, et faceua cucire, et tessere à gli huomini. Quando à loro nasceuano figliuoli maschi lo stropiauano, ma le fanciulle faceuano con ogni studio maneggiare armi, et si stessero infino al Tanai, et vissero molti anni libere. Una delle lor Reine fù Hippolita, laquale prese l’armi contra Theseo, Di queste illustri Donne fa mentioni Paolo Orosio nel lib. 1. al cap. 15. dicendo Harum duae fuere reginae Marpensia, et Iampedo etc. et Pantasilea, che fù creduta figliuola di Marte, venne in aiuto di Ettore con molte Amazzoni, e benche fosse morto Ettore, quando vi giunse, non rimase però di mostrar segni merauigliosi del suo valore, come dice Homero nell’Illiade, et Virgilio dice di lei tai parole.
Ducit Amazzonidum Lunatis agmina peltis
Panthasilea furens, mediisque in millibus ardet.
Aurea subnectens exerte cingula mammae
Bellatrix; audetque viris concurrere virgo.
Nicandra fù Illustrissima etiandio nell’armi, venne in fauor di Bellissario contra Gothi, et di lei dice il Trissino nella sua Italia liberata tai parole.
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Con lui venia la vergine Nicandra
Sauia, gentile, e di bellezza immensa.
Questa non fece mai ricami, ò tele,
Ma fù nutrita fra caualli, et armi,
E tanto è destra, e si feroce, e forte,
Che non è alcun barone in quel paese,
Che ardisca aspettar lei con l’armi in mano.
Onde per far di se proua maggiore
Era venuta a la famosa corte
Con sei mila disposti, e buon guerrieri.
Clorinda nelle guerre non fù ella animosa, e feroce? Et perche tale era Aladino le diede L’imperio sopra i suoi guerrieri, come si vede nel libro secondo del Goffredo del Tasso.
Hor che s’è la tua spada à me congiunta;
D’ogni timor m’affidi, e mi console
Non s’essercito grande unito insieme
Fosse in mio scampo, haurei piu certa speme.
Già, già mi par, ch’à giunger quì Goffredo
Oltre’l deuer indugi; hor tu dimandi,
Ch’impieghi te: sol di te degne credo
L’imprese malegeuoli, e le grandi;
Soura à i nostri guerrieri à te concedo
Lo scettro: e legge sia quel, che comandi.
Et faceua benissimo l’ufficio di condutrice d’esserciti, et di valorosa guerriera, come veder si può. Vittoria, come dice Curtio Gonzaga nel fido Amante, fù donna bellicosa, et guidaua essercito, come si può conoscere in questa stanza.
Vien poi Vittoria, et la battaglia guida
Cui par che’l Cielo, e ogn’elemento arrida.
Scelse d’Italia ella la gente, e tolse
Quindici mila de’ suoi fanti eletti,
Et sei volte trecento insieme accolse
Caualli Cauallier buoni, et perfetti;
Di Grecia con quest’altri unir ristretti;
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Hauendo io fatto memoria di alquante donne, che hanno guerreggiato, et condutto esserciti, voglio addurre gli essempi di alcune altre, lequali solamente combattendo si acquistarono eterna gloria. La prima delle quali sarà Maria da Pozzuolo, ornata di bellicosa virtù, et di somma castità. Costei vestita da huomo, et armata era la prima ad entrar nelle battaglie, et l’ultima à ritirarsi, come scriue il Petrarca nelle sue epistole. Ne voglio, che rimagna à dietro Triaria, moglie di L. Vitellio, questa se ne andò alla guerra, et col suo valore ammazzò molti. Ma ditemi, di gratia, à chi non porge merauiglia l’inuitto ardire delle donne Saguntine? Hauendo Annibale diterminato di mouer guerra à Romani, prima che giungesse in Italia pose l’assedio à Sagunto, Città di Spagna ricchissima. Onde impauriti i Saguntini, vennero à patti di volersi arrendere, et pagar gli trecento talenti d’argento, et dar gli altretanti ostaggi. Ma quando Annibale leuò l’assedio, essi furono pentiti di hauer promesso tanto, et non vollero attenner le conuentioni Annibale entrato in collera ritornò ad assediar la Città, et la diede in preda a soldati, iquali strinsero i Saguntini ad à rendersi salue le persone, et una sola veste per ciascuno. Le donne accorte, essendo certe che il nimico non haurebbe consentito, che i Saguntini fossero usciti armati (et ciò era nelle conuentioni) tutte con animo forte si nascosero il ferro sotto le gonne. Essendo usciti tutti i Saguntini, pose Annibale una squadra di caualli per guardia ad una porta, et à gli altri diede licenza d’entrare nella Città. Ma coloro, che erano posti per guardia, vedendo gli altri carichi di preda, furono mossi da inuidia. et da sdegno, et abbandarono la porta, et si misero à rubare: et in questo le donne messo un terribil grido, date le armi in mano à loro huomini, et tutte insieme con quelli si mossero contra il nimico, et una di loro tolse la lancia di mano ad un certo Hannone, et prodemente lo inuestì,, per ammazzarlo; ma perche era armato non lo potè ferire. Cosi i Saguntini colti i nimici in disordine, et carichi di preda, molti ne uccisero, et molti ne fecero fuggire. Ma non meno prode furono le donne di Scio. Percioche Philippo figliuolo di Demetrio assediata che hebbe la città di Scio, mandò un dishonesto bando, accioche i serui si ribellassero; promettendo à tutti quelli di dar loro per moglie qual donna più à lor piacesse. credendo che ciascuno haurebbe dimandato la moglie del suo padrone. Le donne vennero per questo intanto sdegno, che
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tutte insieme co serui portarono sù le mura molte pietre, et altre cose, d’offesa et da difesa, et poi combatterono i padroni, i serui, et anco molte donne fino alla morte, ne si smarirono mai, fin che Philippo, vedendo i suoi disegni riuscir vani, non leuò l’assedio. Mario dopo la rotta de’ Cimbri fù necessitato à far un’altro fatto d’arme con le donne, onde molti soldati di Mario furono uccisi. Oue rimangono le donne di Malta? lequali in compagnia de gli huomini guerreggiando, si portarono cosi prodemente, che fracassarono i Turchi, come dice Mambrin Roseo, et co’ gridi gli spauentarono. Et mentre Mustafà combatteua aspramente Famagosta, le Donne della Città con incredibile ardire mescolandosi fra soldati, combattettero. Onde Mustafà, che grandissima strage vide far de’ suoi, disse che gli assediati erano grandi huomini da guerra. Scriue il Bottero. che la gente piu guerriera del Principe Monopotapa sono le Donne, le quali si gouernano à guisa delle antiche Amazzoni, vagliono assai con gli archi, et mandano i figliuoli maschi co’ Padri fuori della Prouincia, et le femine tengono, et le auezzano à trar d’arco, et à far altre cose da guerra. Sono animose, habitano, verso Occidente non lungi dal Nilo. Delbora Reina de gli Israeliti fù prode guerriera, et molte volte difese i suoi popoli dalle insolenze de’ vicini, et accrebbe l’Imperio con supremi honori. Ma che diremo delle Donne Lacedemonie? che, come scriue Latantio, essendo restata la lor Città senza huomini, perche erano andati ad assediar Messene, et i Messeni uscendo della Città di nascosto andorono per saccheggiare i Lacedemoni, armandosi tutte andarono contra i nemici, et non solamente difesero la Città, et il Paese dal sacco, ma mandarono i nimici in rotta, et furono sforzati à ritornarsene. Ma in questo i Lacedemoni auuedutisi dell’inganno, andarono loro dietro, ne potendo trouarli, trouarono le lor Donne armate, et credendole essere i nimici si metteuano in ordinanza per combattere, ma le gagliarde donne si diedero loro à conoscere; onde per memoria di questo illustre fatto delle Donne, posero un tempio à Venere armata; sopra laquale Ausonio fa un bello Epigramma. Finge che Minerua vedendo Venere armata, voglia di nuouo venire à contesa con lei sotto etiandio il giudicio di Paris; ma Venere la schernisce, et la chiama temeraria, hauendo ardire di prouocarla, hora che la vede armata, se da lei fù vinta ignuda, et tale è lo Epigramma
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traslatato in volgar lingua.
Vedendo à Sparta Pallade la bella
Venere armata à guisa di guerriera,
Hor, disse, è tempo da terminar quella
Lite, ch’andar ti fa cotanto altera,
E siane pur giudice Pari: et ella
Rispose, ah temeraria, dunque spera
L’animo tuo di vincer hor me armata,
che nuda già ti vinsi, e disarmata?
Questo Epigramma benche non faccia cosi à proposito di nostra materia pure ho voluto porlo per diletto. Marfisa, che era cosi forte oue resta? laquale in mille guerre prodezza non picciola sempre dimostrò, et diede altrui merauiglia del suo potere. Come quando andò con Ruggieri contra Maganzesi, ilquale si merauigliaua, et miraua il suo valore, come dice l’Ariosto nel Canto 27. in questa stanza.
Cosi parea di ghiaccio ogni guerriero
Contra Marfisa, et elle ardente face
E non men di Ruggier gli occhi, à se trasse
Ch’ella di lui l’alto valor mirasse.
Et altroue dice.
E s’ella lui Marte stimato hauea,
Stimata egli l’hauria forsi Bellona
Se per donna cosi la conoscea
Come parea contraria la persona.
Et di grand’animo, e possanza fù Bradamante nelle guerre contra Saracini, et molto valorosa ne’ duelli, come quando combattè con Ruggieri credendo, che fosse Leone, come finge l’Ariosto dicendo.
Quando di taglio la Donzella, quando
Mena di punta, e tutta intenta mira
Oue cacciar tra ferro, e ferro il brando,
Si che si sfoghi, e disacerbi l’ira.
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Hor da un lato, hor da l’altro il va tentando
Quando di quà, quando di là s’aggira.
Et in mille luoghi mostra il valor di costei. Gildippe non era una fortissima guerriera? che andò contra Altamoro, che non v’era piu alcuno, che gli volesse andare incontro; perche era troppo fiero, come disse il Tasso nel Canto vintesimo.
Non è chi con quel fiero hormai s’affronte:
Ne chi pur lungi d’assalirlo accenne.
Sol riuolse Gildippe in lui la fronte,
Ne da quel dubbio paragone s’astenne.
Nulla Amazzone mai su’l Termodonte
O imbracciò scudo, ò maneggiò bipenne
Audace sì, com’ella audace in verso
Al furor va del formidabil Perso.
Ferillo, oue splendea d’oro, e di smalto,
Barbarico Diadema in sù l’elmetto,
E’l ruppe, e’l sparse, e quel superbo, et alto
Suo capo à forza egli è chinar costretto.
Et in altri luoghi mostra il suo valore sempre degno di memoria eterna.

Della sofferenza, et toleranza delle donne.
Cap. VIII.

Est tolerantia potestas perferendae molestiae honesti gratia. [Toleranza che cosa sia.] Ciò è la sofferenza, ò costantia è una virtù di poter sopportar le cose moleste per fine dell’honore. Cosi dice Speusippo. è la toleranza in un certo modo una spetie di fortezza, come si può vedere in Aristotile, oue egli tratta di quelle cinque spetie di fortezza non reali, sotto una delle quali ella si può à giudicio mio porre. Sofferente, et tollerante fù Cornelia figliuola di Scipione Africano, che vinse Annibale, laquale sopportò con
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somma patienza l’infinite sciagure, che le hauea recate la fortuna; et dopo che i suoi valorosi figliuoli furono uccisi, raccontaua i gesti, et le imprese loro senza lagrima, e senza sospiro, non altrimenti s’hauesse ragionato de’ fatti d’huomini antichi, et grandemente godeua in ricordarsi i fatti di Scipione l’Africano. Questo dice Plutarco quasi merauigliandosi della sua costanza. Però il popolo Romano l’haueua in somma veneratione. Grande fù la toleranza di Epicarmi laquale essendo nella congiura contra Nerone, et essendo stata accusata da un certo Proculo, costantemente negò, ne si sarebbe scoperta la congiura, se non fosse stata riuelata da altri huomini, i quali essendo menati al tormento confessarono il tutto. Alcuni altri stettero saldi un pezzo, senza confessar nulla, pure alla fine sè stessi, et gli altri nominarono. Ma merauigliosa, come dice il Tarcagnota, fù la costantia di Costei, che per gran tormento, che dato le fosse non confessò mai cosa alcuna; anzi essendo per soffrire il giorno seguente nuoui tormenti, et essendo portata sopra un seggio; perche caminar non potea per gli aspri tormenti hauuti, fattosi un laccio di una fascetta di tela, che si cauò di seno, se’l riuolse al collo, hauendolo prima al legno del seggio legato, et si lasciò andar di peso con tutto il corpo et cosi spinse fuori dal tormentato corpo il trauagliato spirito. Che vi pare, non fù questa una grandissima costanza? Ma doue rimane Isabella d’Aragona? laqual rimasa vedoua del Duca Giouan Galeazzo Sforza fù bersaglio della fortuna, la cui fortezza di mente non fù mai vinta dalle ingiurie dell’auuersa fortuna; fù oppressa inanzi la morte del marito dall’insidie di Ludouico Sforza, et fù da lui spogliata contra ogni ragione dello stato, et poco dopo la morte tolse l’auolo suo il Rè Ferdinando di questa vita, della qual cosa hebbe gran dolore: Ma con animo patientissimo soffrì questi acerbi colpi di fortuna. Poi vide il Rè Alfonso suo padre del regno scacciato, vergognosamente fuoruscito in Sicilia. viuersi et mentre questi dolori, et in queste sciagure staua, intese che’l Re Ferigo suo zio era stato spogliato del Regno per la crudel congiura de’ Rè stranieri: allhora la sua chiarissima casa fù affatto ruinata da quella gran machina, che la percosse, et in un medesimo tempo hebbe nouella, che suo figliuolo Francesco era morto in Borgogna alla caccia, essendoli caduto il cauallo sotto, ne mai l’inuitto, et costante animo di questa gran donna si perdè, o si smar-
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rì punto; ma con fortezza inusitata tollerò tutte le percosse della nimica fortuna. Questo racconta Mons. Paolo Giouio, et Gian Antonio Volpi mostra la sua gran sofferenza in questi versi fatti in sua lode.
ella fù tanto
In odio al Ciel, che vide à un tempo morto
L’auolo di dolore, il padre e’l zio
Cacciati fuor del regno, il pio fratello
Spento à l’entrar col pie nel seggio antico:
Che dirò del carissimo marito
Del regno, e de la vita a torto priuo?
Et de la morte de l’amato figlio?
Chi potrebbe udir ciò con gli occhi asciutti?
Ella non versò già pianti, ò lamenti
Ma vinse con virtù l’alto dolore.
Et veramente questo fù un chiarissimo specchio di costanza, et di fermezza d’animo. Costantissima ancho diremo noi esser stata Elena Cantacusina moglie di Dauide Dauignano Imperator di Trapezunda, che si vide morire inanzi à gli occhi il caro marito, et sei figliuolini, et due menarne à far Turchi, et queste cose tollerò con animo costantissimo, et haueua solamente dolore di quei due figliuoli, che erano stati fatti Turchi; perche era Christianissima. Sofferenza grande fù quella senza dubbio di Penelopo, laquale oltre l’absenza del marito haueua in casa quei scelerati Proci, ouer porci, che consumauano il suo hauere, et molti anni lo sopportò, come dice Homero nell’Odissea. Grande più di quello, che credere si possa, fù la sofferenza di Psiche in cercar Amore. Fù scacciata da Cerere, et da Giunone, et al fin da Venere fù tormentata et afflitta con commandarle cose difficilissime da mettersi in essecutione, come il portar l’oro da quella horrenda selua cinta dall’onde spumose: Il portar l’urna piena dell’onde stigie tolte nella sommità di uno altissimo monte ultimamente le commandò, che scendesse all’Inferno come scriue Ercole Udine Segretario dell’Altezza Serenissima di Mantoa nella sua Psiche, come qui sotto segue.
O di quel, ch’io commando. Scendi hor hora
Giù ne lo inferno, e la Reina troua
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E dille che d’hauer grato mi fora
Quel suo liquor, che la beltà rinoua.

Et ella superando ogni difficoltà scese all’Inferno, et andò alla presenza della Reina, come si vede in questi versi.
Giunge al fin doue in soglio alto risiede
De l’infernal signor la cara sposa;
Oue à lei riuerente china il piede
E’l suo messaggio spiega vergognosa;
Proserpina le dà cio, ch’ella chiede
In nome della Dea,
E cosi vincendo tutti i perigli portò il pregiato liquore à Venere: et però Gioue la fece Dea, et fù vera moglie d’Amore. Costantissima fù Leona cortigiana, laquale essendo fatta crudelmente tormentare da Ippia Tiranno d’Atene: accioche confessasse quali erano gli huomini d’una congiura ordita contra di lui, più tosto si lasciò con infiniti flagelli lacerare tutta, et priuare di vita, che nominare alcuno de congiurati. Onde gli Ateniesi per honorarla della sua virtù dirizzarono una Leona di bronzo, senza lingua, perche si conoscesse la sua fortezza, et la sua taciturnità.

Delle donne di forti membra, et della delicatezza sprezzatrici. Cap. VIIII.

Rende più l’essercitio il corpo forte, et robusto, [Essercitio quanto possa.] che non fa bene spesso la stessa natura quando lo produce, et genera; percioche il moto consumando il superfluo humore, et eccitando il calore fà, che le parti si rendono più agili, et più robuste, come ben racconta Plutarco. essercitano le donne il corpo, ancor che delicato, in mille essercitii et cosi vigorosamente, et lungamente sopportano le fatiche, come gli uomini si facciano, et se noi guardiamo fra le genti plebee, se ne vederà chiarissimo segno; percioche le villanesche si
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adoprano ne gli essercitii rusticali, et in tutte quelle fatiche, che gli huomini altresì fanno. Nelle Cittadi quante opere laboriose sono fatte da loro? infinite certo, et veggiamo notte, et giorno con grandissima patienza, et gran fatica, et se alcune si veggono poco atte alle fatiche, questo auiene perché assuefatte non sono, come si veggono anco molti huomini, che si si affaticano un’hora, ò due, in caminare, ò in altro esserciti dicono, che sono lassi, et però vogliono riposare il giorno seguente, et bere l’oua fresche. sono adunque le donne etiandio robuste; cosa merauigliosa, che un corpo cosi delicato qual è quello della femina sopporti tante fatiche, et divenga per modo di dire rozzo, et incallito; sprezzando la delicatezza, et la morbidezza. Ma veniamo à gli essempi. Zenobia sprezzò, come dice il Tarcagnota, le delicatezze di questa vita, et spese tutti i suoi primi anni nelle caccie de Leoni, de gli Orsi, de’ Pardi, et d’altri feroci animali. et si assuefece alle pioggie, al sole, al freddo, al caldo, et à tutti i disagi, che si possono sentire in una trauagliata et misera vita. Sprezzò etiandio gli agi Elena Cantacusina, alla quale essendo stato ucciso il marito, et i figliuoli ella con le sue delicate mani cauaua la terra con una zappa, et andaua sotterando il marito, et i figliuoli, benche fosse un commandamento di Maumete, che sotto pena della vita alcuno non sepelisse quei corpi. Andaua vestita di cilicio, et non mangiaua carne: et dormiua sotto un poco di tugurio di paglia. queste erano le delicatezze di questa sauia, et sobria Imperatice. E Camilla Reina del Volsci non apprezzò punto le delicatezze, et le mollitie di questo corpo. Costei nella, sua prima età fù inuolta in grossi et rozzi panni, non fù da morbide nutrici nudrita: ma da Metabo suo Padre fra le selue di ferino latte fatta poi più grande, non si essercitò nel filare, ò fra lasciue damigelle: ma fra le fiere con l’arco, con le saette senza ornamenti, o lasciuie, come mostra Annibal Caro nell’Eneida di Virgilio da lui recata in lingua volgare.

Ne pria tenne de’ piè salde le piante,
Che d’arco, di pharetra, et di nodosi
Dardi le mani, e gli homeri grauolle.
Non d’or le chiome, ò di monile il collo
Ne men di lunga, ò di pregiata gonna,
La ricouerse, ma di tigre un cuoio
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Le facea veste intorno, et cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto,
E’l primo studio fù lanciar il palo,
E trar d’arco, e di frombra:

Et mostrando, ch’ella à feminil lauoro non inchinò la mano. dice Virgilio.

Non illa collo, calathis ve mineruae
Foemineas assueta manus, sed praelia virgo
Dura pati, cursuque pedum preuertere ventos.
Illa vel intactae segetis per summa volaret
Gramina, nec teneras cursu laesisset aristas;
Vel mare per medium, fluctu suspensa tumenti
Ferret iter, celeres nec angeret aequore plantas.

Ne meno di questa gran donna si affaticò Maria da Pozzuolo, la quale al tempo di Francesco Petrarca, illustre, et gloriosa diuenne, come egli nelle sue epistole racconta. Costei si astenne dal vino, era di cibo, et di parole sobria. Lasciò lungi da se la lana, i fusi, et gli altri esserciti di simil sorte; godeua sommamente nel trar d’arco, nel lanciar il palo, soleua souente stare tutta la notte armata, et non dormiua. Ma quando dormir voleua, appoggiaua il biondo, et delicato capo sopra lo scudo; sempre conuersaua fra caualieri armati, ne niuna cosa tanto hebbe cara, quanto la sua pura verginità, la qual conseruò fino alla morte, et cosi sprezzando ogni culto del corpo, l’anima, et la sua fama di chiari, et incorruttibili fregi rese adorna. Ma che dice il Tasso di Clorinda? in questi versi, che tanto si affaticò nelle selue, et nel campo fra caualieri.
Costei gl’ingegni femmenili, e gli usi
Tutti sprezzò fin da l’età più acerba:
A i lauori d’Aragne, à l’ago, à i fusi
Inchinar non degnò la man superba;
Fuggì gli habiti molli, e i luochi chiusi:
Che ne’ campi honestate anco si serba;
Armò d’orgoglio il volto; et si compiacque
Rigido farlo; e pur rigido piacque.
Tenera anchor con pargoletia destra
Strinse, e lentò d’un corridore il morso;
Trattò l’arco, e la spada; et in palestra
Indurò i membri, et allenolli al corso;
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Poscia, ò per via montana, ò per siluestra
L’orme seguì di fier leone, e d’orso;
Seguì le fere, e in esse, e frà le selue,
Fera à gli huomini parue; huomo à le belue.

Et Marfisa, da questo si può conoscere, se alle delicatezze, et alla quiete si diede, poi che essendo di diciotto anni prese sette regni, come dice l’Ariosto nel canto trentesimo ottauo.

Che diciotto anni d’uno, ò di due mesi
Io non passai, che sette Regni presi.

Et di lei ragionando nel canto decimo ottaua dice.

Fece piu volte al gran signor di Braua
Sudar la fronte, e à quel di Mont’Albano
E’l dì, e la notte armata sempre andaua
Di quà, di là cercando monte, e piano.

Ne stimaua fatica per farsi immortale, come si vede in cento luoghi. Ne delicatezze mi pare, che apprezzasse in questo luogo Erminia, come narra il Tasso.

La fanciulla regal di rozze spoglie
S’ammanta, e cinge il crin ruuido velo.
Et altroue.
Col durissimo acciar preme, et offende
Il delicato collo, e l’aurea chioma.

Et cosi faceuano tutte le Amazzoni, lequali sempre armate andauano, et fanciulline si auezzauano all’arti militari, et alle caccie di animali feroci. come scriue Solino. oltre à modo indefesse; et gagliarde sono le donne de’ popoli Tribali, che fanno, et trattano tutti i negotii, et sono molte di loro ornate di virtù militare, ma gli huomini stando in casa si mantengono molli, et delicati, amano l’otio, et si guardano dalla fatica piu che possono. Che diremo noi di quelli maschi arditi, et vigilanti?
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Dell’amor delle Donne verso i Padri, i Mariti, i Fratelli, et i Figliuoli. Cap. X.
[Amor delle Madri quale.] Quello è sincero, et vero amore, che non ha per oggetto il piacere, o l’utile: anzi per la cosa amata si contenta l’amante, et gode di patire anco una cruda, et acerba morte, non aspettandone diletto, od utilità alcuna. Come sarebbe, se la madre veggendo morire il figliuolo, si contentasse di morire in luogo di lui; percioche in un tal caso non c’è alcuna cosa, che à ciò la spinga, se non il desiderio di saluar la vita al figliuolo, et causa n’è quello intenso amore, che à lui porta, senza fine alcuno ò di utilità, ò di diletto. à questo modo amano le madri i figliuoli, ancorche da loro amate non sieno et nello amargli si rallegrano. Onde dice Arist. nell’ottaua dell’Etica. Argumento sunt matres, quae amando gaudent, rea mari non curant, sed satis ipsis videtur, si liberos suos bene agentes inspiciant amantque ipsos. Et questo è un vero amare, et un sincero, et perfetto amore, et però disse Propertio.
Verus amor nullum nouit habere modum.
Di questo amore le donne sono piene, come si vedrà ne gli essempi. Essendo l’Imperator Corrado sotto la Città di Vespergia in modo tale l’assediò, come racconta il Tarcagnota, che gli assediati tentando molte vie d’accordi, non puotero altro ottenere, se non che le donne se ne uscissero della città cariche di quello, che più à loro piaceua: Ma le pietose, et amoreuoli donne non curandosi ne de l’oro, ne delle altre cose pretiose, (o verace amore) portarono in spalla, à loro caro peso, et più pretioso, che le gioie non sono, quale il marito, quale il padre, quale il Fratello, quale il Figliuolo. Chi non si marauigliera di questo pietoso, e santo amore? Artemisia amò con tanto ardore, et con tanta fede il suo caro marito Mausoleo, che venendo à morte l’honorò di un sepolcro, ilquale è posto fra le sette merauiglie del mondo, et à guisa di sconsolata
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tortorella sempre piangeua la morte del marito: et benche fosse domandata per moglie da molti Principi grandi, ella però non volle passare alle seconde nozze. Et essendo stato abbrucciato il corpo di Mausoleo, ella sempre le cenere portaua seco, lequali andaua mettendo nelle sue copiose lagrime, che raccoglieua, et poscia se le beuea, et tanto continuò di cosi fare, che le ceneri, il pianto, e la vita vennero à finirsi. Ne men fu grande l’amore di Giulia figlia di Cesare verso il gran Pompeo suo marito, che essendole recata la veste di lui tutta macchiata di sangue, ella tosto ricordandosi delle ciuili discordie, credendo che fosse stato morto da suoi nimici, prese cosi acerbo dolore, che tramortì, et poi morì subito, non senza lagrime di tutta Roma, essendo ella colei, che manteneua amicitia fra Cesare, e Pompeo. Ma doue rimane Laodamia figliuola di Acusto Tessalo, che portò al marito Protesilao cosi ardente amore, che egli essendo andato alla guerra Troiana visse in continue lagrime, et dolori, sempre chiamandolo, fin che le fù portato il corpo di lui, che fù ucciso da Ettore, et vinta da crudel cordoglio sopra il corpo morto se ne morì. Hiphisicratea, come scriue Valerio Massimo, amò con ferma fede, et amore Mitridate suo marito, che per andarli sempre dietro, et esserli compagna, et aiutarlo in mille suoi trauagli si tagliò i capelli, et si armò come soldato seguitandolo ouunque andaua, et à lui fù di molto contento. Cornelia amò ardentemente Pompeo suo consorte, et sempre seguitollo in pace, et in guerra, et dopo che fù ucciso da Tolomeo à tradimento lo pianse, et sempre si lamentò fino alla morte. Ma che dirò io della gran pietà, et del saldo amore della moglie di Alessio? il quale essendo stato cacciato in un monastero à farsi monaco da Manuelo Comneo, fingendo che Alessio hauesse voluto con incanti torli la vita, ella andò à gittarsi dinanzi a i piedi di Manuelo, che era suo zio, et molto lo pregò, et mostrò con molti giuramenti, che à torto il marito soffriua. Ma il crudo Imperator, anzi seuer tiranno, non guardando se lo’nocente à torto od à ragione affliggesse, volendo fare à suo modo, et come li piaceua, non volle punto mouersi à misericordia ne per la verità, che ella gli mostraua, ne per le sue affettuose lagrime, ne per l’habito, in che ella era. Onde la pietosa donna, non potendo in modo alcuno aiutare il marito, passò a miglior vita consumata dal dolore, et dalle lagrime. Questo racconta Niceta Acominato. Porcia portò tanto
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vero amore al suo sposo, che essendole morto, et per lo dolore volendosi uccidere, ne hauendo cosa alcuna da poter ciò far, inghiottì carboni accesi, et cosi finì la sua vita. Ne minor di quel di Porcia fu quello di Fille verso Demosonte suo caro sposo, il quale hauendo tolto licenza dalla moglie d’andare à vedere il suo imperio, con promesse di ritornar fra un mese, essendo poi passato il termine di quattro, senza che nouella di lui s’hauesse, et per fermo tenendo, che egli fosse morto, per dolore s’impiccò. Hipermnestra portò un vero, et sincero amore à Lino suo consorte. Hauendo Nerone fatto che Seneca si eleggesse qual morte più li piaceua, Seneca si hauea eletto di voler morire col lasciar la vita, et il sangue in un bagno, Pauolina sua moglie mossa da fido amore s’era deliberata di voler morir seco (benche egli non volesse) perche, come erano stati compagni in vita, voleua che il medesimo nella morte altresi auenisse, et cosi fù posta con Seneca nel bagno. Ma come questo intese Nerone, subito mandò molte persone à farle fermare il sangue, et ritenerla in vita, et essendogliene uscito molto, sempre poi restò pallida, et sempre nel volto il segno del suo casto amore seruò. Ma doue rimane Triaria la quale spinta da matrimoniale amore seguì il marito L. Vitellio nella guerra ciuile, che i Vitelliani fecero contra Vespasiano. Et in quella notte, che il marito uscì di Terracina co’ soldati, ella come sua fidissima compagna lo seguì, et fece opera piu che di prode caualiere. Durando la legge de’ Triumuiri, nella quale coloro, che non manifestauano i proscritti cadeuano nella medesima pena, per paura della quale molti haueuano traditi i propri figliuoli, i fratelli; et i padri; Ligario fù uno de’ proscritti, il quale dalla moglie fù lungo tempo tenuto secreto in Roma, ma una serua, che haueuano, l’accusò. Venuti i ministri et pigliato, menauanlo al luogo destinato per farlo morire, ella andaua dietro al marito, pregando i ministri che lei anchora, uccidessero, dicendo che secondo la legge, la morte meritaua, per hauer’ ella tenuto in casa il marito proscritto. Ma non v’essendo alcuno, che la volesse compiacere, tornò à casa, s’astenne di mangiare, et con gran trauaglio con la fame, et con le continue lagrime finì la sua vita. Mostrò similmente grand’amore verso il marito Arria, percioche essendo nominato nella congiura Scriboniana, fù pigliato in Schiauonia, et menato à Roma. ella fece ogni sforzo, accioche con esso lui la menassero, il che
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hauendo indarno tentato fu cagione, che con una barchetta dietro fino à Roma se n’andasse, et quando alla presenza fù di lui con un pugnale si passò il petto, e non men piena d’Amore, che forte d’animo si cauò il pugnal del petto, ilquale porse al marito, accioche similmente egli si uccidese, anzi, che alle mani de manegoldi venisse, dicendo per darli animo, che la ferita non li doleua punto. Oltre à queste, che direm noi di quelle donne Spartaneet allequali essendo stati imprigionati i mariti da Lacedemoni, ogni giorno andauano alla prigione, et dopo molti prieghi ottennero di fauellare à mariti, le quali entrate dentro confortarono i lor mariti, che con le lor vesti, si vestissero da donna, et uscissero di prigione col capo coperto, come elle andauano, et cosi le pietose donne rimasero in prigione, per dar libertà a’ mariti, à soffrire ogni tormento, et gli huomini uscendo ingannarono le guardie; et subito pigliarono Taigeta, et cosi i Lacedemoni lor diedero poi le mogli, et si partirono da Sparta. Grande veramente è la beneuolenza delle donne verso i fratelli, come per gli seguenti essempi palesemente si conoscera. Haueua il Rè Dario condennato à morte Itapherne co’ figliuoli; et con tutto il parentado; la moglie d’Itapherne andò al palazzo, et riempì ogni cosa di pianto, et di lamento. Onde Dario mosso à misericordia, le fece dire, che domandasse qual più le piaceua di quelli condannati, et essa domandò il fratello, ch’era nel numero de’ dannati. Merauigliossi Dario, ch’ella hauesse preposto al marito, et a’ figliuoli il fratello. Essa rispose, che se perdeua questo fratello, non ne era piu per hauere un altro, ma se perdeua i figliuoli, et il marito, poteua hauere altri figliuoli et un’altro marito. Da questo si può conoscere, che verso i mariti, et verso i fratelli sempre le donne sono amoreuoli. Grande similmente fù l’amor di Hisiphile verso il suo carissimo Padre Thoante. costei essendo Reina dell’isola Lenno, tutte le donne si consigliarono di uccidere i loro padri et determinarono. che colei, che ad alcun huomo perdonasse, s’uccidesse. Ad Hisiphile cio spiacque, et dolente, et lagrimosa per pietà del vecchio padre Thoante, et perche già hauea veduto ad Alcimede portar la testa del proprio padre, se le arricciaro i capelli, come la fa dir Statio nella sua Thebaide, che fatta in volgar dal Valuasone, cosi suona.
Il crin mi s’arricciò, tremar le piante
Mi venne in mente il mio padre Thoante.
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Et tosto corse al padre, et lo fece fuggire, et poi fingendo di hauerlo ucciso; accomodò un Rogo col manto, con lo scettro, et con l’armi del genitore. Et hauendo tinto un coltello nelle ferite, si asise appresso il Rogo; perche se stata fosse scoperta, quelle altre donne, ch’uccisi haueuano i suoi, haurebbono lei uccisa. Non fù grande amore verso il padre quello di quelle cinquanta figliuole di Danao, le quali per ubbedire à lui uccisero i miseri giouini loro sposi. grandissimo fù l’amore, et la beniuolenza di Althea verso i fratelli, che furono uccisi dal suo proprio figliuolo, il quale nascendo, si dice, che le Parche tolsero un legno, et lo misero nel fuoco, et dissero; tanto durerà la vita di questo fanciullo, quanto si mantenerà questo legno: Althea, partite le Parche, prese il legno, et con grande custodia lo guardò: essendole da lui morti i fratelli, spinta da fraterno amore lo gettò nel fuoco, come dice Ouidio nel lib. 8. per priuarlo di vita.
Me miseram, male vincetis, sed vincite fratres.
Dummodo quae dedero vobis solatia, vosque
Ipsa sequar, dixit, dextraque auersa dementi
Funereum torum medios coniecit in ignes,
Et cosi vinse l’amor fraterno quello del figliuolo. Ma doue rimane Drusilla, che tanto amò il marito, che con animo forte, et generoso uccise il suo nemico, facendo auelenare il vino, che volle, che il sacerdote porgesse à Tanacro. facendo prima fare l’essequie al morto marito, come dice l’Ariosto nel canto 37.
Tosto, ch’al fin le sante essequie foro,
E fù col tosco il vino benedetto,
Il sacerdote in una coppa d’oro
Lo versò, come hauea Drusilla detto:
Ella ne hebbe quanto al suo decoro
Si conuenia, e potea far l’effetto;
Poi diè à lo sposo con viso giocondo
Il nappo, e quel li fè apparire il fondo.
Et cosi fece vendetta del Tiranno. et certo anchor grande era la beneuolenza di Gildippe verso il caro Odoardo, come ben dice il Tasso nel primo libro di lei ragionando.
Ne le scole d’amor, che non s’apprende?
Iui si fè costei guerriera ardita.
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Va sempre affissa al caro fianco, e pende
Da un fato solo l’una, e l’altra vita
Colpo ch’ad un sol noccia, unqua non scende;
Ma indiuiso è il dolor di ogni ferita:
E spesso è l’un ferito, e l’altra langue,
E versa l’alma quel, se questa il sangue.
Son le Donne state similmente verso i figliuoli loro oltre à modo amoreuoli, con cio sia cosa, che molte di loro si sieno d’allegrezza morte, come in Tito Liuio si legge, raccontando egli che dopo la graue sconfitta, che i Romani lungo il lago Trasimeno riceuerono, assai huomini, ma molte più donne corsero alle porte della città per udire certa nouella della vita, o della morte de loro perscritti parenti, et tra l’altre donne una ve n’hebbe, la quale, per hauere udito affermare la morte del suo amato figliuolo, mentre da smisurato dolore era trauagliata, si vide, oltre ad ogni sua credenza, il figliuol sano, et saluo innanzi comparere, onda da souerchia letitia soprapresa incontanente l’anima spirò. Et un’altra, la quale per morto hauea il figliuol pianto, et in andarsene à casa allo’mprouiso lo’ncontrò, onde vinta da grandissimo giubilo subito si morì. Ne si mostrarono elleno meno affabili, ne meno amoreuoli verso i mariti loro, perche leggiamo, che Argia, figliuola d’Adrasto Rè d’Argo, non cessaua giamai di chiamare il suo molto amato sposo Polinice, che da Lae suo padre l’era stato ucciso; et perche Creonte hauea grauemente difeso, che i morti non si sepellissero, ella in compagnia d’Arrigona sorella di suo marito arditamente, et senza punto curare l’empio editto del tiranno, di notte tempo andò à cercar fra morti il corpo del suo caro Polinice, il quale essendo da lei ritrouato con molte lagrime lo sepelli, il che peruenuto alle orecchie del crudel Creonte fu cagione, che la facesse uccidere. Deidamia doue resta? la qual fù tanto amoreuole verso il marito, che poi che fù morto à Troia, visse sempre vedoua, sconsolata, pascendosi solo della memoria di lui. Merauiglioso senza dubbio fù l’amore d’Alceste verso il caro marito Admeto, poiche diede la sua vita in preda à morte per conseruarlo in vita. Eraclito, chiedendo à l’oraculo se lungo tempo viuerebbe, gli fu da quel risposto, che in pochissimo tempo finirebbe la sua vita, quando egli non
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ritrouasse chi morire per lui volesse: egli oltre à modo dolente per la vicina morte domandò al Padre se per lui morire volesse, et il simigliante domandò alla Madre, à figliuoli, à fratelli, de quali ogn’uno ricusò di voler per lui morire. Ma la cortese moglie, come questo intese volontariamente alla morte si offerse, et saluò la vita al marito. Conoscere etiandio da quello che dice l’Ariosto si può se grande fosse l’amore, ch’al marito portaua Vittoria Colonna in queste stanze.
Se Laodamia, se la moglier di Bruto;
S’Arria, s’Argia, s’Euadne, et altre molte
Meritar laude per hauer voluto
Morti i mariti esser con loro sepolte,
Quanto honore à Vittoria è più douuto
Che di Lete, e del Rio che noue volte
L’ombre circonda, ha tratto il suo consorte
Mal grado de le Parche, e de la morte?
Se al fero Achille inuidia de la chiara
Meonia tromba il Macedonico hebbe,
Quanto inuitto Francesco di Pescara
Maggior à te, se viuesse hor, l’haurebbe?
Che si casta mogliere, e à te si cara
Canti l’eterno, honor, ch’à te si debbe,
E che per lei si’l nome tuo rimbombe,
Che da bramar non hai piu chiare trombe.

Dell’amore delle donne verso la Patria.
Cap. XI.

[Amor della patria quanto possa.] Hanno etiandio le donne antiposto al proprio bene l’honore, et l’amore della Patria; ne in questo hanno portato punto d’inuidia à gli huomini: anzi molte volte hanno lor peruenuti, ò li hanno superati, ò gli hanno innanimiti, et incittati alle difese, et alle vittorie; et veramente, come disse Cicerone nel libro de gli uffici, cari sono gli amici, cari i Parenti; ma l’amor della Patria contiene tutte le altre cose. Et non si può se non con verità affermare
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il detto di quel filosofo, Nihil est dulcius quam libera Patria frui. Et però molte Donne posero il petto inuitto per liberar l’amate mura da l’insolenza de’nimici. Essendo dunque assediati gli Spartani, haueuano gli huomini determinato di mandar tutte le Donne in Creta, allaqual cosa tutte contradissero, fra le quali vi si trouò Archidamia valorosa, et forte, che prendendo una spada in mano andò in Senato, et riprendendo gli huomini, disse se pensauano, che le Donne volessero viuere, quando Sparta fosse pigliata, et ruinata. Onde stupefatto il Senato d’un tanto ardire, rispose che tutto quello à lei piacesse, l’altre facessero. Subito le corraggiose Donne andarono, et mandarono à cauar fosse, et à fare altri ripari, et vollero, che i soldati si riposassero: et molte di loro combattendo fecero loro inuidia. Hauendo gli Efori condannato à morte Agide Spartano con inganno ordito da loro; et essendo menato in una prigione doue si soleuano strangolare coloro, che erano condannati à morire, venne alla prigione, l’auola, et la Madre di Agide, pregando et domandando con gridi, ch’egli potesse dir la sua ragione dinanzi a’ suoi Cittadini; Per questo i nimici d’Agide spauentati, affrettarono à lui la morte, temendo che non fosse cauato di prigione la notte dalle Donne, et perciò subito fù strangolato. Ma Anfare, il quale era uno di quelli, che condannarono à morte Agide veggendo à terra la madre di lui giacersi, laquale Agesistrata s’appellaua, et che per lo smisurato dolore non hauea pace, presela per mano la leuò in piedi, et dissele non temere d’Agide; percioche non è alcuno, che gli usi forza, ne crudeltà alcuna, et se ti piace puoi entrare à vederlo, et ella pregollo, che lasciasse con esso lei anchora entrare la Madre sua, laqual era auola di Agide: disse Anfare crudelissimo, menala, che non c’è alcuno, che te lo vieti et pigliatele amendue per mano, menolle dentro, e fece ferrar la porta della prigione, et fece uccidere Archidamia già dalla vecchiezza consumata, laquale era tenuta in grandissima reputatione, et riuerenza per saper le cose publiche. Dopo che fù amazzata costei, disse Ansare ad Agesistrata, che andasse à vedere il figliuolo, et subito entrò dentro, et vide il figliuolo morto, et la mardre, che haueua anchora il laccio al collo: ella dolente: ma forte ne punto mostrando il dolore, che l’animo premea, aiutò à leuare il capestro dal collo alla Madre, et la mise à lato ad Agide, e l’uno, et
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l’altra con una veste coperse, et poi gettandosi sopra il figliuolo lagrimando disse. La tua carità verso la Patria, figliuol mio, ha ruinato te medesimo, et noi insieme. Ma Anfare, udente cotali parole, disse con voce empia. Agesistrata, perche tu persuadeui il tuo figliuolo à far questo, tu hai da morire con lui, et l’animosa Agesistrata acconciandosi il laccio al collo, disse, dolce è la morte, pur che gioui alla mia Patria Sparta, et cosi subito fù morta. Amatrice veramente della Patria fu una Madonna Paola della famiglia de Buti degna d’eterna memoria: perche essendo assediata Pisa, laquale era piena d’ogni commodita circa il combattere, et il nutrirsi, ma le mancauano solamente persone, che facessero fosse, et i ripari alla Città. Ne poteua il senato per la poca copia d’huomini à questo bisogno prouedere. Ella si appresentò al Senato, et promise di voler saluar la Città con le ceste, se mille Asine simili alle sue date le fossero, mostrando loro Ginerua, et Lucretia sue figliuole. Missesi il partito, et fù vinto, et subito furono ritrouate le ceste, et le pale, et cosi le Donne ressero la Città inespugnabile. Racconta il Conte Giouanni Castiglione di una giouine Pisana, laqual valorosamente difese la patria, nella cui morte fu fatto questo bellissimo Epigramma.
Semianimem in muris mater Pisana puellam
Dum fovet, et tenero pectore vulnus hiat:
Nata tibi has, dixit, thedas, atque hos Hymeneos
Haec defense tuo moenia marte dabunt.
Cui virgo haud alias thedas, alio sue Himeneos
Debuit haec nobis grata reprendere humus.
Hanc ego solameo seruaui sanguine terram,
Haec seruata meos terra tegat cineres.
Quod si iterum ad muros accedet Gallicus hostis
Pro patria arma iterum ossa haec cinisque dabunt.
Et questo leggiadro Epigramma fù poi recato dal Domenichi in lingua volgare; che qui sotto noteremo.
Mentre abbracciaua la Pisana Madre
La valorosa, e quasi morta figlia,
Et l’ampia piaga il tener petto apriua
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Queste le nozze sien, questo il marito
Disse ella, che tu haurai da queste mura,
Di fese col valor della tua mano.
Cui la donzella; et altre già non voglio
Pompe ò marito hauer dal patrio nido,
Sola difesi col mio proprio sangue,
Coprà ei difeso dunque il corpo mio;
Che se mai torneranno à queste mura
I nimici Francesi, un’altra volta
L’ossa mie prenderan l’armi per lui.
Ne minor fù l’amore della madre di Pausania verso la Patria; percioche hauendo Pausania tenuto da Persi contra la Patria, et per questo richiamato nella Città da gli Ephori, et conoscendo che essi ogni cura metteuano per ritenerlo, fuggì nell’Asilo di Pallade, questo luogo era sacro, et molto reuerito; Onde sarebbe stato fatto ingiuria a’ Dei, che l’hauesse di là cauato: et perche determinarono gli Ephori di chiuderlo dentro, et farlo morire di fame, la Madre di lui corse, et innanzi à tutti portaua la materia di chiudere le porte del tempio, tenendolo per nimico; perche haueua operato contra la Patria questo racconta Emilio Probo con tai parole. Dicitur eo tempore matrem Pausaniae etc. Cruda verso il figliuolo fù Danatriona Spartana per amor della Patria; perche essendo il figliuolo andato alla guerra, intese che era timido, et vile ne pericoli; onde ritornando ella di sua mano l’uccise, et fece porrre questa sentenza sopra il sepolcro; DAMATRIONA fù la Madre, che quì ripose il suo figliuolo: et perche ella lo vide timido, et indegno della Madre, et di Sparta sua Patria, di sua propria mano l’uccise. Et un’altra Madre non meno amorosa verso la Patria, vedendo venire il figliuolo, subito li domandò in che stato fossero le cose Della Patria; et egli rispose, che tutti gli altri erano morti: prese ella un tegolo, l’auentò di gran furia nella testa al figliuolo dicendo: dunque sei rimaso viuo per portare si dolorosa novella alla Patria? et egli di quel colpo si morì. Guerreggiando i Latini co Romani; i Latini domandarono a’ Romani alcune fanciulle vergini: i Romani non sapendosi in questo determinare, temeuano à prendere una guerra grande non hauendo allhora troppo gran forza, et temeuano che i Latini fingendo di
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volersi apparentar con loro, malitiosamente cercassero di hauere gli Statichi in mano, ma una fante, che hauea nome Tutola, ò come dicono alcuni Filoti, fece sapere al Senato, che facessero vestire di pretiose vesti molte serue delle piu belle, et delle più vaghe, che nella città si fossero à guisa di nouelle spose, et le mandassero a’ Latini. Del rimanente lasciassero il carico à lei. Accettarono i Senatori il suo ottimo ricordo et fecero la scelta delle serue, le vestirono, et ottimamente ornarono et le mandarono a’ Latini, che poco lontani dalla Città accampati s’erano: come fù la notte, le serue leuarono le spade a’ nemici, et Tutola salendo sopra un fico, gettandosi la veste su le spalle alzò una fiamma verso Roma, come haueua a’ Senatori detto che farebbe; i quali affrettando i soldati, presero gli alloggiamenti de’ nimici, et molti ne tagliarono à pezzi, In memoria dunque di cosi lodeuole fatto fù ordinata in Roma una festa, che si chiama delle serue. Non cedono à queste le donne di Smirna; percioche hauendo i Sardeschi posto l’assedio alla Città di Smirna. fecero intendere a’ Cittadini, che non si voleuano mai partir dall’assedio fino che non li dauano in mano tutte le lor mogli. Per la qual cosa, altro, che una graue bonta de gli Smirnei non s’aspettauano. quando una loro aueduta serua gli confortò à mandar tutte le serue loro, adornate delle vesti delle padrone, à nimici, per gabbargli. Il che, come ottimo compenso a tanto lor male, fecero. I Sardeschi adunque riscaldati dal vino si diedero à ridere, et a sollazzarsi con le serve da lor stimate le mogli de nimicim che gli fece diuenir pigri, et trascurati. Gli Smirnei veduto il tempo opportuno arditamente usciron fuori, et correndoui sopra tutti gli fecero prigioni, et per l’aueduto auiso d’una Donna la patria loro da grandissima vergogna liberarono. Essendo i Persiani da’ Medi messi in fuga nella guerra, che Ciro facea loro, le Donne fatto loro animo in dietro gli fecero ritornare, et cosi s’ottenero una non isperata vittoria, Grande senza dubbio, fù l’amore, che Vetturia portò à Roma sua cara patria, perche hauendo Martio Coriolano suo figliuolo assediata Roma, et non volendosi per lo mezzo de gli ambasciatori ne de Sacerdoti placare, ella, pigliata seco Volummia, moglie di lui, et due suoi figliuolini, andò nel campo nimico. Coriolano intendendo da un suo huomo, che quiui la madre sua era venuta; a quel riuerendo nome subito scese giu del tribunale per girsi ad abbracciarla. Laquale ciò non
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permettendo, disse. Fa che prima, che tu m’abbracci, io intenda, s’io mi son venuta à visitare il figliuolo, od il nimico, et s’io mi son nel campo tuo prigiona, ò serua, ò madre libera? Deh m’haurà la mia lunga Vecchiaia seruata à vederti non pur bandito, ma nimico ancora? Hai dunque tu potuto ruinare, et rubare questa terra, che ti ha generato, e nutrito? come non ti cessò ogni odio, quando entrasti dentro questi confini? come, quando Roma s’offerse à gli occhi tuoi, non ti tornò egli à mente, come dentro à quelle mura è la mia casa, gli miei Dei famigliari, la Madre, la donna, et i tuoi figliuoli? Adunque s’io non t’hauessi partorito, Roma non sarebbe combattuta, et s’io non hauessi hauuto figliuoli, io sarei morta libera nella mia Patria libera. Ma horamai io non posso patire cosa alcuna, ò à me piu misera, ò à te più brutta, et vitupereuole. Ma se ben sono infelicissima, non posso cosi durare molto tempo; pensa tu à costoro, i quali se cosi vai seguitando, tosto saranno soprapresi da morte acerba, ò da lunga seruitù. La moglie poi l’abbracciò, et i figliuoli; et cosi si piegò Martio, ilquale tosto ritirando l’essercito, si partì del contado di Roma. Queste sono parole di Tito Liuio; onde si può ben dire à ragione, che questa gran donna era degna di Poema chiarissimo, et d’Historia. Nella guerra di Enea con Turno le donne, non difesero la Patria? come dice Virgilio nel libro undecimo in questo modo?
Ipsae de muris summo certamine matres
(Monstrat amor verus Patriae) ut videre Camillam
Taela manu trepide iaciunt, ac robore duro
Stipitibus ferrum, sudibusque imitantur obustis
Praecipites, primaeque mori pro maenibus audent.
I quali versi fatti in volgare da Annibal Caro cosi suonano.
——-In su i ripari
Anchor le donne, (che le donne anchora
Il vero de la Patria amore infiamma)
Come giunte à l’estremo, alhor che morta
Vider Camilla, il feminil timore
Volgono in sicurezza, et sassi, et dardi
Lanciando, et con aguzzi inarsicciati
Pali, il ferro imitando; osano anch’elle
Gir le prime à morir morte honorata.
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Et il Tasso nel Canto undecimo dice, che molte donne difendeuano Gerusalem in questo modo.
E mirando la Vergine gagliarda:
Vero amor de la Patria, arma le donne.
Correr le vedi, e collocarsi in guarda,
Con chiome sparse, e con succinte gonne;
E lanciar dadi, e non hauer paura
D’esporre il petto per l’amate mura.
Hauendosi Aristodemo fatto Tiranno di Elide, bandì quasi tutti i Cittadini, ch’erano intorno ad ottocento, tutti insieme se ne andarono à saluarsi in Etolia, et poi fecero pregare il Tiranno, che li piacesse mandare i loro figliuoli, et le mogli: ma questo non poterono impetrar dal Tiranno. Il quale fingendo di essere mitigato, mandò un bando, che in un certo giorno determinato douessero tutte le mogli de banditi co’ figliuoli, et con tutto quello, che piaceua loro andare à ritrouare i mariti. Tutte credendo che fosse vero, allegre aspettauano il giorno assignato: venuto il giorno tutte si ritrouarono alla porta della Città, per doue haueuano ad uscire con le lor cose. Alcune haueuano i piccioli figliuolini in braccio, et i più grandicelli per mano, altre andauano sopra i carri, portando in seno i lattanti pegni, et quiui le une aspettauano le altre, per potersi, raccolte tutte insieme, partirsi. ma subito i ministri del Tiranno furo loro dietro, et saliti soura i carri, indietro gli voltarono con gran macello de misero puttini; percioche alcuni cadeuano da i carri; ad alcuni altri, che erano su la strada, le ruote delle carrette andauano sopra, et l’infrangeuano, et à l’ultimo con molta crudeltà le cacciò in prigione. Questa cosa mosse molto i petti de gli Eliensi. Onde le sacerdotesse di Bacco sacerdotalmente ornate andarono à pregar il Tiranno per le donne con le cose sacre in mano per mouere più l’ostinato cuore di lui. Il crudele, come le vide, stette cheto ad ascoltare: ma come udì, che erano venute à pregar per le donne, subito salì in grandissima rabbia, et commandò, che fussero mandate via con molte bastonate, et pagassero duo talenti per una, et cosi fù fatto. In questo mezzo gli Eliensi, ch’erano ricouerati in Etolia con quelle poche genti, che haueuano potuto mettere insieme, haueuano occupato una parte del territorio di Elide, vicino alla Città,
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doue sicuramente poteuano starsi, et far guerra al Tiranno. Ogni giorno fuggiua della Città qualch’uno, per non vedere il Tiranno. Altri erano da lui banditi, i quali si andauano volontariamente ad unire con coloro, che haueuano occupato il territorio; onde fecero un’essercito grande. Il Tiranno di ciò impaurito, andò alla prigione dalle donne, et con gridi, e minaccie comandò loro, che scriuessero a’ mariti, et gli pregassero, che leuassero l’assedio della Città, altrimenti egli le haurebbe uccisi i lor teneri bambini dinanzi à gli occhi, et loro anchora dopo diuersi, et strani tormenii. Le donne udendo questo si guardauano in viso l’una l’altra, mostrando di non temere punto le sue crudeli minaccie. Quando Megistona, moglie di Timoleonte, la quale, per la nobiltà del marito, et per lo natio valore, era la prima, sdegnò, alla venuto del Tiranno, de leuarsi in piedi, et il medesimo haueua ordinato, che facessero tutte le altre, rispose all’empio in questo modo. Se tu hauessi un poco di ceruello, non ci comanderesti, che scriuessimo à mariti; ma noi stesse, come à nostri Signori manderesti à negotiar in miglior modo, et più lealmente, che non facesti dianzi, quando c’ingannasti: Ma perche ti truoui senza speranza di poter dalle lor mani fuggire, vorresti per il mezzo nostro anchora loro ingannare; tu sei in errore, se credi, che di nuouo ci vogliamo lasciare fare inganno, et che essi lasciassero, l’assedio per liberar da morte i figliuoli, et le mogli lasciando la Patria restarsi nella tua seruitù. Ma questo no’l faran mai; perche tanto non perderanno perdendo, noi, et questi figliuoli, quanto acquisteranno, liberando dalle tue mani la Patria loro. Seguiua la corraggiosa Megistona, quando il Tiranno non potendo più sopportare, comandò, che gli fusse portato il fanciullo di lei per volerlo uccidere dinanzi à gli occhi della madre. I ministri non sapeuano ritrouare fra tanti fanciulli il suo. Essa lo chiamò dicendo, vieni figliuolo mio: accioche sii il primo à prouare la crudele asprezza del Tiranno; perche maggiore è il mio dolore à vederti seruo contra la tua dignità, che morto. Il Tiranno udendo il parlare di lei cosi animoso, con furia mise mano alla spada, et si mosse per andare ad ucciderla; Ma un suo famigliare lo tenne con ragioni efficaci, et con prieghi, et si partì di prigione: essendo poi in camera con la moglie, et co figliuoli vide volare
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un’Aquila che lasciò andare un gran sasso sopra la parte della casa, che rispondeua alla camera del Tiranno, et leuandosi un gran strepito, sparì da gli occhi d’ognuno. Egli pieno di spauento chiamò uno indouino, et li dimandò, che volesse significare questo, et egli rispose, confortandolo, che questo era un segno, che Gioue li voleua gran bene, et lo voleua aiutare ne’ suoi bisogni. Cosi disse al Tiranno, et in uno altro modo disse a’ Cittadini; percioche quello era segno, che’l Tiranno doueua incorrere in un gran pericolo; onde essendosi uniti certi huomini, che haueuano congiurato contra lui, fra quali era uno chiamato Hellanico, non volsero piu aspettare à porre la Patria in libertà, et vedendo il Tiranno venirsene in piazza, senza guardia, gridò Hellanico. O fratelli mostrate hora un bellissimo spettacolo alla vostra Città; et Chilone uno de’ congiurati messe mano alla spada, et uccise uno, che accompagnaua il Tiranno. Ma esso fuggì nel tempio di Gioue, et fù da coloro, che lo seguitauano morto. La moglie del detto Tiranno s’impiccò per la gola, come udì la morte di lui: et due figliuole, che v’erano fecero il medesimo, inuitando l’una l’altra; perche i Cittadini voleuano far loro vergogna. Ma Megistona ch’era uscita di prigione con le altre donne le difese, dicendo, che pazzia è la vostra ò Cittadini? odiate le tiranniche crudeltà, et poi volete far peggio assai? et per la sua difesa morirono caste, et inuiolate le figliuole, et pregarono Megistona, et dopo la lor morte, non le lasciasse in terra dishonestamente giacere, et cosi fù liberata la cara Patria dall’ingiusto Tiranno. Che vi pare per vostra fè ò fratelli dell’animoso petto di Magistona? et di tutte quelle altre donne veramente degne di eterna memoria. Grande certamente sempre fù nel cuore donnesco l’amore della Patria, come oltre à tanti essempi si può conoscere nelle donne d’Aquilea; perche essendo assediata Aquilea da Massimino, et mancando le funi per gli archi, le donne sprezzando la bellezza de’ capelli se li tagliarono per amore della Patria: et il simile fecero le Romane, et quelle di Marsilia in altri tempi. Da questi pochi essempi, pochi à comparatione di quelli, che lascio, si può vedere con quanta vehementia, et ardore posero le magnanime donne il petto per forte scudo alla care, et amate mura, et non solamente offrirono volontariamente la vita alla morte per loro: ma uccisero i figliuoli, a’ quali ogn’uno per se stesso sa
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quanto amore, portino le pietose madri: et per dirlo in poche parole si spogliarono del proprio hauere, della bellezza, de figliuoli, et della vita, che pur è cara; sapendosi che la morte est ultimum terribilium, per amore della Patria. Grande senza dubbio fù l’amore, che portò alla Patria una donna Spartana, laquale hauendo cinque figliuoli maschi, tutti li mandò alla guerra: dopo alquanto tempo venne un’huomo dal campo à Sparta, et ella lo domandò, come andauano le cose, egli rispose, che erano morti nelle battaglie tutti cinque i suoi figliuoli, et ella disse, io non ti domando questo: ma come stanno le cose della guerra per utilità commune, egli disse, vanno bene, et ella rispose, à me poco monta la morte de’ figliuoli, già che la patria resterà honorata, et non suddita. Non è bene, che Ifigenia rimanga sotto il silentio, laquale fù cosi amatrice della Patria, che sapendo, come l’oracolo haueua detto, che bisognaua che fosse sacrificata a Diana sdegnata per lo Ceruo che uccise suo padre Agamennone, ella vedendolo afflitto, e dolente per cotal vaticinio, mossa da una salda fortezza, e da uno amore fedele verso la Patria tormentata da l’ira di Diana disse à lui queste parole, le quali sono nella tragedia di Euripide nomata Ifigenia.
At illa patri proxime assistens suo,
Hoc elocuta est, ò parens, adsum tibi,
Et hocce corpus pro salute patriae,
Proque uniuersa Grecia trado volens,
Ut immolandum hinc ad dicatas numinis
Bucatis aras, quando diuum oracula.
Ita canunt. prorsum quod ad me pertinet
Et rem geratis bellicam feliciter,
Laetaeque vobis premium victorie
Cedat.